Cos’è “contemporaneo”? Un ritratto di Twarkowski
Qualche tempo fa, durante una presentazione pubblica a cui stavo prendendo parte, una spettatrice ha alzato la mano per fare una domanda: “Cosa vi fa definire uno spettacolo o un linguaggio contemporaneo?”. Tra i relatori si è creato il gelo. Abbiamo cercato di prendere tempo e mascherare l’imbarazzo con colpi di tosse e qualche battuta malriuscita. Poi, mentre un collega coraggioso arrangiava la prima risposta, ho provato a mettere a fuoco la mia (mettendo da parte la vigliacca tentazione di contestare l’utilizzo dell’aggettivo): ho la sensazione di essere di fronte a uno spettacolo contemporaneo ogni volta che l’artista mi pare porsi con radicalità – e con qualunque esito – il problema della relazione con il tempo in cui vive. L’esempio più semplice, per rendere la questione meno astratta, è interrogare il rapporto che il teatro (o un singolo spettacolo) instaura con la comunicazione virtuale e con il (conseguente) disturbo di attenzione da cui siamo afflitti. Mi capita per esempio di trovare polverose, e non contemporanee, moltissime performance che proiettano in scena chat, intelligenze artificiali, o dirette twitch: mi pare di vedere gli artisti arrivare con il fiatone, e per ultimi, a un convivio in cui altri – più ricchi e benvestiti – hanno già parlato. Viceversa, può accadere di percepire vertiginosamente contemporaneo uno spettacolo che si affidi solo alla forza dirompente di un corpo o di un’immagine, o che riesca a trovare un modo per “scollegare” lo spettatore dal paesaggio mediale in cui è immerso. Ma le ricette e le formule, nel guardare e nel fare, raramente funzionano. Quando, durante il festival Presente Indicativo dello scorso maggio, ho visto Rohtko del polacco Łukasz Twarkowski (poi vincitore del Premio Ubu come miglior spettacolo straniero) ho avuto la sensazione di essere non solo di fronte a qualcosa di bello e nuovo, ma a un linguaggio che mi costringeva a mettere in discussione in qualche modo i parametri di visione. Sebbene Antonio Attisani abbia scritto su queste pagine che “i critici sono ormai ridotti a promoter dei teatri che li invitano” e che “nessuno di loro partecipa alla cultura attiva (…) come avveniva nel secolo scorso”, la risposta di colleghi e colleghe in quell’occasione è stata immediata: senza preavviso – cioè non appena si è sparsa la voce di quanto notevole fosse lo spettacolo – in diversi hanno preso treni da tutta Italia per arrivare al Piccolo Teatro di Milano, hanno alzato il telefono, hanno guardato le tournée di Twarkowski per provare a intercettarne i lavori. La stessa cosa, per altro, hanno fatto diversi artisti e molti spettatori. Dal canto mio, durante i fragorosi applausi di Rohtko, mi sono ripromessa di dare seguito alla folgorazione, e di trovare il modo di vedere in tempi brevi almeno altri due lavori.

Così ho fatto. A giugno sono andata ad Atene per Respublika, cioè una performance-rave immersiva di sei ore (organizzata dalla Fondazione Onassis al Terra Vibe Park di Malakasa); poche settimane fa ho visto The Employees al Théâtre de Vidy di Losanna. Non racconterò per esteso nessuno dei tre spettacoli: chi ne ha la possibilità, consulti la pagina instagram di Łukasz Twarkowski e provi a seguirlo in una delle sue prossime date. È uno dei casi in cui ne vale comunque la pena, anche solo per scoprirsi lontani o freddi di fronte al suo linguaggio.
Ma cosa fa apparire la sua arte così evidentemente contemporanea? A prima vista, si potrebbero certo indicare le enormi e raffinate macchine tecnologiche che il regista polacco costruisce, forte di una lunga esperienza nel campo del videomaking e della visual art anche al fianco di Krystian Lupa: grandi schermi cinematografici, scatole sceniche scomponibili, telecamere manovrate a vista che proiettano all’esterno scene che accadono all’interno. E ancora, in tutti e tre i lavori: la musica da rave che rimbomba fino a far sobbalzare il petto, gli attori che danzano e invitano il pubblico a fare altrettanto, lo spazio scenico pensato per essere attraversato, abitato, vissuto.
Ma alla terza visione, mi sono accorta che non è (solo) questo il punto: Łukasz Twarkowski è uno dei pochi artisti davvero disposti a lasciar andare il Novecento, le sue categorie, i suoi parametri, le aspettative creative e intellettuali (quelle con cui continuiamo a guardare, anche se il mondo fuori cambia a tal punto da farci mancare la terra sotto i piedi). Curiosamente, non è affatto una questione di età o di percorsi formativi: la scena nostrana è ricca di giovanissimi registi novecenteschi che, a differenza dell’“attempato” quarantenne Twarkowski, replicano (talvolta felicemente) versioni aggiornate di vecchi cari paradigmi. Per misurare il jet lag endemico tra i due sistemi di pensiero, basterà ascoltare qualche commento fuori dalla sala dopo la visione di uno spettacolo di Twarkowski; si sentirà dire, da parte degli spettatori più raffinati, che le drammaturgie sono un po’ superficiali, le letture tematiche scontate, il punto di vista già esplorato.

Ma Łukasz Twarkowski – a differenza di molti altri artisti teatrali, da Milo Rau a Christiane Jatahy fino a Tiago Rodrigues – non è affatto interessato all’esibizione intellettuale e di cultura. I riferimenti, i richiami e le citazioni nei suoi spettacoli (pur presenti) diventano titoli a caratteri cubitali lampeggianti in stile Gaspar Noé, installazioni luminose pronte per un post, frasi da ripetere e canticchiare come i ritornelli di una canzone.
Chi chiede al teatro di Twarkowski un approfondimento sul piano tematico e testuale, o chi si aspetta dalle sue creazioni la profondità del breve saggio teorico non potrà che restare deluso: sarebbe come chiedere la bibliografia a un raver. Eppure Twarkowski, attraverso una perfetta corrispondenza tra forma e contenuto, sembra capace di ingabbiare nella sua colossale e mutevole macchina scenica il presente, con tutto ciò che fatichiamo a capire. Come nell’atto compulsivo di un rapido “scroll” da social network, lo spettatore sposta la sua attenzione tra piani e contenuti differenti, muovendosi con agio tra brevi boutade politiche, pillole di storia, frammenti di riflessione, brandelli di sentimento, brevi momenti di pianto. Qualcosa ci indigna, ci emoziona, ci riguarda? Può darsi, ma non c’è tempo: un’altra finestra si sta aprendo, un’altra immagine si compone, la nostra attenzione è già altrove. Twarkowski, a differenza di molti registi e scrittori, ha il coraggio di attraversare l’overload comunicativo in cui siamo immersi senza giudizio e, proprio per questo, ne trae opere terribilmente e vertiginosamente contemporanee.
