Creonte e la tragedia della politica

21 Gennaio 2025

Anche se nella tragedia di Sofocle è quella rompiscatole di Antigone a prendersi tutto il protagonismo, la verità è che pure l’antipatico Creonte non hai mai smesso di esercitare su di noi un certo fascino. Sarà il fascino del potere, visto che kreon in greco vuol dire proprio quello: “colui che detiene l’autorità”. Usurpatore per alcuni, vicario reggente al trono vacante di Tebe per altri, Creonte cerca di pacificare la città dopo il disastro politico causato dai legittimi re, suoi nipoti. Per intenderci: dopo l’esilio di Edipo, il potere su Tebe passa ai due figli, Eteocle e Polinice, che decidono di governare un anno a testa. Inizia Eteocle, ma quando, dopo un anno, Polinice si presenta per reclamare il trono, Eteocle si rifiuta di cedergli il posto e lo manda a quel paese (Argo). Polinice si arrabbia non poco e assedia la patria natìa supportato da un esercito di Argivi. I due fratelli si trovano a combattere uno contro l’altro e si uccidono a vicenda, dando così compimento alla maledizione che si era abbattuta sulla casa dei Labdaci. Tutto questo lo trovate nei Sette contro Tebe, fortunata tragedia di Eschilo che debutta ad Atene nel 467 a.C., giusto per avere qualche data. Venticinque anni dopo, Sofocle apre la sua Antigone con Creonte, zio dei due fratelli fratricidi, che emana un editto: per Eteocle, che ha difeso la città, saranno organizzati funerali di Stato; mentre a Polinice, che l’ha assediata, non sarà concessa alcuna sepoltura e il suo corpo resterà esposto come monito, di cani e augelli orrido pasto. Chiunque sarà sorpreso a trasgredire l’ordine sarà condannato alla lapidazione. Antigone, naturalmente, trasgredisce l’ordine, perché per lei la legge sacra del sangue, quella che lega sorella e fratello, è più importante della legge profana emanata dagli uomini. Questa a grandi linee la vicenda che, da duemilacinquecento anni a questa parte, ha permesso ad Antigone di diventare una delle eroine più influenti della letteratura occidentale; emblema della resistenza alle tirannie (per Alfieri), dell’opposizione alle dittature (per Brecht) e, in generale, paladina dei diritti umani (per tutti e tutte noi). Su Antigone si è detto tanto e scritto tantissimo, e si potrebbe scrivere ancora di più; ma non lo faremo qui. Qui, ci interessa di più Creonte; e ci interessa, innanzitutto, perché fallisce.

Creonte è un personaggio problematico: simula una gran sicumera, ma in realtà non sa mica se sta facendo la cosa giusta; rappresenta la ferrea legge, eppure dubita ed erra; il che lo rende umano, molto umano. E tremendamente ambiguo. Chi dubita mostra una doppia natura: e infatti la radice del termine “dubbio” affonda nello stesso terreno di quella di “doppio”, perché chi non sa decidersi a scegliere denota sempre una coscienza divisa, mostrando di essere, in qualche modo, due persone allo stesso tempo. Di fronte alla granitica Antigone, tutta d’un pezzo, che resta ferma sulle sue posizioni fino alle estreme conseguenze (spoiler: muore poco prima del finale), Creonte invece è mobile e durante il corso dell’opera muta d’accento e di pensier, cedendo e concedendo la ragione alla rivale. Ma è troppo tardi: un messaggero gli annuncia il suicidio della nipote, oltre che del figlio Emone (di lei innamorato) e della sposa Euridice (madre di Emone), in una catena di catastrofi parentesche che ricorda un po’ Game of Thrones e un po’ Un posto al sole. Creonte sbaglia; non tanto perché la sua legge non sia giusta, ma perché compie una scelta che si rivela deleteria per sé e i suoi cari. A questo punto, la punizione per aver errato non può che essere errare, cioè vagare e perdersi; Creonte si esilia dalla città ed esce di scena dichiarando di non esser più uomo, non esser più nulla. Da re onnipotente a povero ramingo. Ed è questo periplo a essere interessante per noi. In qualità di uomo che perde la sua essenza e muta la sua natura, Creonte ci permette di comprendere la funzione del personaggio nell’orizzonte della tragedia classica: l’essere umano colto nel processo di cambio.

Nella sua Poetica, Aristotele ci dice che nella tragedia «è necessario (...) il passaggio dalla fortuna alla sfortuna, avvenuto non per malvagità, ma per un grave errore» [1453a]. È necessario perché se questo passaggio non esistesse, non ci sarebbe alcun cambiamento nel corso degli eventi; e solo nel cambiamento si fa visibile una differenza tra un prima e un dopo, tra un vecchio e un nuovo, tra due “stati di cose” a confronto, su cui possiamo fare una valutazione ed esprimere un giudizio. Valutare e giudicare è proprio ciò che la tragedia attica richiede al suo pubblico, che è la polis, cioè la città intesa come comunità politica. Ed è ciò che noi facciamo grazie a Creonte. Creonte rappresenta la legge; una legge nuova, per cui lo Stato si erge al di sopra della famiglia, che passa in secondo piano, spezzando i vecchi legami dei clan e delle parentele di sangue. Una legge che a noi, ora, dopo le feste natalizie e gli interminabili pranzi con i parenti, potrebbe apparire anche condivisibile; ma che ad Antigone, figlia e al contempo nipote di sua madre (ricordiamoci che suo padre è il complessato Edipo), tutta intrisa di questo sangue materno, proprio non può andar giù. Così, se Creonte vorrebbe una legge uguale per tutti e tutte, Antigone mette in questione che la legge valga anche per i morti, insinuando il dubbio che la legge umana abbia limiti umani. C’è in ballo non solo un bel problema di diritto politico, ma anche una grande questione filosofica: una volta istituita, la legge è superiore all’essere umano? Ma come potrebbe essere superiore all’essere umano, se è proprio l’essere umano ad averla istituita? E infatti quella stessa norma così democratica che Creonte impone è anche sacrilega; Sofocle stesso si chiede se forse la legge di Creonte non invochi un’eccezionalità; eccezionalità che però, per natura, la legge, se è vera legge, non potrebbe concedere. Da qui l’aporia tragica: che fare? Rispettare la norma e perdere ciò per cui vale la pena vivere; o salvare quello per cui vale la pena vivere e alienarsi la società...? Questo dubbio mette in crisi Creonte, noi, ma soprattutto l’essenza stessa della vita in società e un po’ anche del nostro concetto di democrazia. Mettendoci davanti a tali questioni, Sofocle ci crea problemi, ci pone delle domande, ci invita al dibattito. Ci obbliga a fare una valutazione ed esprimere un giudizio; cioè a una presa di posizione etica e politica.

Che per gli Ateniesi, in quegli anni, il teatro sia un fatto politico è molto chiaro; ma com’è che un’arte così effimera come il teatro ha assunto questa funzione così delicata?

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Opera © Christiane Spangsberg.

La nascita della tragedia – ce lo ricorda anche Nietzsche – va cercata all’interno delle celebrazioni religiose in onore di Dioniso, divinità che presiede a quell’istinto animale così irriducibile nell’essere umano, quell’istinto selvaggio che alla vita politica sempre un po’ resiste. La nascita del teatro così come lo conosciamo coincide con l’emancipazione della tragedia dal rito; cioè con l’istituzione di un sistema di rappresentazione nuovo, che soppianta le vecchie pratiche legate al sangue, ora dichiarato osceno, ob skené: da lasciare fuori scena. Il teatro, emendato dal rito ed epurato del sangue, diviene rappresentazione della vita e può esercitare un ruolo nella regolamentazione della vita politica della città. Paradossalmente, dunque, il teatro può divenire politico solo a patto di perdere la sua essenza e mutare la sua natura. Così Apollo, dio delle forme ben formate, prende definitivamente il posto dell’ambiguo Dioniso. Nietzsche dava la colpa di tutto a Socrate ed Euripide, intrisi di così tanta sofia e così poca mania, cioè follia, ispirazione, istinto fuori controllo; ma la verità è che anche Aristotele ci ha messo del suo. Per Aristotele, assistendo a un’imitazione della vita, comprendiamo meglio come funziona la vita vera; con il grande vantaggio che stare seduti sui gradoni di pietra di Epidauro, per quanto scomodo possa essere, è sempre meglio che veder morire moglie, figlio e nipote e perdere il lavoro. Osservando ciò che accade a Creonte in scena ci immedesimiamo in lui, viviamo con e in lui la sua vicenda, come se il personaggio fosse una sorta di avatar – sì, il concetto di mimesis aristotelica è un po’ l’antenata di second life. Questa esperienza surrogata benefica è la catarsi, la purga spirituale che libera spettatori e spettatrici. È il sollievo che proviamo alla fine di ogni spettacolo, film o romanzo: la storia è finita in malo modo, ma noi ne siamo usciti bene. Più saggi, perché abbiamo fatto un’esperienza del male; e più sani, perché il male ci ha segnati, ma non ci ha mai veramente toccati. «Guardare e non toccare è una cosa da imparare» – mi diceva sempre mia nonna da piccolo. E, in prospettiva aristotelica, aveva ragione da vendere.

Il teatro è, etimologicamente, il “luogo della vista”, cioè di quell’organo che ci permette di tenere sotto controllo le cose standone a distanza; e, per Aristotele, serve a questo: a dominare razionalmente il reale senza farsi contaminare da esso. Il teatro bonifica, pacifica la società. Che poi era in fondo la stessa cosa che voleva il nostro Creonte, o no...? Ecco perché Creonte si rivela ai nostri occhi un personaggio così emblematico: non solo rappresenta un nuovo modo di intendere la politica, ma rappresenta anche un nuovo modo di intendere il teatro, con relativo ruolo nella vita politica della città.

E però la cosa più rilevante è che Creonte rappresenta tutto questo... fallendo.

Fallisce la sua politica, fallisce la sua esistenza; e nella sua tragedia – che infatti prende nome non da lui, ma da Antigone – fallisce anche la funzione bonificatrice del teatro: non è vero che comprendere la realtà equivalga a saperla dominare razionalmente. La società ateniese del V secolo a. C. si è già schierata con Creonte, ma vede in Antigone la sua eroina, perché Antigone ricorda che la legge è cosa utilissima, ma incapace di cogliere la vera essenza dell’essere umano («niente di più straordinario dell’essere umano», si legge in un celebre passo del coro).

Per questo c’è bisogno di Tiresia, un indovino cieco, perché Creonte capisca dove ha sbagliato e cambi opinione. C’è bisogno della cecità per vedere, c’è bisogno di un indovino per scegliere coscientemente (soprattutto in questi tempi bui). In fondo, se siamo qui a parlare di un Creonte sconfitto, significa che Dioniso è ancora lì, nel mistero che si nasconde dietro ogni sussulto dell’animo umano: Dioniso è l’errore sempre in agguato. Insieme a Creonte capiamo che l’istinto irrazionale non può mai essere veramente espulso dalle nostre vite; perché nessuna legge, per quanto logicamente giusta possa apparire, se anche potrà essere del tutto logica, non potrà mai essere del tutto giusta. Creonte ci obbliga a chiederci se vivere in una società pacificata dalla legge equivalga davvero a vivere meglio... Io che sto un po’ a Berlino e un po’ a Barcellona, continuo a pensare che le cose funzionano meglio al nord, dove la legge funziona; ma la vita uno se la gode di più al sud, dove le cose, anche se non sempre vanno come dovrebbero, non impediscono il naturale scorrere della vita. Per questo amo pensare che, alla fine della tragedia, Creonte si esili in un paradiso tropicale; dove, sperimentando il dolce far niente, potrà espiare le sue colpe riflettendo su quanto, fino ad allora, a causa della sua attitudine intransigente, si è perso della vita. Un po’ come un pensionato tedesco a Mallorca.

Immedesimandoci con Creonte, non viviamo solo la tragedia di un dilemma politico; viviamo la tragedia del passaggio tra due diverse concezioni dell’esistenza: una antica, istintuale e legata all’amore fraterno (sorerno?), e una nuova, che permette la vita in società tra esseri umani, ma fa perdere qualcosa di umano all’essere umano. Eppure, ciò che costituisce la vera essenza del tragico è la consapevolezza che a questo passaggio non siamo del tutto preparati: sappiamo che bisogna fare in un modo più giusto, eppure continuiamo a pensare che l’altro modo sia comunque più vero. Creonte incarna tutto sommato la tragedia di un fallimento: quello di un sistema di pensiero che confida in una legge universale, in un logos che pretende di uniformare tutti e tutte e tutto. È il côté tragico della politica.

Ma sarebbe errato dire che Antigone mostri il fallimento della politica; è piuttosto una tragedia in cui la politica mostra i suoi risvolti più tragici. Ma si carica di un valore fortemente positivo, dal momento che pone questioni incandescenti alla polis, su cui la polis non può fare a meno di dibattere. È questa la funzione del teatro, d’altra parte: creare problemi, porre domande, invitare al dibattito, obbligare a una valutazione ed esprimere un giudizio. Cioè a una presa di posizione etica e politica.

Per saperne di più

Si può leggere con parsimonia la Poetica di Aristotele e La nascita della tragedia di Nietzsche (consiglio edizioni Laterza); e sfogliare la bella pubblicazione di Marsilio, contenente tre variazioni sul mito di Antigone, ad opera di Sofocle, Jean Anouilh e Bertolt Brecht. Una nuova versione a firma dell’autore, dal titolo Antigone in cattedra, destinata alle classi liceali e in repertorio al Piccolo Teatro di Milano dal 2022, è in uscita per Il Saggiatore, all’interno dell’antologia Il teatro tiene banco.

In copertina, opera © Christiane Spangsberg.

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