Speciale
Il primo Sosia
Che si sia letto o no Dostoevskij, cosa sia un “sosia” lo sappiamo più o meno tutte e tutti. Ma che il termine provenga da una commedia latina vecchia di 2200 anni, per qualcuno può essere ancora una sorpresa. Quello che poi proprio in pochi ricordano è che, in Plauto, il sosia non è il personaggio di nome Sosia: il sosia in questione è Mercurio, che si traveste da Sosia e diventa così sosia di Sosia. Che il sosia per antonomasia non sia mai stato sosia di nessuno, e che la celebrità del titolo gli arrivi, suo malgrado, da un furto di identità, sembra un bel pasticcio ontologico e linguistico. E lo è, infatti; ma d’altra parte la commedia non si fonda proprio su questo? Sugli equivoci, sui giochi di parole, sugli scambi... «Lo volete, vero, che vi sia favorevole negli affari, in modo che possiate ricavare un buon profitto dai vostri scambi e dai vostri commerci?» – l’Anfitrione plautino si apre con questa ambigua domanda del dio Mercurio, protettore dei traffici leciti e illeciti e santo patrono dei ladri. Qual furto peggiore che rubare a qualcuno l’identità, facendo oltretutto della sua dabbenaggine un trampolino di lancio verso la fama dell’imperituro gesto? Dante, per un furto così, ti avrebbe precipitato nell’ottavo cerchio dell’Inferno, dove i fraudolenti erano condannati, per l’appunto, a perdere identità e fattezze umane, la loro “immagine e somiglianza” con Dio. Plauto, invece, più indulgente e meno ossessionato dall’equilibrio del cosmo, ci ha costruito su una commedia forse non divina, ma comunque fenomenale. Nel senso che tutto verte sulla differenza tra ciò che è veramente e ciò che appare alla vista.
Il teatro può essere considerato come una peculiare branca della fenomenologia, in cui la realtà oltre la scena è messa costantemente “tra parentesi” e il fare esperienza di ciò che appare sul palco diventa per il pubblico strumento di conoscenza, di se stesso e del mondo. Ma cosa succede quando, come nella nostra commedia, a essere in discussione è proprio il primato della vista come organo di conoscenza? Caro pubblico, quello che vedrete qui oggi non è quel che sembra – avverte Mercurio nel suo prologo. Eh sì: in primo luogo, perché quando entra in scena un dio dovremmo essere ben certi di assistere a una tragedia (la tragedia ha sempre per protagonisti eroi ed eroine degne di imitazione, dèi e dèe che operano con giustizia: tutta gente che poco si scomoda per altri generi teatrali). E invece Mercurio, che essendo un mariuolo è anche un po’ prestigiatore, un po’ mago, te la trasforma subito in una tragicommedia: primo prodigio teatrale. E poi: cosa ci fa in scena un dio vestito da servo? Il nostro Mercurio, che nella vita quotidiana assiste Giove sull’Olimpo, ha assunto le sembianze di un servitore umano per dargli man forte sulla Terra. Chi conosce Giove sa che ha il vizio di intrufolarsi nei letti altrui, e oggi il talamo è quello della virtuosa Alcmena, regina di Tebe (sempre qua, stiamo), il cui sposo Anfitrione è partito per la guerra. Ora il padrone di casa sta per tornare vincitore e manda avanti il servo Sosia ad annunciare l’imminente arrivo. La cosa scombussola i piani di Giove, che aveva assunto le sembianze proprio di Anfitrione per giacere più comodamente con Alcmena; questa, già incinta del marito legittimo, resta incinta anche del marito facsimile: altro prodigio teatrale. Così, per far guardia alla casa ed evitare guai al padre padrone, Mercurio, a sua volta, si tramuta in Sosia. Da qui tutta una serie di malintesi molto divertenti, che si concluderanno con la rivelazione da parte di Giove della sua reale identità divina; e, come happy end, Alcmena darà alla luce due gemelli, uno umano, Ificle; e uno divino, Eracle. Che il muscoloso Eracle, l’eroe più prestante, il forzuto per antonomasia (eccone un altro), sia nato da una debolezza della trama, risolta da un ancor più debole espediente drammaturgico, dice molto del potere divino del teatro.
Una volta che tutto si sia risolto – raccomanda sempre l’arguto Mercurio – il pubblico, che siede in teatro come una giuria, sarà invitato a giudicare i fatti ed emettere un verdetto in forma di applauso. Ma applaudire sinceramente, mica per finta! Per controllare che il plauso a Plauto sia onesto, Giove manderà addirittura degli ispettori tra gli spalti, a verificare che non ci siano claques pagate da qualcuno. Se l’autore ci scherza su in modo così evidente, significa che la cosa dev’essere un vero problema, a quei tempi. Tempi in cui gli spettacoli sono celebrati non per la loro qualità, ma per la loro retorica; tempi in cui si cerca di abbindolare il pubblico dicendogli tutto quello che vorrebbe sentirsi dire, e non verità scomode; tempi in cui i premi di teatro sono assegnati per pura convenienza politica, e non per merito... Stiamo sempre parlando dei tempi di Plauto, beninteso: queste sono tutte considerazioni che l’autore mette in bocca a Mercurio nel suo lungo prologo. Povero Plauto, in che tempi gli è toccato vivere...
Già: in che tempi vive Plauto? Il nostro nasce intorno al 250 a.C. a Sarsina, e arriva a Roma probabilmente come attore o come soldato. Si dedica al commercio, ma perde tutto per colpa della crisi economica causata dalla seconda guerra punica. E allora torna al teatro, dove ha un discreto successo. Ci si è spesso chiesti se Plauto sia un autore originale o un mero traduttore di opere greche, con un ingente debito nei confronti della Commedia nuova. Che si sia servito di quei modelli è fuori da ogni dubbio; ma se anche avesse tradotto di sana pianta, ciò non toglierebbe nulla al suo genio. Chi si occupi di traduzione sa bene che di un testo non è sufficiente tradurre le parole: bisogna adattare tutta una serie di questioni, battute, giochi linguistici, intenzioni comiche che inizialmente erano pensate per un altro pubblico. Da una lingua all’altra, da un’epoca all’altra, da un gusto all’altro, da un senso dell’umorismo all’altro... Ancor più in teatro, ogni traduzione implica sempre una riscrittura, che ha nella società cui si rivolge, cioè nel pubblico, il suo orizzonte ultimo. Per questo, per secoli, il teatro non ha avuto alcun problema a riproporre cose già scritte da altri: Shakespeare e Brecht lo dimostrano chiaramente. Insomma, Plauto è un autore originalissimo, e non certo il sosia di Menandro. Se poi per lungo tempo non ha goduto della giusta considerazione, lo si deve soprattutto a Orazio e Virgilio che, da bravi servi del potere, non hanno mai amato chi scriveva fuori dagli schemi: due secoli dopo, la lingua plautina è accusata di essere sporca, e di sporcare il pulcro modello greco, tanto celebrato in epoca augustea, con coloriture latine troppo popolari. Tutto questo ne fa un facile bersaglio dei pedanti superdivi letterari, che dimenticano che Plauto è sì uno scrittore, ma è soprattutto un teatrante. Ed è al teatro, non alla filologia, che deve rendere conto. Plauto scrive da attore per gli attori.
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Il buon Mercurio si presenta sul palco per quello che è: un commediante. Quando dice di essersi dovuto travestire da servo per entrare in scena, sta dicendo una cosa poco naturale per un dio, ma naturalissima per un attore, che passa la vita a travestirsi da altri, a far finta di essere chi non è. Tutto il suo prologo è un esercizio retorico, un numero da mattatore, una captatio benevolentiae al suo pubblico costituito in giuria. A cui è chiesta comprensione, collaborazione, addirittura omertà nel coprire il brutto gesto di Giove nei confronti del padrone di casa. E se a questo punto avrete intuito che, oltre ai bugiardi, Mercurio protegge anche gli avvocati (lo dico senza alcuna malizia), non bisogna dimenticare che Giove dovrebbe essere il garante dell’ospitalità... Proprio lui, che si intrufola in casa d’altri a scaldarne il letto! Naturale, quindi, il suo timore di essere preso a bastonate: dopotutto, anche se stiamo parlando del più divo degli dèi, quando si presenta in scena come Anfitrione, avendo preso le sembianze di un essere umano, patirà come un qualsiasi essere umano le conseguenze delle sue azioni. Nessuno si scandalizzi: sappiamo bene che non sarà certo Giove a sentire il legno sulla schiena. Gli dèi non soffrono le pene della carne; gli attori, invece, ci sono abituati.
Tutto l’Anfitrione va dunque letto attraverso questa duplice interpretazione. Mentre parlano delle vicende di cui sono protagonisti, gli attori parlano anche della messa in scena di cui sono fautori. Fortunatamente, quando l’autoreferenzialità si accompagna a una buona dose di autoironia, allora riesce a non essere pedante; al contrario, diventa comicità pura. In commedia, la metateatralità serve semplicemente a rendere patente quanto una finzione possa avere attinenza con il mondo reale che la circonda, facendo intendere che il discorso della scena non deve restare sulla scena, ma farsi del pubblico, entrare nella vita pratica. Servire a qualcosa. E quindi chi meglio del messaggero degli dèi, per portare questo insegnamento ai terrestri? Così, quando Mercurio si trova faccia a faccia con Sosia e, sostenendo di essere lui Sosia, instilla nel vero Sosia il dubbio di essere un falso, forse oltre a farci ridere un sacco ci sta dicendo anche che alla verità non si accede mai per la via diretta, che ci si arriva per i cammini complicati del linguaggio; e soprattutto dopo aver sperimentato lo sconcerto che si prova nell’aver guardato in faccia se stessi. Non è forse a questo che serve il teatro? A fare quest’esperienza traumatica, benefica e pericolosa allo stesso tempo, del riconoscersi diversi da quelli che ci siamo sempre pensati.
Questo fatto di presentare persone e cose che sono allo stesso tempo altre persone e altre cose ha sempre reso il teatro un fatto problematico, nella nostra cultura neoplatonico–cristiana, che tende a vedere l’“uno” come perfetto e il molteplice come malefico. «Io non sono quello che sono», parafrasava il mefistofelico Jago nell’Otello – e di fatto attori e attrici sono stati per lungo tempo considerati alla stregua di stregoni e streghe, e i loro giochi di parole equiparati a formule di magia nera. È chiaro che all’interno di un sistema di pensiero così razionale come il nostro, non è ammissibile che una cosa sia al contempo anche un’altra cosa: violerebbe il principio di non contraddizione e il tertium non datur. Che mondo sarebbe, un mondo in cui tu non sei tu, e lui o lei non sono chi dicono di essere? Ma allora chi è la persona che ho davanti? Con chi sto parlando? Chi c’è all’altro capo del filo del telefono? Non c’è scherzo più perverso che farsi passare per chi non si è; ne sanno qualcosa quelli che si sono illusi di parlare con il ministro Crosetto, elargendo cospicue quantità di denaro finite nella saccoccia di qualche anonimo – sublime soggetto per una commedia, avrebbe pensato Plauto. Società come le nostre sembrano poter vivere solo in un mondo ordinato, in cui si distingue chiaramente la forma, la definizione e il nome delle cose; e invece la commedia questo mondo lo mette in crisi, esibendo tutta una serie di imitatori e ingannatori che le cose le mistificano. Certo, certo che poi il finale felice deve rimettere sempre tutto a posto... Ma intanto su questo “a posto” la commedia ci ride su. E il riso è sempre dissacrante, inquietante, deformante: quando ridiamo il nostro volto cambia, in quella smorfia non siamo più noi e però, al contempo, non siamo mai stati così noi. Lo sapevano Aristotele e Umberto Eco, Bernardo Gui e Bakunin... Più che i contenuti satirici, la questione politica che gira intorno alla commedia riguarda proprio l’effetto che provoca: il riso, il suo atto mistificatorio e la sua forma difforme.
Che le cose non siano come appaiono può essere una grande seccatura, ma può anche rappresentare una sconvolgente possibilità: esiste un modo diverso di guardare, e vivere, il mondo. E tu, spettatore, spettatrice, nella vita, puoi essere altro, puoi uscire dagli schemi. La commedia perora la causa della diversità e la possibilità rivoluzionaria di deformare la società, abbassare il potente ed elevare chi sta sotto.
Ah, certo...! In tutto questo, non abbiamo mai parlato di Anfitrione, l’eroe eponimo della commedia... Rovescio comico di una nemesi storica, al padrone tocca appunto una sorte ben peggiore del servo: vogliamo ricordare che l’Anfitrione per antonomasia, la persona che oggi identifica il buon padrone di casa, lo è per aver ospitato in casa sua colui che l’ha reso cornuto...?
Per saperne di più
Di Plauto val la pena leggere tutto, anche per capire fino a che punto è servito da modello a Shakespeare (La commedia degli errori), Molière (L’avaro) o Goldoni, tanto debitore della Commedia dell’arte come la Commedia dell’arte lo è stata della plautina. Sappiamo che della Poetica di Aristotele è andata perduta la parte che riguardava la commedia, ma possiamo sempre leggere quel romanzo imperdibile che è Il nome della rosa di Umberto Eco. E sul riso, il saggio di Henri Bergson e, per chi ci si vuole avventurare, Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, di Michail Bachtin.
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In copertina, opera © Christiane Spangsberg.
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