Il Mondo Nuovo della Fortezza

9 Agosto 2024

Viene in mente Infinities di John Barrow con la regia di Luca Ronconi (Milano, Spazio Bovisa, 2002) a vedere Atlantis, capitolo secondo, l’ultimo atto di una ricerca che Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza sta sviluppando da anni all’interno del carcere di Volterra. Come quello, anche questo è uno spettacolo esploso nello spazio, negli spazi; come quello guarda alla scienza e alla moltiplicazione dei mondi possibili, con una prospettiva fortemente indirizzata al principio di indeterminazione, quello che dice che il mondo si costruisce e noi ci costruiamo nella relazione, nelle relazioni, e che l’osservazione muta lo stesso oggetto osservato e l’osservatore, le loro traiettorie, il loro comportamento.

Questo a differenza di Infinities è uno spettacolo in bianco e nero, rappresentato da detenuti attori e non da professionisti in un carcere sotto il caldo soffocante in un pomeriggio d’estate (è stato in scena dal 27 luglio al 3 agosto, alle 16.30, sotto il sole impietoso del riscaldamento globale). Gli attori della Compagnia della Fortezza in realtà sono ormai più che professionisti: provano, lavorano molte ore al giorno per tutta la settimana, in una ricerca continua sul testo, sul corpo, su sé stessi; sono assolutamente efficaci, spogli nel loro dire, diretti, sempre essenziali, come se scavassero per arrivare a un filone d’oro.

Questa ultima creazione firmata Armando Punzo oltre che alla scienza guarda all’arte visiva, in particolare a quel tipo di arte che dalla fine dell’Ottocento ha rotto con le precedenti convenzioni rappresentative, fino all’astrattismo, all’action painting, alla fuoriuscita dei segni dalla cornice del quadro. Come Infinities è una riflessione sul guardare e sull’essere guardati: in quell’atto di reciprocità crea campi di energia continuamente mutevoli, che allontanano da tutte le aspettative di “teatro in carcere” eventualmente nutrite dagli spettatori.

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Veniamo introdotti tra gli alberi del giardinetto della zona d’aria, con una voce fuori campo e Punzo davanti a un grande cerchio bianco che manipola colori, che fa scorrere terra dalle mani, mentre alle sue spalle, come diaframmi fotografici, si crea un balletto di figure geometriche, cerchi bianchi e neri, segni neri sulla base dei tronchi di alberi ricoperti di carta bianca. Il testo che ascoltiamo, di Ernst Bloch, sull’utopia, sul Principio Speranza, ancora di più ci sposta, annunciandoci un viaggio nei territori del “grande possibile”, dove “colorare il nulla”, insinuarsi nei buchi vertiginosi del reale: “Lo stupore come domanda assoluta. / Il Non dell'origine, il non-ancora nella storia, il nulla ovvero il Tutto alla fine. / Il tenero mattino. / Illusione, leale parvenza. / Non paura e compassione, ma ostinazione e speranza. / Le utopie hanno il loro orario. / Bella terra straniera. / L’equilibrarsi del mondo. / Levità nel profondo, gioiosità della luce. […]”.

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Il programma di sala ci ricorda che è dal 2015 con Dopo la tempesta che Punzo cerca possibilità inedite dell’umano. In realtà la strada dell’uscita dagli stereotipi, da quelli legati alla condizione carceraria come da quelli che costringono in ogni identità predefinita, in ogni ruolo, Punzo con la Compagnia della Fortezza la percorre da molto prima, tanto da aver trasformato il carcere di Volterra, una volta uno dei più temuti, in un luogo ricreato grazie al teatro, tanto diverso dai penitenziari che popolano le cronache dei giornali con sovraffollamento, suicidi, tempi vuoti, disperazione, nessun processo di mutamento.

Il problema lo ha individuato perlomeno dagli inizi degli anni Duemila, se non da quando ha deciso di rinchiudersi tra quelle sbarre nel 1988: staccare il carcerato dallo stigma, dall’idea di essere vincolato alla propria condizione di colpevole, di recluso, di emarginato. Il regista autore ha sempre rifiutato di creare lavori sulla condizione del carcere: ha teso piuttosto il proprio lavoro ad aprire la mente per percorrere territori di libertà, provando a combattere la costrizione nelle maschere assegnate una volta per tutte, trasformando così l’istituto di pena in luogo di riflessione, di creazione di largo respiro, di cultura.

La ricerca sull’utopia di questo nuovo ciclo, con detenuti nuovi, sempre portati a presenze efficaci e scabre, senza orpelli pur se in costumi che a volte richiamano fantastiche invenzioni barocche, è intitolata Atlantis, come le isole di utopia narrate da Platone. Se ne è vista una prima parte l’anno scorso (leggi Maria Nadotti, qui); quella di quest’anno è ancora una serie di appunti, in attesa di completa definizione drammaturgica. Con questo lavoro la Compagnia prosegue la ricerca di un mondo nuovo, un’indagine delle possibilità dell’umano oltre ogni vincolo a condizioni determinate dalle cause di esistenza. Rappresenta una grande fiducia nella ragione, nel sentimento, nell’immaginazione, nelle capacità di proiezione; ogni volta che si aprono le sbarre del penitenziario per far entrare gli spettatori testimoni del processo diventa sfida di creazione e rivela paesaggi interiori e umani inaspettati.

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Lo spettacolo bombarda con immagini cristalline, sostenute sempre dalla musica di Andreino Salvadori, ora insinuante, ora dolce e sottile, ora proiettante in regioni lontane del cosmo o dell’anima. Dietro Punzo appaiono figure bianche, nere o bianche e nere con cappelli conici, figure con finti lunghi baffi che richiamano suggestioni di Toulouse-Lautrec o che alludono a Dali, in tutù velati o palandrane. Come immagini di un Moulin Rouge intinto nella contemporaneità, nel ricordo, in un’aura barbarica, metamorfica e futuribile. Un uomo si contorce su un altro grande cerchio di legno: freme, palpita qualcosa che assomiglia a uno spasimo o a una nascita. Una donna (Isabella Brogi) ti uncina l’anima con una voce simile al boato di un soffio, mentre passano custodi di qualche limite, di confini non da non varcare, da superare. La sabbia che scivola tra le dita di Punzo è scorrere di tempo, è vacuità dell’essere e sua necessità; ed è collegamento con le scene successive, quelle che più mi hanno fatto pensare a Infinities.

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Siamo portati in uno stretto corridoio, su cui si aprono gli stanzini di varie antiche celle. In ognuno, con abiti segnati di parole, con casette di uno spettacolo precedente (Hamlice), con figurazioni ispirate al surrealismo, tra manichini, figuranti bianchi e neri dal volto imbiaccato, rinchiusi in gorgiere, tra ventagli e musiche simili a quelle di carillon, alcuni detenuti attori narrano di esistenze dedicate alla scienza, di nuove geometrie, di scienziati colpiti da qualche alterazione sensoriale, come la corretta percezione dei colori a causa di una luce troppo forte che ha menomato l’occhio, che li ha portati a esperienze o scoperte difformi. Alcuni degli elementi scenici richiamano la storia e la memoria della Compagnia della Fortezza, come punto di partenza per mirare oltre, verso l’ignoto.

Le scene nelle ‘celle’ avvengono in contemporanea e se ne può seguire solo una, per poi essere convogliati nella chiesa sotterranea, dove il quadro si chiarisce: sembra di essere di fronte ai balletti meccanici di Ferdinand Léger, al teatro del Bauhaus di Oskar Schlemmer, alle marionette futuribili di Laszlo Moholy-Nagy. “La nostra determinazione è di stare fuori dalla Storia” annotiamo; e “non tutto ciò che esiste è naturale che esista così”; “non dipingete troppo secondo natura”; e ancora: “mi chiamo fuori da tutto”. Questo balletto meccanico si svolge tra geometria, assenza e proiezione, in una richiesta di azzerare tutto per ricostruire. Cosa? Un mondo nuovo. Come?

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Il come lo vedremo, forse, il prossimo anno. Intanto, in questa esplorazione dell’invisibile, siamo spostati nell’ampio campetto di cemento dove i detenuti di solito passano il tempo dedicato “all’aria” e a varie attività fisiche. Le citazioni e le metafore pittoriche diventano sempre più incalzanti, con le figure di detenuti e attrici che rutilano intorno a Punzo, in un ballo sempre più ritmico, avviluppante tra le ali nere di una figura ragno…

La ricerca è quella dell’arte astratta, avanzata già da quando la Compagnia della Fortezza rifletteva su Punto, linea, superficie di Kandinskij o sul colore puro di Yves Klein e sulle macchie di Rothko. Il finale è una action painting con danza di particelle subatomiche (le figure degli attori), di immagini incrostate di storia (d’arte e di vite) slanciate a inventare nuove traiettorie, sfidando la profondità del nostro destino, quello di tutti noi, ‘liberi’ e ‘carcerati’, ciò che ci è riservato dalle condizioni d’esistenza pregresse; per scoprire fin dove possiamo spingerci, a una “destinazione sconosciuta in cui nulla ci assomigli”. A un mondo diverso dal carcere-mondo, il nostro, che circonda il carcere penitenziario.

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Tutto è opposizione: colore e luce solare contro bianco e nero, bianco contro nero, nero contro bianco, tutto contro niente (il tutto che si svuota, il nulla che cerca di riempirsi), vita contro morte e morte che serve per rinnovare la vita, forma contro informe, informe che aspetta di inventare forme inedite per sfidare a creare inaspettata vita. Cos’è questo ballo di figure che rimanda agli elementi, del macrocosmo e del microcosmo umano, fino alle parti più sottili che ci costituiscono? “È questa la felicità di cui parlo”, sugella il demiurgo interprete, la felicità che nel luogo più sprofondato nel buio dell’esclusione danno due ore di pura invenzione, di teatro meraviglioso regalato da una fenomenale Compagnia della Fortezza, detenuti e liberi, musicisti, scenografi e costumisti (da ricordare le realizzazioni sceniche di Alessandro Marzetti e dello stesso Punzo, i costumi, sempre fantastici, di Emanuela Dall’Aglio, le azioni coreografiche incisive di Pascale Piscina). Più di cinquanta sono in scena, forse un centinaio con tutti gli altri dietro le quinte, tecnici, aiutanti alla regia e alla drammaturgia, e altre figure che curano l’impresa (l’organizzazione generale è di Cinzia de Felice).

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Sono appunti, ripeto, quelli di quest’anno: folgorazioni, visioni, sprofondamenti in archetipi della nostra cultura, ricerca di pathosformeln per slanciarsi verso orizzonti non esplorati, in attesa di composizione drammaturgica in un percorso che impegnerà questo magnifico laboratorio di teatro e di umanità per tutto l’anno prossimo.

 

Le fotografie sono di Stefano Vaja.

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