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Il Ricco Trump e il Povero Zelensky

17 Marzo 2025

Chissà se, a quest’altezza della tragedia ucraina, qualcuno ricorda ancora che Zelensky è un attore. Ci pensavo qualche giorno fa, guardando il video dell’incontro con Trump e Vance alla Casa Bianca. La sua espressione spaesata e impotente mi ha ricordato a tratti quella di un attore che si è perso nel bel mezzo della sua scena e non sa più bene cosa deve dire, cosa deve fare. Si butta e ci prova, con tutta l’ostinazione di cui è capace; prova a stare nel gioco nonostante tutto, ma niente. Com’è possibile? Forse il problema è che gli altri attori della compagnia, quelli che facevano tanto gli amiconi, in realtà non lo sopportano più. Il nostro ha fatto per anni la parte del protagonista, dell’eroe, e i suoi colleghi adesso ne hanno abbastanza. Non vedono l’ora di disfarsi di lui e oggi ne hanno l’occasione: al momento convenuto, mettono da parte il copione che avevano studiato insieme e ne improvvisano un altro, in cui le battute sono tutte diverse... Il povero attore balbetta qualcosa, spiccica due frasi e poi resta ad ascoltare il monologo dell’ex amico che, con la complicità della sua spalla, si prende lui il ruolo del protagonista. E non c’è niente da fare, non può dire: «Stop, fermiamoci un attimo, riguardiamo il testo e la rifacciamo»... siamo in diretta tv davanti a milioni di spettatori e spettatrici. La delegittimazione di Zelensky come presidente doveva passare per la sua delegittimazione come attore; Trump, che è un grande regista di queste cose, lo sa. E non a caso ha chiuso il collegamento dallo Studio Ovale con le parole: «We’ve seen enough. A great tv show». Il gran teatro della politica.

Zelensky si è fatto conoscere al pubblico ucraino tra il 2015 e il 2019 con una serie televisiva il cui titolo in italiano suona più o meno come Servitore del popolo. Nella serie – arrivata (postuma) anche su La7 e Netflix – Zelensky interpreta un professore di liceo che acquisisce un’improvvisa notorietà in seguito al viralizzarsi di un video su YouTube, in cui lo si vede inveire contro la casta e il potere. Il successo travolgente del discorso, unito all’eccelsa capacità oratoria e allo charme esercitato davanti alla telecamera, fanno sì che nel giro di poco tempo l’anonimo professore venga eletto suo malgrado Presidente dell’Ucraina. Magari a qualcuno sarà venuto in mente un film di Dennis Gansel del 2008, L’onda... ma lì la cosa finiva male. Nel nostro caso, invece, la serie tv ebbe un successo tanto clamoroso quanto inatteso, cosa che convinse i produttori a girare una seconda e una terza stagione; e poi, sull’onda (questa sì) dell’entusiasmo, a fondare un partito politico con lo stesso nome della serie. Avrete intuito cosa accadde in seguito: anche il partito, come la serie tv, ebbe un successo tanto clamoroso quanto inatteso, così da convertire l’attore Volodymyr Zelensky nel presidente che oggi conosciamo. A chi non sapesse questa storia o l’avesse dimenticata (o rimossa), difficilmente questo resoconto potrà sembrare realista; eppure è vero. Personaggio e interprete uniti in un unico destino: quando si dice che la realtà supera la fantasia... Marx, parafrasando Hegel, ricordava che nella Storia certi accadimenti si presentano due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Noi, parafrasando il parafrasante, potremmo dire che, certi altri, si presentano la prima volta come farsa, la seconda come tragedia.

Che il teatro sia un’arma politica, l’abbiamo già ricordato nelle puntate precedenti; che il mondo della politica si stia teatralizzando, non credo sia necessario ricordarlo: è piuttosto evidente. E se tutto il mondo è un palcoscenico, allora tutti e tutte nella vita recitiamo un personaggio. Nel 1959, il sociologo canadese Erving Goffman ci ha scritto un best seller, La vita quotidiana come rappresentazione; ma la verità è che questo è un topos ricorrente nella storia del teatro. Shakespeare, a cui si deve l’appena citata «All the world’s a stage» (Come vi piace, 1599), non si è inventato nulla: il teatro medievale giocava già con l’equiparazione della vita a una grande recita, in cui siamo chiamati a fare la nostra parte. Lo spettacolo diventava metafora dell’esistenza terrena, e le sacre rappresentazioni mostravano all’essere umano quanto potesse essere utile o dannoso, secondo i casi, agire in questo o quel modo, con il fine ultimo di ottenere quella buona performance che era poi equiparata alla salvezza dell’anima. Così, nei Misteri e nei Morality Plays entravano in scena la Virtù e la Lussuria, il Vizio e la Prudenza, angeli e demoni e tutto quel carosello di figure bibliche che popolavano i sagrati delle chiese, le piazze, le strade e altri luoghi deputati, in occasione delle feste comandate. Il pubblico si muoveva di spazio in spazio, indirizzandosi là dove l’azione si svolgeva; oppure le scene, sistemate su grandi carri, scorrevano davanti agli occhi della massa. Ai dialoghi si alternavano canti e movimenti coreografati, secondo uno schema che ancora rimane in certe nostre processioni, che sono forse l’ultimo esempio rimasto di quella teatralità. Ancora adesso facciamo fatica a considerare “teatro” le sfilate del Carnevale, i clown e i giullari, le sarabande e i cantastorie... eppure, in qualche modo, lo sono e lo sono sempre state. Non dimentichiamo che in latino, il termine ludus significa generalmente “festa”, prima di assumere il significato specifico di “rappresentazione”, nel senso di “gioco”. L’inglese play, il tedesco spielen e il francese jouer, che conservano quel doppio significato, ci ricordano che recitare vuol dire prima di tutto buttarsi nella mischia, nel gioco della vita.

Di quel teatro medievale ci è rimasto proprio poco: documenti spuri, qualche manoscritto autografo e gli splendidi testi di Rosvita di Gandersheim e Ildegarda di Bingen, tra le poche autrici di teatro che la mascolinissima storia universale di questa misera disciplina ricordi. Fondamentali, perché traghettano la classicità attraverso il medioevo, aprendo una porta a quella modernità che si annuncia poi in tutto il suo splendore con Shakespeare e Calderón. Soldato, sacerdote e uomo di corte, Pedro Calderón de la Barca è l’ultima stella del Siglo de Oro e la penna armata della Controriforma nella cattolica Spagna. Di lui, i più ricorderanno La vita è sogno, cui appartengono i celebri versi: «Cos’è la vita? Un delirio, un’illusione, un’ombra, una finzione. In cui il bene più grande è in realtà una piccolezza, perché tutta la vita è un sogno, e i sogni non sono nient’altro che sogni» – versi che ho qui parafrasato brutalmente, senz’obbligo di conservar la rima, ma con una poeticità degna di Marzullo. Meno conosciuti da noi sono i suoi autos sacramentales, laddove il termine “auto” non è che una brutta trascrizione del latino “actum”, cioè “atto”, cioè messa in scena. Il più conosciuto, e più bello, si intitola guarda caso Il gran teatro del mondo.

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Opera © Christiane Spangsberg.

Se la vita è una rappresentazione e il mondo la scena in cui la recita si rappresenta... chi ne è l’autore? Ma Dio, ovviamente; con il suo copione che è legge scritta, su cui è fissato ciò che si ha da fare. E così Dio chiama a entrare in scena, uno a uno, i suoi attori e le sue attrici, a cui assegna ciascuno un ruolo: l’Umiltà e la Bellezza, il Re e il Lavoratore, il Ricco e, naturalmente, il Povero. Ruolo ingrato, quest’ultimo! Non ha costume, non ha attrezzi di scena... Ma come si fa a recitare, con queste carenze? Così si lamenta il malcapitato: «Perché devo fare io la parte del povero in questa commedia? Che per me sarà piuttosto una tragedia, mentre per gli altri è tutto facile...!». Ma l’Autore, che tra le sue prerogative divine ha anche quella della risposta pronta (e convincente), gli ricorda che non importa in che condizione sei venuto al mondo, perché nessun ruolo è migliore o peggiore degli altri. Tutti i ruoli, nella vita come in teatro, sono importanti. Ma come si fa a fare questo spettacolo – chiede ancora il Povero – senza aver mai fatto uno straccio di prova? E se ci perdiamo nel bel mezzo della scena? E se a un certo punto non sappiamo più cosa dire...? Non c’è problema – rassicura tosto l’autore onnisciente: a tutti e tutte è concesso sbagliare una battuta, un’azione; è cosa del tutto umana (dopotutto il Concilio di Trento si è impegnato a ribadire che esiste il libero arbitrio, non siamo mica soggiogati a un destino predeterminato, come dicono i luterani). E poi basta ascoltare la voce della suggeritrice, impersonante qui la Grazia divina, che vi aiuterà a far bene. Per il resto, in questa recita come nella vita, non c’è possibilità di ripetizione: o la va, o la spacca.

È qui che mi torna in mente il povero Zelensky, nel mezzo di uno studio che è ovale proprio come la scena del Gran teatro del mondo. È finito a fare la parte del povero; lui, che di nome farebbe Volomydyr, che tradotto in italiano significa qualcosa come “gran signore” o “signore del mondo” – ora capite l’ironia tragica del titolo della serie di cui era protagonista...? In ogni caso, il nome di battesimo del presidente ucraino è sempre passato in secondo piano: troppo simile a quello del suo grande avversario, Vladimir. Che senso avrebbe assegnare a due attori lo stesso ruolo?! Il mondo è troppo piccolo per due gran signori, ed è purtroppo facile intuire quale dei due Vlad si terrà la parte del Re... Per quel che riguarda poi il nome Donald, come non pensare al celebre papero squattrinato? Paragone che a Trump non si addice proprio; più simile a Zio Paperone, lui, con quel ciuffo color arancio sparato in avanti, che ricorda tanto il becco con cui il magnate comprova la materia aurea delle monete. A lui si confà la parte del Ricco, naturalmente; e non dimentichiamo che proprio in questo ruolo è stato protagonista di almeno due memorabili cammeo: nell’indimenticabile serie tv anni Novanta La tata e nel dimenticabile Mamma, ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York, in cui appariva come “padrone di casa” all’Hotel Plaza, di cui a quei tempi era davvero il proprietario.

Anche nel nostro dramma attualissimo che di sacro ha molto poco, il povero chiede e il Ricco risponde picche; anzi, ricorda al disgraziato che non ha nessuna carta in mano da giocare, e che semmai dovrebbe ringraziare il Ricco perché ascolta i suoi piagnistei. E non si azzardi a rispondere; non si azzardi nemmeno lontanamente a predire sventurate conseguenze per la Terra dell’abbondanza; a ipotizzare, anticipandolo, un triste finale...! Il Ricco non pensa al futuro, pensa all’adesso; e adesso è lui che ha il coltello dalla parte del manico. E così il Povero è mandato via con le mani vuote e una lezione di morale in tasca. Mentre il gran signore osserva tutto e ride. Ah già...! Non vi ho detto che Calderón, poeta di corte prezzolato, in quella fine di commedia che ricorda tanto un giudizio finale, salva il Re con un inatteso colpo di scena: Dio non punisce certo chi ha offerto la sua mano e il suo sostegno alla Religione; quindi figuriamoci se punirebbe oggi colui che protegge la religione “giusta”, quella ortodossa... Ma se Putin ha appena ricordato a Macron che fine ha fatto Napoleone, possiamo legittimamente ricordare a Trump che in Calderón il Povero sarà inviato al cielo, perché – come scrive Luca nel suo Vangelo – a lui appartiene quel regno. Mentre il Ricco è l’unico che non fa una bella fine: memore del suo rifiuto ad aiutare il Povero, il divino Autore lo spedirà dritto nell’inferno della Storia.

Per saperne di più

Di Calderón è fortemente consigliata una lettura in originale, perché quel verso è proprio bello per quel che è, pure se non capite tutto; in italiano trovate comunque un’ottima traduzione di Il gran teatro del mondo per Garzanti e una di La vita è sogno per Adelphi. Ricitiamo poi l’intramontabile La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman, edita da Il Mulino. E, per approfondire quel periodo sconosciuto del teatro che va dalla caduta dell’Impero romano d’occidente al Rinascimento, una chicca di Carla Bino: Il dramma e l’immagine. Teorie cristiane della rappresentazione (II-XI sec.), pubblicato da Le Lettere.

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Davide Carnevali | Il primo Sosia

In copertina, opera © Christiane Spangsberg.

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