Teatro: un’etica, per cominciare
Antonio Attisani a partire dal gennaio 2023 ha affidato a Doppiozero varie sue riflessioni sul teatro e su artisti importanti del Novecento. Ora ha raccolto quegli scritti, insieme ad altri, in un libro che esce per Editoria&Spettacolo in questo mese di febbraio 2025, La nudità dell’anima – Un’etica del teatro (pagine 170, euro 16), con la prefazione di Lea Melandri. Questo che leggete è il capitolo conclusivo, inedito.

“Abbiamo l’arte
per non morire
a causa della verità”.
Friedrich Nietzsche
Ricominciare
Il fenomeno teatrale e tutte le sue storie nelle più diverse civiltà dovrebbe essere ripensato alla luce di alcuni principi finora trascurati come differenza e corpo teatro, sempre più emergenti alla coscienza diffusa. Un primo passo è la constatazione che il processo di creazione artistica e le opere che ne conseguono non rappresentano soltanto le idee e le intenzioni dei rispettivi autori ma anche, forse soprattutto, mettono in contatto con quella che per comodità potremmo chiamare “la nudità dell’anima”, un non detto e non dicibile riguardante la vita dell’autore. Ciò è particolarmente vero per il teatro, perché gli autori dell’opera sono lì, in corpore vili di fronte agli spettatori, ri-velando la differenza tra il progetto di mondo che motiva razionalmente l’opera e la percezione del mondo esternata dai corpi in transito sulla scena. Per quanto riguarda il corpo teatro, invece, il primo comandamento è la ormai nota definizione che ne dà Jean-Luc Nancy: “Non bisognerebbe dire pertanto che il culto precede il teatro e lo genera, bensì che il corpo teatro precede tutti i culti e tutte le scene. La teatralità non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte derivano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione”.
Tenere conto di questi due principi configuranti un nuovo punto di partenza dell’intera cultura teatrale, significa dare vita a una nuova teatrologia teorica e pratica, uno dei trans non secondari che l’oggi richiede. Viceversa, ignorarli porta a una totale subalternità ai poteri esterni all’arte e che vorrebbero renderla funzionale ai propri scopi. Vorrei cercare di argomentare che in base a questa premessa la questione più cogente da porsi è quella di una scelta etica.
Se l’essere umano è (non ha) un corpo teatro, per teatro dobbiamo intendere qualcosa che viene prima e dopo l’istituzione teatrale e ne costituisce l’habitat, dal tempo della cosiddetta preistoria a quello dell’intelligenza artificiale, habitat con il quale dobbiamo nuovamente misurarci. Ovviamente il corpo teatro che tutti siamo dalla nascita assume una propria definizione storica e culturale a seconda di come è attivato, ovvero educato, manifestando infine la propria creatività nel quadro della storia e del sistema di regole che ognuno fa proprie o alle quali è soggetto. Insomma è un potenziale che può esprimersi in una infinita gamma di forme e specialità, come ci dimostrano le mille culture del mondo, osservando le quali a volte sembra che alcuni individui possano fare per dono di natura cose impossibili per tutti gli altri.

Una professione soffocata dalla medianità
Corpo teatro e differenza dell’arte sono principi operanti da sempre, ma oggi, nell’era del fatale e onnicomprensivo individualismo così ben descritto da Nietzsche (e per altri versi da Max Stirner, l’autore di L’unico e la sua proprietà), non si possono più ignorare, anzi devono essere aggiornati proprio in base alla consapevolezza che un possibile affrancamento dall’individualismo irrazionale e reazionario è possibile.
Nell’osservare le manifestazioni della differenza, però, una delle prime e più conturbanti scoperte può essere quella di imbattersi nel prepotente autoelogio dell’artista o dell’autore. È un segreto inammissibile, di cui quasi nessuno parla, un abissale sottotesto. Secondo il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ognuno di noi pensa, anzi crede, di essere in possesso delle idee giuste che una volta applicate plasmerebbero una umanità realizzata e serena, e nell’attesa che ciò si verifichi le rappresenta nel mondo per diffonderle, sempre auto-elogiandosi e sperando di ottenere il doveroso riconoscimento del proprio valore. L’autoelogio si manifesta secondo una casistica pressoché infinita, ma può essere ricondotto a due specie fondamentali: imperiale (quello il cui sottotesto è: Vi spiego come va e come potrebbe andare il mondo e per questo dovrei esserne l’imperatore, oppure potrei fondare una religione) o regale (Dovreste riconoscermi come re della mia ‘arte’, oppure potrei fondare un regno tutto mio, o una Chiesa). L’alternativa laica proposta da Sloterdijk è quella dell’insularità: Non voglio comandare se non me stesso sulla mia isola-opera, aperta a tutti coloro che vogliono venire a goderne, con me o per conto proprio, e al tempo stesso sono un esploratore di altri mondi.
Una soluzione positiva è dunque possibile quando coloro che si danno all’opera sono consapevoli che essa consiste nella propria auto/bio/grafia e possono così dare vita a un agire artistico ‘crudele’ con l’ego personale e collettivo. È questo il senso degli esempi paralleli di Francesco d’Assisi, di Jerzy Grotowski e di François Tanguy sui quali ci siamo già soffermati (leggi gli articoli nei link). Nel campo dell’arte drammatica ciò avviene secondo varie strategie. Pensiamo ad esempio ad alcune compagnie con attori ‘straordinari’ come i detenuti o persone colpite da disabilità psichiche o fisiche: in quel caso – naturalmente quando non si tratti di una banale “animazione teatrale” – si assiste a una vera e propria rifondazione antropologica del lavoro teatrale. Questo tipo di insularità è qualcosa di assai diverso dalla poiesis di figure come Carmelo Bene, Leo de Berardinis oppure Tadeusz Kantor e il Théâtre du Radeau, vertici di un nuovo professionismo drammatico e realizzatori di un inconsolabile quanto umoristicamente vivo teatro grottesco.
Nell’orizzonte ristretto della mia esperienza personale ho avuto la fortuna di seguire alcune avventure teatrali di diverso genere, distinte ma con profondi tratti comuni. Non sono in grado di dire se nel teatro reale siano molte o poche. A leggere i resoconti giornalistici sembrerebbe che le compagini teatrali operanti in questa temperie nuova e diversa, sebbene minoranze in un ambiente teatrale generalmente incline a distrarsi guardandosi allo specchio, siano assai diffuse, mentre la conoscenza diretta suggerisce che in realtà sono pochissime.
L’ottimismo del giornalismo teatrale progressista è la concitata espressione di un imperativo ideologico che vorrebbe celebrare a tutti i costi l’incontro felice del teatro con i poteri da cui dipende e con il pubblico di cui ha bisogno. E poi “gli ottimisti scrivono male”, sosteneva Paul Valéry. L’ottusità allucinata della gran parte di coloro che il teatro non lo fanno in scena è dovuta, paradossalmente, a una mancanza di cecità, vale a dire di veggenza. È difficile prescindere dal supermercato i cui scaffali traboccano di offerte e che per molti sono l’unico luogo di approvvigionamento, bisognerebbe appunto essere capaci di non vedere, di distinguere le esperienze che si fanno nella consapevolezza di essere corpi teatro e perciò soggetti della e alla differenza (ovviamente senza dimenticare che con le logiche dei supermercati si deve comunque interagire).
Il vero e proprio patto di stabilità che regge questa medianità è sottoscritto dalla maggior parte del pubblico, dal giornalismo teatrale e dal cabaret ideologico che ingombrano la nozione di teatro. Ciò non significa che non si debba fare teatro comico o cabaret, ma soltanto che bisognerebbe, per cominciare, intendere il senso di cui sono portatori i vari modi della composizione teatrale, imparare a leggerli e cercare di renderli leggibili, così che gli operatori a qualsiasi titolo e quindi gli spettatori possano scegliere invece che accomodarsi in questa paludosa e paludata offerta culturale.
Di fronte a questo quadro, mi dico da tempo, c’è poco o niente da fare: così vanno le cose e chi vedrà vivrà. “Niente da fare” significa che è perfettamente inutile fantasticare su un piano di regia del teatro futuro; le utopie sono passatempi che portano male, come dimostra la storia. Si possono però intrecciare nuove relazioni e intensificare i tradimenti, si può procedere alla verifica collettiva di quei principi, peraltro già presenti nella cultura teatrale più sensibile; si può riflettere collettivamente su alcune fondamentali direttrici di lavoro come le realtà teatrali indipendenti, si può rivedere il rapporto tra operatori e critica, si potrebbe magari guardare con maggiore attenzione a una novità rilevante come l’artivismo femminile e femminista in campo teatrale, fenomeno non esente da ambiguità (soprattutto quando si riduce a una compiaciuta integrazione nel modello maschile), e dalla novità sostanziale che rappresenta, anche se finora più nel comporre che nel composto. Fatto sta che sembrano delinearsi nuove strade, inimmaginabili sino a pochi anni fa.
Soprattutto varrebbe la pena di chiedersi cosa è successo alla natura collettiva e musicale del teatro, di tutti i teatri. Non è un caso che molti registi ignoranti dell’essenza musicale del teatro se la cavino meglio con l’opera lirica. Lì la musica e il canto ci sono già e sono affidati a solidi professionisti, e quando un’opera lirica è rovinata dalla regia, per salvarsi basta chiudere gli occhi, mentre se si chiudono gli occhi a teatro... E all’opposto si potrebbero smascherare i fautori dell’estetismo pseudo-musicale, registi di raffinatezze esangui e inutili come una sfilata di alta moda dinanzi a una platea di disoccupati. Per non parlare della folla di giornalisti che arrotondano lo stipendio con una predicazione teatrale microfonata.
A questo quadro aggiungerei almeno la spinosa questione della formazione professionale. Una volta l’arte si apprendeva da bambini, ora c’è una discrepanza invalidante tra vita anagrafica e vita artistica: nel teatro di oggi, da adulti si è ancora bambini, ma bambini deboli e manipolabili, e dopo la formazione professionale si è al più adolescenti: tutto ciò che conta deve ancora accadere. Invece delle non-scuole condotte da chi è lì perché il teatro non lo sa fare, servirebbero botteghe e laboratori nei quali formarsi come individui-teatro indipendenti anziché come assidui frequentatori di provini con i quali pietire, quando va bene, un lavoro stagionale. E non si venga a dire che le non scelte del potere teatrale garantiscono la pluralità delle ricerche, perché questo sistema sceglie eccome di destinare la maggior parte delle risorse materiali e intellettuali al “teatro mortale” (Peter Brook), quello che invece di conservare le tradizioni rinnovandole le sostituisce con le pessime novità cui si è fatto cenno.
Si potrebbe obiettare che è il pubblico a volere questo, ma sappiamo che da alcuni decenni ormai esso è formato e sistematicamente formattato in tal senso. Per questo si sente la mancanza di una vera critica teatrale, qualcosa di diverso dalla folla di pensierini a briglia sciolta che appaiono in fondo ai giornali o dal caos dilettantistico e sostanzialmente servile dei social media. Si pensi ad esempio a una vera analisi critica come quella che Aldo Grasso dedica alla produzione televisiva. Con circa duemila battute, ogni giorno Grasso riesce egregiamente sia a riferire dei fenomeni (recensioni) sia ad analizzare il fenomeno in tutti i suoi aspetti politici, culturali, economici e di costume. Dunque non è questione del poco spazio concesso al teatro dalla carta stampata, ciò che importa è un’attenzione sistematica, quotidiana, che non fa certo rimpiangere le scontate recensioni random di qualche firma (sempre con sigillo del voto scolastico). Soltanto la sistematicità può configurare un discorso serio e approfondito in grado di reggere anche la coabitazione con la inevitabile vischiosità delle cosiddette presentazioni. A cosa serve una massa di critici più o meno dis/occupati, più o meno professionali, quasi sempre ridotti a promoter dei teatri che li invitano ospitandoli? Ovviamente tra loro vi sono alcuni critici potenziali, ma allo stato nessuno partecipa a quella cultura attiva che dovrebbe avere un ruolo decisivo anche nelle vertenze vecchie e nuove degli “operatori drammatici”, come avveniva nel secolo scorso. Dunque la vera questione non è la scarsa considerazione accordata dai media al teatro, ma un ambiente professionale senza vitalità, incapace di istruire o partecipare alle vertenze che contano e proporre soluzioni. L’inerzia dell’azione critica e creativa non dipende dalla caratura delle idee, ma dalla mancata coscienza della insularità possibile, oppure, per gli artisti, da quel fraintendimento “debole” dell’individualismo che si manifesta allorché invece di essere spettatori accorti della propria auto/bio/grafia nell’opera si pretende di fare opera del proprio ego. Tutti i sintomi concorrono a suggerire che la questione di una postura etica è preliminare a ogni altra.

Un’etica dell’arte
Le questioni affascinanti, decisive o comunque interessanti qui abbozzate sono destinate a diventare una palude tossica invece che un “fluido fiume” se non sono contenute tra le solide sponde di un’etica alternativa agli attuali catechismi economicisti o ideologici. Converrebbe perciò tornare alla proposta di Sloterdijk.
Il suo preambolo: “Le persone possiedono il linguaggio così da poter parlare dei loro pregi”, persino “le lingue dell’auto-critica sono supportate da una funzione di auto-innalzamento” e i “gruppi storici di parlanti, tribù e popoli, sono entità auto-elogiative”. Il discorso del filosofo tedesco, da intendere nel complesso come l’invito a compiere un vero e proprio esercizio psicofisico (una volta si sarebbe detto “spirituale”), consiste, come s’è detto, in primo luogo nel rintracciare e percorrere in Nietzsche una possibile via d’uscita dalla terribile “forza eulogistica della lingua fin dal suo fondamento”. All’inizio può sembrare di avere a che fare con una questione di narcisismo dilagante, ma bisogna intendere il mito diversamente dalla vulgata. Narciso muore nell’anima, non nel corpo, o per meglio dire annega, trascinato dal proprio ego illusorio, in quell’acqua stagnante nella quale l’individuo si illude di distinguersi e valorizzarsi e così ottenere il premio che merita, diventando invece una molecola della putredine umana. La questione chiave è dunque quella di correggere l’ineliminabile individualismo che è diventato la nostra natura, impresa antropotecnica da intendere come un compimento positivo della volontà di potenza. Ecco allora la proposta dell’insularità, che ognuno è sfidato a tradurre nella propria vita. Soltanto quel farsi isola, luogo ospitale per alcuni e inospitale per altri, terreno di uno spietato lavoro su sé stessi, luogo e tempo di solitudine e socialità, di sofferenza e felicità, può condurre alla liberazione, per allontanamento, da un orizzonte concettuale che porta alla dipendenza da mondi illusori e tossici. E il giusto agire comporta necessariamente un compromettere sé stessi, insomma uno sputtanarsi, prima manifestazione dell’etica della generosità caldeggiata da Nietzsche.
Sloterdijk sostiene che “i generosi si pongono in antitesi rispetto ai buoni”, da Nietzsche definiti giustamente décadents, visto che “inseguono il sogno di monopolizzare soltanto le buone intenzioni” quando invece si tratta di ben altro, ossia di introdurre “il riso nella religione” e di sfuggire all’alternativa fatale tra “garantire per Dio o garantire per l’Io”. Sono parole-specchio riferibili anche al microcosmo del teatro italiano di oggi.
Era questa la proposta di Francesco d’Assisi, genio ignorante e santo folle che al tramonto dell’epoca feudale vedeva affermarsi un decantare che si insediava “al centro” del corpo-mente, spingendo il cantare “a margine”. La sua autopoiesi contraddiceva le istanze della prima modernità e perciò era destinata a sopravvivere al margine dell’arte e della religione. Come per ogni vera rivoluzione culturale o scientifica, la precondizione necessaria per concretizzarla è sapere di sapere: l’insularità di Francesco è la scoperta di una felicità consistente, evitando l’indigenza, nel trasformare la povertà in una immensa ricchezza e nella scelta dell’azione poetica come soluzione (in senso alchemico) dell’individualismo, azione che in un certo senso porta a non essere più singoli autori e a creare semmai quei nuovi organismi artistici che Bertolt Brecht definiva “collettivi di narratori”, prefigurando così il “passaggio a una nuova umanità” (Sloterdijk). Accettare questa sfida significa riconoscersi semmai nel dio romano Giano Bifronte, ovvero agire nel presente mentre si presta attenzione al passato e al futuro.
In questa prospettiva, le storie della cultura e dell’arte si presentano come un panorama da osservare con occhi nuovi e il “cinismo” invocato da Sloterdijk risuona come un equivalente della “crudeltà” di Antonin Artaud. Non è un caso che le parole chiave per l’azione nel presente siano, secondo il filosofo, autopoiesi, antropotecnica, esercizio e laboratorio, le stesse che sono al centro delle grandi rivoluzioni teatrali del Novecento e di molte vocazioni attuali. Ecco un altro motivo per cui il divenire dell’arte drammatica è di primaria importanza per l’intera civiltà, un operare per la liberazione dall’allucinazione identitaria del nostro tempo. Oltretutto l’attuante ha una propensione naturale per l’insularità, dato che una vita vissuta in quanto “composizione artistica” è qualcosa che si esprime nella massima esposizione dell’osceno e al tempo stesso nella cancellazione dell’ego mondano. Stiamo parlando, naturalmente, di un attuante che rinuncia “a imporre la piena presenza del significato in ciò che è detto” (in quel senso “si fallisce sempre”) e si allena a performare la differenza. Così l’insularità diventa un’etica dell’arte, ovvero si traduce in un’opera-vita che crea a sua volta un’isola in cui “possono trovare residenza tutti coloro che non sono soddisfatti della propria vita e che hanno intenzione di allontanarsi dal mondo falsificato che li circonda e li inganna” (Bonaiuti).
Letture
Peter Sloterdijk, Il quinto “Vangelo” di Nietzsche – Del miglioramento della buona novella, postfazione di Gianluca Bonaiuti, Mimesis, Sesto San Giovanni 2020.
Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli 2010.
L'ultima immagine è un’altra natura morta di François Tanguy - fotocopia a colori in formato A3 (© Théâtre du Radeau).
