Femminile e maschile in scena

Cara Amica,
un poco mi vergogno ma poi, guardandomi intorno, mi consola l’impressione di essere messo meno peggio della maggioranza dei miei simili, intendo il genere maschile, ma non soltanto. Certo è sconcertante scoprire il femminismo alla mia età. Scoprirlo? Prima l’ho vissuto, di sponda ovviamente, quando era un fenomeno vistoso e coinvolgente. Ero giovane e sicuramente ha molto influito sulla mia mentalità e la mia vita, sia come sapere non saputo sia per il contrasto ad aspetti del femminismo che vivevo con fastidio. Ma il fatto è che soltanto adesso ci sto riflettendo attentamente. Tant’è.
La nostra recente amicizia mi incoraggia a condividere con te alcuni pensieri. Tieni presente, però, che la scena costituita da una lettera aperta non mi consente di mettere in parola i pensieri più intimi riguardanti il passato e il presente; forse è troppo tardi, non credo che ce la farò mai, anche perché non mi sento di tirare in ballo le donne della mia vita, da mia nonna e mia madre alle nipoti, passando per le mogli, le amanti e gli incontri professionali o più occasionali, senza che le interessate possano dire la loro. Possiamo però condividere uno sguardo su una porzione d’orizzonte, su una scena-di-vita che entrambi consideriamo importante, il teatro: intendo il gioco del teatro, il teatro come lavoro, il rapporto – come ripetiamo spesso – tra la scena e l’osceno, tra la vita personale e la cittadinanza, la questione del “fingere veramente”, l’aspetto performativo della vita e, ultimo ma non meno importante, le questioni dell’educazione e del viaggio individuale e collettivo tra generi e forme di vita.
Se il femminismo è un movimento del pensiero e un’azione delle donne che invoca un cambiamento del mondo, tutti quanti dovremmo chiederci cosa significa per la nostra prima persona e per il mondo in cui viviamo. Eccomi dunque alla proposta davvero modesta ma forse non inutile di confronto in una riflessione sull’arte drammatica: non genericamente sul teatro e sullo spettacolo, ma sull’arte dell’attore
(se posso evitare asterischi multigenere e altre convenzioni del politicamente corretto con le quali non so destreggiarmi).
Tutti sappiamo che nell’ambito del teatro e dello spettacolo i costumi sono mediamente più spregiudicati ma allo stesso tempo si intrecciano naturalmente e storicamente con il perdurante dominio maschile. In questo momento stanno diventando verità pubblica alcune manifestazioni di quel dominio, prima subite e ora per fortuna divenute insopportabili per il senso comune. Buoni ultimi ma comunque benvenuti, i media fanno da cassa di risonanza alla sacrosanta messa in stato d’accusa sempre più circostanziata di quei soprusi e dei loro autori. Ciò avviene, tra l’altro, sullo sfondo di una bibliografia femminista assai vasta anche per quanto riguarda il teatro. Senza ovviamente negare l’importanza della militanza attiva su quel fronte, però, penso che valga la pena di soffermarsi su un tema finora
trascurato, probabilmente a causa della sua apparente astrattezza, ovvero: quali indicazioni relative al modo di produzione teatrale sono implicite nell’istanza femminista? Con ciò non avanzando la pretesa di proclamare verità assolute e immutabili, ma giusto la necessità di fare un passo avanti consapevole, di articolare un discorso altrettanto necessario, di interpretare i bisogni che oggi emergono alla nostra coscienza.
Ti propongo perciò in forma sintetica, di titolazione direi, alcuni temi che secondo me riverberano dall’istanza femminista e ti chiedo se, secondo te, potrebbero essere proposti ai professionisti dello spettacolo e a tutti coloro i quali pensano al teatro, a un teatro “totale” ovviamente e non di sola prosa, come modo di produzione della socialità, della conoscenza e della felicità.

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Ermanna Montanari in 'Rosvita' (1991) - Fotografia di Marco Caselli Nirmal. Archivio Teatro delle Albe.

– Il dualismo della società patriarcale, prima imposto alla maggioranza degli esseri umani, è oggi in piena crisi, benché consustanziale al modo di produzione dominante. Sotterraneamente, in crisi lo è sempre stato, i disagi che provocava hanno suscitato diverse reazioni nel corso della storia, ma la differenza è che oggi di ciò vi è coscienza e il femminismo in questo senso rappresenta una svolta storica decisiva. Certo, il nuovo orizzonte non si vede ancora, ma quello di prima non si vede più. Dunque mi pare che un primo passo che tutti dovremmo compiere sia quello di tradurre in storia presente l’umanità apocrifa delle donne, tra l’altro prendendo rispettosamente ma decisamente le distanze dalle donne che preferiscono integrarsi nel canone storico patriarcale.
– Un primo presupposto è che le donne e gli uomini non sono tutti uguali, né dovrebbero esserlo: ogni essere umano è diverso dagli altri e nessuno è “normale”.
– Altra cosa che mi sembra di poter dedurre è che se la questione è universale, l’universo è pur sempre un insieme infinito di “pezzi”, di “pubblico” e di “privato”, pezzi tutti in relazione tra loro, fino ai più piccoli, fino al nulla. Uno di questi pezzi è l’arte drammatica, diciamo il teatro.
– Se il trascendimento del mondo presente non si può ottenere con i modi del passato, non basta più una scena dialettica che si conclude con l’Aufhebung (la sintesi, il compimento) e dunque con un precetto ideologico. È necessario piuttosto un’Aufhebung della dialettica, della logica dualistica e di ogni pretesa di sintesi prescrittiva.
– La scena è abitata da un materialismo integrale manifestato nell’intimità pubblica: teatro come luogo e tempo speciali nei quale e durante i quali accade che i singoli sperimentano il divenire moltitudine e i molti diventano uno.
– In questo senso il maschile e il femminile sono travolti: la poesia e il poeta si fondono nell’azione del poetare e nella dimenticanza dell’io. L’azione poetante è la manifestazione performativa dell’amore, come suggerisce Diotima.
– La rilettura del discorso di Diotima nel Simposio di Platone e della cosiddetta Poetica di Aristotele dovrebbero fare parte a pieno titolo dell’istanza femminista riferita al teatro.
– La poiesis come nudità dell’anima, nudità che non significa disponibilità.
Oscenità a braccetto con la compassione. Vicinanza a braccetto con la lontananza e la differenza, intimità senza complicità, affetto che attraversa i corpi.
– Il ragionamento, il contenuto ideologico e l’ideale di formazione del cittadino sono messi in scacco da un’azione poetante necessariamente grottesca e oscena.
Continua ripartenza dalla vita come gioco, vale a dire come produzione di felicità e conoscenza, o almeno incontro determinante.
– L’arte drammatica si esercita in modo efficace quando e perché scioglie i dualismi, scioglimento che è causa e insieme effetto del lavoro performativo e drammaturgico. Naturalmente capita di inciampare, ad esempio quando il femminile intende la propria emancipazione come doppio del maschile.
– Il sentimento matrice di tutti gli stili è il grottesco: teatro carnale, luogo degli opposti senza sintesi, scena nella quale agisce il corpo-mente (con il trattino di congiunzione).
– Il corpo teatro con il quale si viene al mondo è un potenziale da sviluppare tramite addestramento e allenamento, da tenere distinti ma sempre radicati nell’istanza creativa.
– Arte come pratica di vita e unità di senso, con la consapevolezza dell’inarrestabile transito e della sua scadenza mortale.
– Il soggetto (artistico) è una funzione, non una personalità, non un io. Il successo e persino il divismo riguardano le figure create, non il loro autore, che rispetto a loro è sempre altrove, come un padre partito in guerra.
– Il femminismo, inoltre, mi sembra suggerire che l’arte è da fare senza annunci.
Prima di mostrare la propria opera, non ci si richiude dentro la corazza delle nobili intenzioni per sollecitare il pregiudizio positivo. Prima ci si dedica alla “manutenzione della casa”, casa o laboratorio nella quale si mostrerà il lavoro oppure dalla quale si uscirà. Da qui l’importanza dell’accoglienza degli “amici” e l’idea di un benessere che depenna l’“economia”. Fare ad arte, senza “dire” e senza preparazione che non sia la cura della casa e l’accoglienza degli amici.
– Dunque non fare le prove, ma imparare facendo. Non ricchezza o povertà, ma sentirsi bene: ben-essere nel transito.
– Un ambiente di lavoro nel quale ci si dimentica della competizione e si con/corre nella sorellanza e nella fratellanza. Non ci si esaurisce nella funzione critica o anti- critica, si privilegia la creatività, la cui tirannia è gentile.

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Ermanna Montanari in 'Rosvita' (1991) - Fotografia di Marco Caselli Nirmal. Archivio Teatro delle Albe.

– Giocare, sperimentare anziché progettare.
– La vacuità essenziale di tutte le cose è abitata da possenti convenzioni dalle quali non possiamo prescindere. Possiamo soltanto procedere a una riverifica dei poteri, giocando, appunto.
– I dualismi che affliggono il teatro – corpo/parola, dizione/canto, serio/comico, affermazione/successo, autorità/democrazia – devono essere sciolti con serena regalità.
– La logica piacere-dispiacere, dimenticarla. Esercizio della seduzione attiva e passiva. Godimento di una pienezza che non è mai “io”.
– Il tiranno, anche fosse donna, è sempre uomo. Esempi a iosa.
– Da portare a compimento, invece, la storia della regia. Fine della maschia autorità logico-formale. Il regista insediato non più come ingegnere dei materiali e delle anime ma come levatrice ed “educatore” della unicità poliedrica propria degli agenti-in-scena.
– L’intimità come culmine dell’artificio teatrale cui ci si abbandona.
– Una cosa è cadere nella trappola duale dell’uomo che si fa donna e della donna che si fa uomo, come necessariamente avveniva all’inizio, un’altra è il trascendimento dell’anagrafe e della storia, il luogo in cui si fermano coloro i quali vogliono vincere la battaglia del governo (ognuno si faccia i propri esempi). Altra ancora – quella più interessante – è stare nell’eterna guerra del vivere, impegnandosi a procedere allo sterminio degli errori, ossia nell’essere crudeli verso
se stessi e compassionevoli con l’universo-mondo.
– Ognuno di noi conosce queste dualità nella vita e nell’arte, ma forse non ha imparato a riconoscerle come conviene. Chi ne ha la fortuna, se entra in scena consapevolmente, aiuta gli altri a farlo.
Mi piacerebbe conoscere il tuo riscontro a questi pensieri, a me suggeriti soprattutto dai testi tuoi e di Carla Lonzi.

***
Caro Antonio,
sconcertante non è scoprire dopo un lungo percorso di vita che il femminismo, come pensiero e pratica politica delle donne, ‘rivoluziona’ l’idea del mondo, i rapporti di potere e la cultura patriarcale che abbiamo ereditato, ma sapere che si può arrivare alla fine dei propri giorni senza che questa consapevolezza ci abbia almeno sfiorati.
Tu dici di averlo vissuto solo “di sponda” e a volte non senza fastidio attraverso le donne, madri, mogli, amanti, incontri professionali, della tua vita. Ma quanto abbia influito sulla tua mentalità e su quell’amore per il teatro che dici essere stato, fin da quando a diciotto anni è cominciata la tua formazione di attore, un “piacere totale, quasi un’estasi”, io l’ho capito leggendo il tuo libro Teatro come differenza.
Pubblicato da Feltrinelli nel 1978, a solo un anno distanza da L’infamia originaria, la mia raccolta degli scritti usciti sulla rivista “L’erba voglio”, legati alle pratiche della scuola non autoritaria e dei primi gruppi femministi, non mi è stato difficile trovarvi, applicata al teatro, la stessa sfida che noi rivolgevamo al rapporto tra vita e cultura, sessualità e politica, individuo e società. La crisi del dualismo, la
modificazione profonda dei confini tra privato e pubblico, quel salto della coscienza storica che è stato ripensare la “vita intima” sulla base della “storia non scritta” che vi è stata confinata e ridotta a “natura”, non poteva non trovare nel teatro un luogo particolarmente adatto ad “agire”, più che “rappresentare”, il rapporto tra “la scena e l’osceno”, tra le acque insondate della persona e il cittadino.

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Ermanna Montanari in 'Rosvita' (1991) - Fotografia di Giampiero Corelli. Archivio Teatro delle Albe.

Tu auspicavi allora che potesse avvenire, “ai margini della produzione”, una “risorgenza del teatro come forma di coscienza collettiva”, “spia del fallimento della società” e “forma che ne testimonia una necessità nuova”. L’idea più ambiziosa del femminismo, che si potesse modificare il mondo “partendo da sé”,
spingendo la politica in quella materia segreta che confina con l’inconscio, non è era, in quegli stessi anni, molto lontana da ciò che tu dicevi di aspettarti dall’“attore dialettico”:
L’attore dialettico è un attore che ridiventa uomo affermando nel processo espressivo le sue responsabilità e la sua soggettività (...) dovrebbe tendere a una riconciliazione con tutta la natura, con avvenimenti come la nascita e la morte, con gli altri (una affettività piena, concreta e praticata, che superi il concetto un po’ militare di solidarietà di classe) e dovrebbe favorire un rapporto più maturo (collettivo) con le situazioni di destrutturazione soggettiva (dall’amore alla violenza necessaria). Nell’assunzione delle “mille facce” dell’alienazione, nel portare allo scoperto quello che c’è di oscuro, rimosso nella memoria del corpo, la teatralità non sarebbe più una “rappresentazione”, ma, per citare Antonin Artaud a cui tu fai spesso riferimento, la vita stessa che si mostra in ciò che ha di “irrappresentabile”. Che liberare le passioni, “attivare” ciò che di più arcaico resta sedimentato nel corpo e nella vita psichica sia anche un modo per vederne le cause, oltre che la possibilità di riviverle senza patimento e dipendenza, è un concetto che torna anche nei tuoi scritti più recenti. Nel tuo libro L’arte e il sapere dell’attore. Idee e figure, un posto particolare viene riservato alla rilettura della Poetica di Aristotele, là dove si parla della poesia e di quel suo compimento supremo che è la tragedia. Compito di tutte le arti sarebbe cogliere il vero senso delle vicende umane, avvicinarsi a ciò che siamo realmente. Da qui l’importanza di un processo educativo che abitui fin dall’infanzia a fare del corpo il teatro di una varietà di manifestazioni dell’umano, un allenamento creativo capace di far uso di linguaggi diversi, dalla musica, alla danza, al canto. “Spezzare il linguaggio per raggiungere la vita”, dare corpo alle ombre e alle potenze invisibili che ci abitano, c’è chi l’ha considerata una prerogativa del teatro rispetto ad altre arti. Eppure, anche nelle anomale pratiche del femminismo, la parola attraverso cui passava nel piccolo gruppo di donne il racconto delle vite, non era più la stessa della chiacchiera o della scrittura. Con “l’autocoscienza”, e soprattutto con la “pratica dell’inconscio”, erano i corpi e le passioni che li attraversano a rompere gli steccati di saperi e linguaggi già dati, a svincolare la parola dai significati che le stanno dietro, ad “agirla” spettacolarmente davanti a un “pubblico” del tutto particolare come quello di donne desiderose di trovare nell’ “io” il “noi”, nel vissuto privato esperienze universali dell’umano.
Leggo, in un passaggio del tuo libro: “Ogni singolo gesto dell’attore, ogni tono era un passaggio dalla quotidianità a una comprensione di ordine superiore”. Non sono mancate nel movimento delle donne degli anni Settanta e nei collettivi di omosessuali esperienze teatrali. Ma dove si è mostrata una creatività capace di radicarsi nel corpo, nelle sue insospettabili risorse espressive, nelle sue visionarie
riserve di storia non registrata, è stato allora essenzialmente nella parola parlata. In uno dei gruppi nati a Milano nel 1977, la cui finalità era di capire quale rapporto si fosse creato tra la lenta modificazione di sé e i cento ordini del discorso che avevamo fino allora saccheggiato, tra la sessualità a lungo indagata e la scrittura o il “simbolico”, dicevamo che era necessario «sconvolgere, nella scrittura delle
donne, i modi di pensare e di esprimersi acquisiti senza che si avesse la libertà di scegliere, rintracciare l’origine e il farsi della parola scritta dentro la storia del corpo, imparare a leggere impietosamente, dentro i nostri scritti, la scrittura dell’inconscio...».
Tu dirai che finora ho visto solo somiglianze, senza rispondere alla domanda in cui mi chiedevi quali indicazioni potevano venire dal femminismo per far “fare un passo avanti consapevole” all’arte dell’attore, per “articolare un nuovo discorso” all’altezza di una coscienza mutata, rispetto al rapporto tra i sessi ma anche, più in
generale, a una rappresentazione del mondo che porta ancora oggi i segni del dominio maschile.

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Ermanna Montanari in 'Rosvita' (1991) - Fotografia di Marco Caselli Nirmal. Archivio Teatro delle Albe.

In realtà, non avrei potuto procedere in modo diverso, dal momento che il desiderio di confrontarmi con te è nato assistendo al tuo ultimo spettacolo insieme a César Brie, Boccascena, e dall’idea di farlo seguire da una nostra conversazione su Carla Lonzi. È stata una scelta che mi ha sorpreso e di cui capisco meglio ora la ragione.
Un’azione drammatica in cui due registi-attori, non più giovani, riescono a far rivivere in scena dolori, ferite e felicità del grande amore per il teatro che ha attraversato le loro vite, ma anche la memoria di una stagione politica di grandi promesse ‘rivoluzionarie’, non poteva non farmi sentire in una profonda sintonia. Da molti anni ho avviato una “pratica” che chiamo “scrittura di esperienza” e che
si pone, in linea di continuità con le esigenze radicali del femminismo anni Settanta, nel tentativo di cercare “un’altra lingua”, capace di ragionare con l’esperienza intima, la memoria del corpo e, contemporaneamente, con i linguaggi di fuori, i linguaggi sociali. L’idea di un teatro che faccia pensare, emozionare, divertire sia
chi è in scena sia chi vi assiste, non è forse quello che riesce a restituire attraverso il corpo degli attori i vissuti “irrappresentabili” della storia personale e sociale, che riesce a divertire e commuovere, scandagliare pensieri e sentimenti, sconvolgere la triste abitudine all’adattamento, nel privato come nel pubblico? Detto questo, le “differenze” tra corpi i cui destini li hanno visti su sponde opposte e complementari, disposti secondo logiche gerarchiche e di potere, non mancano. Le donne sono state identificate con il corpo, ma un corpo a cui altri ha dato forme, nomi e ruoli. Il “teatro della crudeltà”, di cui parla Artaud, sia che passi attraverso la parola, parlata o scritta, o un’azione teatrale, per le donne non può essere che inizialmente il passaggio ambiguo, contraddittorio dall’inesistenza al sogno di una rinascita sublime, che compensi del lungo silenzio, senza tener conto del fatto che questa è stata anche la collocazione del “femminile” nella cultura patriarcale: esaltazione immaginativa e insignificanza storica, per usare le parole di Virginia Woolf.
Illuminanti, a questo proposito, sono stati per me gli articoli di registe e attrici pubblicati sulla rivista “Lapis”, che ho diretto negli anni Novanta e, in particolare, lo spettacolo Rosvita di Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna, che fu per me una felice scoperta e l’inizio di una duratura amicizia. In sintonia con un orientamento del femminismo allora dominante che pensava di poter “risignificare”
sul piano simbolico la “differenza femminile” come primato dell’“ordine simbolico della madre” e della genealogia di madre in figlia, molte erano le attrici che mettevano in scena figure di dee, vergini guerriere, ascete, martiri cristiane attraverso cui celebrare la loro uscita da una millenaria cancellazione. Era difficile
per me capire come mai, dopo che si era aperto un processo di liberazione da modelli imposti e interiorizzati, si tornasse a pensare la nascita di un sé più autentico attraverso lo stesso immaginario che le aveva espropriate del loro essere “persone”, e non funzioni al servizio dell’uomo. Eppure non c’era da meravigliarsi se nella scena vuota dell’origine le donne hanno tentato di rappresentare o far accadere la loro nascita mai avvenuta fornendole un significato sublime, la grandezza che poteva risarcirle di una millenaria sepoltura nel silenzio. Ma potremmo anche chiederci se non è proprio il teatro, la sua matrice religiosa a costituirsi come il luogo più adatto per celebrare una nascita che abbia la sacralità di una investitura divina. Se le donne hanno pensato di “dover dare voce” a tutte le Sibille che la storia ha zittite e di poter essere con il loro concorso divino insediate adeguatamente nel mondo, non c’è dubbio che il teatro, restituito alle sue radici iniziatiche, è l’arte che permette di considerare questo evento come “realmente avvenuto”. È stato, negli anni Novanta, lo spettacolo di Ermanna Montanari a sorprendermi per la lucidità con cui svelava sulla scena l’ideale androginismo, perfetta fusione di corpo e mente, naturalità e spiritualità, che sta al fondo dell’azione teatrale vista dall’uomo e che per le donne non è mai stata altro, come dice Ida Magli, che la facilità con cui passano “dal simbolico al concreto”, dall’incarnare perfettamente un’idea per poi risorgere o credere di rigenerarsi, disincarnandosi in quella stessa idea. A impedire a Ermanna di “trascendersi” nella figura di Rosvita, la monaca di Gandersheim, di sottrarsi alla “fame di religione dei senza storia, imporsi una “misura” che è “posta al di là del corpo”, sono, non a caso, le voci di nonne, madri, gli umori contadini delle sue origini, i suoi “ginocchi”, le sue reni, i suoi piedi”, la materialità di un corpo impegnato in quello che Sibilla Aleramo chiama “un lungo incessante sforzo autocreativo”.

In copertina Ermanna Montanari in 'Rosvita' (1991) - Fotografia di Daniele Ronchi. Archivio Teatro delle Albe.

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