Rileggere Jerzy Grotowski

3 Maggio 2024

Secondo gli storici più avvertiti, nello studio del passato bisogna distinguere tra testi da leggere e monumenti da osservare. Nel caso di Jerzy Grotowski (1933-1999) abbiamo un complesso monumentale di testi nati nell’arco di circa quarant’anni e in contesti assai diversi come la Polonia comunista e cattolica e i luoghi dell’esilio e della diaspora, da ultimo l’Italia e Pontedera.

Distillato da un seminario con ospiti invitati tenuto da Grotowski il 14 e il 15 febbraio 1987, il Performer è testo, a mio parere, da riproporre periodicamente all’attenzione di chi non lo conosce. Penso a una lettura individuale, in qualche modo intima. Il breve commento finale è dunque del tutto facoltativo e da intendersi non come lettura esaustiva di questo documento monumentale, bensì come la sottolineatura di un suo solo aspetto: l’invito a un lavoro su sé stessi per superare il principale dualismo che ci affligge e il possibile svolgersi di questo lavoro nel campo dell’arte e del rituale. (aa)

il Performer (Jerzy Grotowski)

Il Performer, con la maiuscola, è uomo d’azione. Non è qualcuno che fa la parte di un altro. È l’attuante, il sacerdote, il guerriero: è al di fuori dei generi artistici. Il rituale è performance, un’azione compiuta, un atto. Il rituale degenerato è spettacolo. Non cerco di scoprire qualcosa di nuovo, ma qualcosa di dimenticato. Una cosa talmente vecchia che tutte le distinzioni tra generi artistici non sono più valide.

Io sono teacher of Performer (parlo al singolare: of Performer). Teacher – come nei mestieri – è qualcuno attraverso il quale passa l’insegnamento; l’insegnamento deve essere ricevuto, ma la maniera per l’apprendista di riscoprirlo può soltanto essere personale. Il teacher, come ha conosciuto l’insegnamento? Con l’iniziazione, o con il furto. Il Performer è uno stato dell’essere. L’uomo di conoscenza lo si può pensare in rapporto ai racconti di Castaneda, se si ama il romanticismo. Io preferisco pensare a Pierre de Combas. O persino al Don Giovanni descritto da Nietzsche: un ribelle di fronte al quale la conoscenza sta come un dovere; anche se gli altri non lo maledicono, sente di essere diverso, un outsider. Nella tradizione indù si parla dei vratia (le orde ribelli). Un vratia è qualcuno che si trova sul cammino per conquistare la conoscenza. L’uomo di conoscenza [człowiek poznania] dispone del doing, del fare e non di idee o teorie. Cosa fa per l’apprendista il vero teacher? Dice: fa questo. L’apprendista lotta per comprendere, per ridurre lo sconosciuto a conosciuto, per evitare di fare. Per il fatto stesso di voler capire, oppone resistenza. Può capire solo se fa. Fa o non fa. La conoscenza è questione di fare.

il pericolo e la chance – Se utilizzo il termine di guerriero, forse si penserà a Castaneda, ma anche tutte le scritture parlano del guerriero. Lo si trova tanto nella tradizione indù che in quella africana. È qualcuno che è cosciente della propria mortalità. Se è necessario affrontare i cadaveri, li affronta, ma se non occorre uccidere, non uccide. Presso gli indiani del Nuovo Mondo si diceva del guerriero che tra due battaglie ha il cuore tenero, come una giovinetta. Per conquistare la conoscenza egli lotta, perché la pulsazione della vita diventa più forte, più articolata nei momenti di grande intensità, di pericolo. Il pericolo e la chance vanno insieme. Non c’è classe se non di fronte al pericolo. Nel momento della sfida appare la ritmizzazione degli impulsi umani. Il rituale è un momento di grande intensità. Intensità provocata. La vita diventa allora ritmo. Il Performer sa legare gli impulsi del corpo al canto. (Il flusso della vita si deve articolare in forme). I testimoni entrano allora in uno stato di intensità perché, per così dire, hanno sentito una presenza. E questo grazie al Performer, che è un ponte tra il testimone e quel qualcosa. In questo senso, il Performer è pontifex, colui che costruisce ponti. 

L’essenza: etimologicamente si tratta dell’essere, dell’esserità. L’essenza mi interessa perché niente in essa è sociologico. È quello che non si è ricevuto dagli altri, che non viene dall’esterno, che non si è imparato. Per esempio, la coscienza (nel senso di the conscience) è qualcosa che appartiene all’essenza; è differente dal codice morale, che appartiene alla società. Se infrangi il codice morale ti senti colpevole ed è la società che parla in te. Ma se fai un atto contro coscienza senti rimorso – questo è fra te e te, non fra te e la società. Dal momento che quasi tutto quello che possediamo è sociologico, l’essenza sembra poca cosa, ma è nostra. Negli anni Settanta, in Sudan, c’erano ancora dei giovani guerrieri nei villaggi Kau. Nel guerriero in organicità piena, il corpo e l’essenza possono entrare in osmosi e pare impossibile dissociarli. Ma non è uno stato permanente, non dura a lungo. È, secondo l’espressione di Zeami, il fiore della giovinezza. Invece, con l’età, si può passare dal corpo-e-essenza al corpo dell’essenza. E questo in seguito a una difficile evoluzione, una trasmutazione personale che è, in realtà, il compito di ciascuno. La domanda chiave è: che cos’è il tuo processo? Gli sei fedele oppure lotti contro il tuo processo? Il processo è come il destino di ciascuno, il proprio destino che si sviluppa nel tempo (o che semplicemente si svolge, e questo è tutto). Allora: qual è la qualità della tua sottomissione al tuo proprio destino? Si può captare il processo se ciò che si fa è in rapporto con noi stessi, se non si odia ciò che si fa. Il processo è legato all’essenza e virtualmente conduce al corpo dell’essenza. Quando il guerriero è nel breve tempo dell’osmosi corpo-e-essenza deve afferrare il proprio processo. Adattato al processo, il corpo diventa non-resistente, quasi trasparente. Tutto è leggero, tutto è evidente. Nel Performer il performing può diventare qualcosa di prossimo al processo. 

l’Io-Io – Si può leggere nei testi antichi: Noi siamo due. L’uccello che becca e l’uccello che guarda. Uno morirà, uno vivrà. Ebbri d’essere nel tempo, preoccupati di beccare, ci dimentichiamo di fare vivere la parte di noi stessi che guarda. C’è allora il pericolo di esistere soltanto nel tempo, e in nessun modo fuori del tempo. Sentirsi guardati dall’altra parte di sé, quella che è come fuori del tempo, dà l’altra dimensione. Esiste un Io-Io. Il secondo Io è quasi virtuale; non è, dentro di te, lo sguardo degli altri, né il giudizio: è come uno sguardo immobile, una presenza silenziosa, come il sole che illumina le cose – e basta. Il processo può compiersi soltanto nel contesto di questa immobile presenza. Io-Io: nell’esperienza la coppia non appare come separata, ma come piena, unica.

Nella via del Performer, si percepisce l’essenza quando essa è in osmosi con il corpo, quindi si lavora nel processo sviluppando l’Io-Io. Lo sguardo del teacher può a volte funzionare come specchio del legame Io-Io (quando questo legame non è ancora tracciato). Quando il canale Io-Io è tracciato, il teacher può sparire e il Performer continuare verso il corpo dell’essenza; quello che si potrebbe scorgere nella fotografia di Gurdjieff vecchio seduto su una panchina a Parigi. Dalla fotografia del giovane guerriero Kau a quella di Gurdjieff si vede il passaggio dal corpo-e-essenza al corpo dell’essenza.

Io-Io non vuol dire essere tagliato in due ma essere doppio. Si tratta di essere passivi nell’agire e attivi nel vedere (al contrario delle abitudini). Passivo vuol dire essere ricettivo. Attivo essere presente. Per nutrire la vita dell’Io-Io, il Performer deve sviluppare non un organismo-massa, organismo dei muscoli, atletico, ma un organismo-canale attraverso cui le energie circolano, si trasformano, il sottile è toccato.

Il Performer deve fondare il proprio lavoro su una struttura precisa. Facendo degli sforzi, poiché la persistenza e il rispetto dei dettagli sono la norma che permette di rendere presente l’Io-Io. Quello che si fa dev’essere preciso. Don’t improvise, please! Bisogna trovare delle azioni semplici, ma avendo cura che siano padroneggiate e che siano durature. Altrimenti non si tratta del semplice, ma del banale.

ciò che ricordo Uno degli accessi alla via creativa consiste nello scoprire in se stessi una corporeità antica alla quale si è collegati da una relazione ancestrale forte. Non siamo allora né nel personaggio né nel non-personaggio. A partire dai dettagli si può scoprire in sé un altro: il nonno, la madre. Una foto, il ricordo delle rughe, l’eco lontana di un colore della voce permettono di ricostruire una corporeità. All’inizio, la corporeità di qualcuno di conosciuto, e in seguito, sempre più lontano, la corporeità dello sconosciuto, dell’antenato. È letteralmente la stessa? Forse non lo è letteralmente, ma come avrebbe potuto essere. Si può arrivare molto lontano all’indietro, come se la memoria si risvegliasse. È un fenomeno di reminiscenza, come se ci ricordasse del Performer del rituale originario. Ogni volta che scopro qualcosa ho la sensazione che sia ciò che ricordo. Le scoperte sono dietro di noi, e bisogna fare un viaggio all’indietro per arrivare fino a esse. Con uno sfondamento – come nel ritorno di un esule – si può toccare qualcosa che non è più legato alle origini ma – se oso dirlo – all’origine? Credo di sì. L’essenza è il fondo nascosto della memoria? Non ne so nulla. Quando lavoro in prossimità dell’essenza, ho l’impressione che la memoria diventi realtà. Quando l’essenza è si attiva, è come se forti potenzialità si attivassero. La reminiscenza è forse una di queste potenzialità.

l’uomo interiore Cito:

Tra l’uomo interiore e l’uomo esteriore c’è la stessa differenza infinita che tra il cielo e la terra.

Quando ero nella mia causa prima, non avevo Dio, ero causa di me. Là, nessuno mi domandava dove tendevo né quello che facevo; non c’era nessuno a interrogarmi. Quello che volevo, lo ero e quello che ero lo volevo; ero libero da Dio e da qualsiasi cosa.

Quando ne uscii (ne fluii) tutte le creature parlarono di Dio. Se mi si domandava: – Fratello Eckhart, quando sei uscito di casa? – C’ero ancora un istante fa. Ero me stesso, mi volevo me stesso e mi conoscevo me stesso, per fare l’uomo (che quaggiù sono). Per questo sono non-nato, e secondo il mio modo di non-nato non posso morire. Quello che sono secondo la mia nascita morirà e si annienterà, perché è devoluto al tempo e marcirà con il tempo. Ma nella mia nascita nacquero anche tutte le creature. Tutte provano il bisogno di elevarsi dalla loro vita alla loro essenza.

Quando rientro, questo sfondamento è ben più nobile della mia uscita. Nello sfondamento – là – sono al di sopra di tutte le creature, né Dio, né creatura; ma sono quello che ero, quello che devo restare ora e per sempre. Quando arrivo là, nessuno mi domanda da dove vengo, né dove sono stato. Là sono quello che ero, non cresco né diminuisco perché sono, là, una causa immobile, che fa muovere tutte le cose.

Nota (che seguiva il testo pubblicato secondo l’impostazione grafica dettata da Grotowski dal Centro di Lavoro di Jerzy Grotowski, a Pontedera nel 1988): Una versione di questo testo (basato sulla conferenza di Grotowski) è stata pubblicata nel maggio 1987 dalla rivista “Art Press”, Parigi, con la seguente nota di Georges Banu: “Non è né una registrazione, né un resoconto che propongo ma degli appunti presi con cura, quanto più prossimi possibile al linguaggio di Grotowski. Bisognerebbe leggerli come indicazioni di percorso e non come i termini di un programma, né come un documento finito, scritto, chiuso”. Questo testo è stato rielaborato e ampliato da Grotowski in vista della presente pubblicazione. Identificare “il Performer” con gli stagiares del Workcenter sarebbe un abuso. Si tratta piuttosto di quel caso di apprendistato che, nell’intera attività del “teacher of Performer”, non si presenta che rare volte.

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Gurdjieff: Georges Ivanovič Gurdjieff.

Commento (Antonio Attisani)

Prima di passare ai fatti. Lettura che mette alla prova ma che vale la pena di affrontare, il Performer è testo antico e proveniente da un altro mondo, che si potrebbe vagliare con mille obiezioni circa la sua comprensibilità, alcuni concetti spigolosi e contraddizioni, la sua apparente lontananza dal teatro e dalla pratica artistica. Si può dissentire fin dalle prime figure indicate come performer (il guerriero e il prete, oltre all’attuante). Cos’hanno in comune? Il fatto di attivare e sviluppare la totalità delle risorse psicofisiche per esercitare la propria funzione sociale. È vero che è difficile immaginare un Performer impiegato di banca, ma anche gli impiegati di banca o gli amministratori di condominio hanno un corpo-mente (trattino di congiunzione) che possono più o meno attivare e sviluppare. Dunque Performer non si è, lo si diventa.

Grotowski sceglie un termine rilanciato dal teatrologo americano Richard Schechner, la cui teoria della performance (comprendente religioni e rituali, arti performative, recitazione quotidiana, giochi e sport...) aveva portato alla nascita di un nuovo idioma a livello mondiale. Il maestro polacco lo sceglie attribuendogli in modo intenzionale e polemico un diverso significato, facendo del Performer il nome della massima realizzazione umana. Prima di questo ultimo orizzonte, aveva sostituito l’attore (concetto che ormai voleva dire tutto e niente) con il doer, l’attuante, colui che fa. Da allora, mentre il termine doer si è inabissato in un linguaggio ultra specialistico, la terminologia della performance ha perduto la sua potenza operativa a causa dell’inflazione di significato che l’ha travolta. Mi sia concesso di non soffermarmi su questo importante passaggio e rimandare al saggio nel quale Marco De Marinis spiega pazientemente come si sia verificata la deriva del dispositivo ideologico performativo, d’altronde presagita dallo stesso Schechner, e come Grotowski lo abbia interpretato a contraggenio. Per parte mia posso soltanto confermare empiricamente, avendo preso parte nei primi anni duemila a un mastodontico convegno dell’associazione statunitense di studi teatrali, in una sala nella quale eravamo congelati dall’aria condizionata secondo loro indispensabile per difendersi dal clima torrido dell’Arizona e nel quale centinaia di illustri teatrologi adepti del performativo parlavano di tutto fuorché di teatro.

Uno degli effetti di questa liquefazione dei significati è che il testo grotowskiano qui riproposto, per essere letto, dev’essere criticamente revisionato, anche per mezzo di una nuova terminologia destinata a sua volta, se e quando dovesse avere successo, a svuotarsi di senso. Il concetto che comprende e supera quelli di performer e performance è quello di “corpo teatro”, che dobbiamo al filosofo Jean-Luc Nancy: “Non bisognerebbe dire pertanto che il culto precede il teatro e lo genera, bensì che il corpo teatro precede tutti i culti e tutte le scene. La teatralità non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte derivano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione”.

E Grotowski: “Il rituale è performance, un’azione compiuta, un atto. Il rituale degenerato è spettacolo”. Scrivendo “religione” anziché “rituale” e “teatro” anziché “spettacolo”, Grotowski propone una rivoluzione, anche in senso storiografico. (Non è fuori luogo ricordare qui che il Dalai Lama e alcuni suoi dotti collaboratori, nel tradurre in inglese il trattato di Tsongkhapa all’origine dell’ordine monastico Gelug, utilizzano il termine performance per indicare ciò che in molte lingue era prima tradotto come rituale.) Se avesse detto che la religione degenerata diventa teatro, avrebbe da una parte replicato il luogo comune della derivazione del teatro, creazione mondana, dalla religione, mentre invece, come ha fatto Nancy alcuni anni dopo, afferma il contrario, ovvero che le religioni storiche hanno attinto materiali, tecniche e funzioni delle arti performative, traducendole e applicandole. Se il filosofo francese ha forgiato il prezioso concetto utensile che consente di cassare quel diffuso errore, a noi spetta la responsabilità derivante dal comprendere che ciò comporta alcune conseguenze capitali, tra l’altro che il concetto di corpo teatro è soltanto un punto di partenza e dev’essere sviluppato nei diversi campi di applicazione, e inoltre che in tale prospettiva il gergo performativo ritrova almeno in parte un proprio senso.

Quando Grotowski scrive che “il Performer, con la maiuscola, è uomo d’azione”, oggi possiamo pensare a questa figura come il poietes, il poeta, non colui o colei che scrive poemi ma colui che fa, che compone poemi e li esegue utilizzando la musica, il canto e non di rado anche danza. Il poeta-attuante è l’uomo d’azione. Ciò che conta, nella risonanza del testo grotowskiano letto in questa chiave, è che il corpo teatro non è da intendere soltanto come qualcosa che in un certo senso viene prima della storia, ma come un fondo di memoria “non sociologica”, persino ancestrale, come un potenziale che l’educazione ha fatalmente adattato ai propri scopi e che può essere liberato da un accorto lavoro psicofisico. È qualcosa che chiunque può comprendere guardando un essere umano appena nato e osservando come sviluppa il proprio corpo teatro a seconda delle condizioni in cui si viene a trovare. Secondo Georges I. Gurdjeff, altro sapiente del Novecento citato da Grotowski, l’uomo è costituito da essenza e personalità. La prima gli appartiene e la seconda è il risultato delle influenze esterne. In base a questa considerazione l’infanzia, l’individuo non ancora ‘educato’, è considerata come la condizione più prossima all’essenza. Ecco perché il doer deve innanzitutto padroneggiare il cosiddetto metodo delle azioni fisiche, partendo dalle sue unità più elementari e imparando ad assemblarle e riarticolarle fino a ‘riconquistare’ la completezza dell’organico e ripeterla in sequenze sempre più lunghe.

Dopo avere constatato come Grotowski sia nella storia e contro di essa, con i mezzi a sua disposizione, mentre noi ne stiamo vivendo un’altra, di storia, e con altri mezzi, torniamo al suo testo-tesoro, dal quale vorrei enucleare soltanto un tema e una proposta, una questione cruciale che ciascuno di noi nella vita, consapevole o meno, si trova a affrontare.

Il tema non riguarda soltanto il divenire possibile dell’attore e del teatro, ma impone una riflessione in qualche modo ‘ultima’ sulle potenzialità proprie della condizione umana, potenzialità che un certo lavoro potrebbe sviluppare compiutamente.

Il corpo teatro associa la natura o se si preferisce la biologia, la vita organica, all’arte, o meglio al dinamismo dell’arte. Sono due aspetti inscindibili della condizione umana. La sfida consiste nel salto quantico culturale che resta da compiere nella nostra cultura disorientata tra uno schematico materialismo secondo il quale il sensorio è l’ultimo orizzonte e una miriade di istanze ‘spirituali’ che censurano la complessità del corpo teatro. Da una parte abbiamo una vita degli organi senza corpo, dall’altra un corpo abbagliato dall’illusione di poter fare a meno degli organi. Siamo di fronte a uno dei caratteri principali della crisi della tarda modernità.

Poiché, come Jean-Luc Nancy e Carlo Sini ribadiscono spesso, non possiamo più pensare di avere un corpo, ma siamo un corpo che esiste soltanto nella rappresentazione di sé, dunque in una dimensione estetica coincidente con tutta la vita sociale, la dimensione estetica dovrebbe essere ispirata e orientata da un’etica. Tutto ciò comporta la fine della centralità del discorso storico, che passa sullo sfondo, e il dispiego di potenza di un nuovo discorso posto una volta sotto le insegne della “società dello spettacolo” (Guy Debord) e poi “società della performance” (Schechner & Co.). Ora, di fronte alla palese inadeguatezza di quest’ultimo, è necessario un nuovo discorso che comprenda i precedenti, superandoli. La domanda allora è: qual è la nuova potenza di cui abbiamo bisogno e che già si manifesta qui e là nelle pratiche? Il corpo teatro è il più autorevole candidato, discorso emergente che deve ancora esprimere la propria potenza (ma potrebbe anche essere confutato dalla dinamica reale delle cose e ricacciato nel deposito delle idee sconfitte). Un fatto certo è che sviluppando l’idea primigenia di Nancy, il corpo teatro trova il suo habitat naturale nel discorso poetico, o meglio nell’azione poetante.

L’invito. In quasi tutte le tradizioni culturali si dice, con parole diverse, che in effetti siamo o siamo diventati due. Esiste una sorta di corpo interno, in ognuno più o meno nascosto; per questo si parla di corpo e mente, o, nel testo grotowskiano, di uomo interiore e uomo esteriore, di uccello che becca e uccello che guarda. La questione decisiva è dunque il rapporto che si stabilisce tra queste due entità, entità che nei sapienti, anziché consumarsi nel conflitto tra loro, diventano una sola. Grotowski definisce la loro separazione come corpo-e-essenza e la loro unione come corpo dell’essenza e nella parte finale del testo, si limita a citare il filosofo e mistico domenicano Meister Eckhart (1260-1327/1328). La citazione è da leggere in base a tutto ciò che precede, ossia, per restare strettamente al tema di questo articolo, come invito a porre in relazione le due entità attraverso un per/formare che potremmo definire azione poetante oppure, perché no?, come arte drammatica accortamente ridefinita come composizione in forme di diverse azioni. Il flusso della vita dovrebbe essere articolato in forme. Il vangelo apocrifo di Filippo (67, 10) recita: “La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini. Non la si può afferrare in altro modo […] Bisogna veramente rinascere per mezzo dell’immagine”.

Stiamo invocando un’azione che sancisce non il modo, ma uno dei modi più efficaci per arrivare a quello “sfondamento” e a quel “corpo dell’essenza” che costituiscono il massimo compimento dell’esistenza umana, ma anche, si potrebbe dire, che risponde all’imperativo “diventa ciò che sei” (Nietzsche), ossia alla scoperta dei propri limiti e del modo di superarli che è concesso a ciascuno di noi innanzitutto dal proprio passato.

Questo rivoluzionario ‘ritorno al teatro’ non riguarda gli aspetti più esteriori dell’istituzione moderna, semmai rimanda al ricco catalogo delle avanguadie novecentesche e ci fa comprendere cosa volessero dire Grotowski e i suoi compagni quando parlavano di “attore santo”, di “atto” e di “estasi”, vale a dire non un ripiegamento nella religione ma il lavoro artistico come ponte o cammino da intraprendere con consapevolezza anziché nell’ignoranza e nel conflitto. La terminologia grotowskiana, spesso interpretata riduttivamente come uno pseudo-misticismo e per questo all’origine di molti equivoci teatrali e non, cercava di indicare una strada dimenticata: quella di un lavoro che può portare fino all’estasi ma che deve concludersi con l’enstasi, il decisivo ritorno; e quella della relazione inevitabile tra la rappresentazione (scena) e l’impresentabile (osceno).

Il Performer, come s’è visto, dice molte altre cose importanti, ad esempio sul rituale, sulla ritmizzazione (dell’azione poetante), sulla reminiscenza e sulla fine dell’insegnamento. Sono altrettanti passaggi del ‘lavoro teatrale’ da riscoprire, aspetti di una filosofia fisica, tecniche se vogliamo, che costituiscono la prassi quotidiana di colui che potremmo tornare a chiamare attore. Stiamo dicendo, tra le altre cose, che la vita quotidiana è più facilmente inautentica dell’azione scenica.

L’autore di queste righe ha avuto l’immensa fortuna di conoscere da vicino alcune personalità geniali. Per qualcuno di loro la sapienza coincideva però con la sofferenza derivante dal conflitto con il contesto storico e dalle difficoltà nelle relazioni quotidiane, ma osservandoli non si potevano avere dubbi che in loro la cosiddetta personalità fosse arrivata a coincidere con l’essenza, ed era molto chiaro cosa significasse nel loro caso essere passivi nel fare e attivi nel guardare, soprattutto ma non soltanto nella creazione artistica. Esistono sapienti dal corpo in un certo senso ritirato e sapienti dal corpo relativamente agitato, felici o infelici, tutti comunque padroni del proprio destino. Sia come sia, la loro realizzazione personale per noi significa poco, ciò che conta è che a partire da questa condizione hanno prodotto opere emozionanti e ci hanno resi un po’ migliori.

Infine, per dimostrare che le idee qui esposte non sono stravaganze o dichiarazioni poetiche individuali, eccole riprese dal dettato di Carmelo Bene, artista quanto mai lontano da Grotowski: “Dunque attore e poeta son tutt’uno. / Nella ‘poesia’ composita un ‘poeta’ può non essere attore, così come in un teatro del composito un ‘attore’ può non essere un poeta. / Ma abbiamo ammesso la ‘composizione’ estranea affatto alla poesia del dire. Dunque il poeta è necessariamente un attore […]. Chi sulla scena non è poeta non è attore”.

Anche quella di Bene è una pronuncia storicamente determinata e sulla quale sarebbe interessante ritornare, nel caso di specie dal rifiuto radicale del “composito” dominante. Una differenza di oggi è che il tramonto del composito (come idea e come protocollo d’opera) è sempre più sentito come inevitabile, mentre l’istanza della composizione eseguita dai suoi autori si delinea come l’habitat estetico/etico degli attuanti di ogni tipo.

Letture

Grotowski – Testi 1954-1998, IV: L’arte come veicolo, ediz. italiana di Carla Pollastrelli in collaborazione con Mario Biagini e Thomas Richards, La casa Usher, Firenze-Lucca 2016.

Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli 2010.

Marco De Marinis, Performance Studies: il dialogo continua, “Mantichora”, IX, 9, 2019, pp. 23-32.
Carmelo Bene, Della poesia a teatro, in Id., Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Bompiani, Milano 2002.

Nell’ultima fotografia Jerzy Grotowski.

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