Attraversamenti e rinascite: La stanza accanto
Dopo l’arrivo nella scenografica villa mimetizzata nel bosco dove trascorreranno le successive settimane e dove accadrà l’evento che hanno scelto di vivere insieme, Ingrid (Julianne Moore), sulla soglia della camera di Martha (Tilda Swinton), rivolgendosi all’amica le chiede «Ti dispiace se non sto nella stanza accanto?».
E in effetti scenderà e si sistemerà in un locale meno vicino, anche se, per tutta la durata del film, intitolato proprio La stanza accanto (The Room Next Door in originale), quel dettaglio resta come in sordina. Eppure esiste, è un’assenza in presenza, e conta ricordarlo, perché l’ultima opera di Almodóvar racconta la separazione – da un’amica, da una figlia, dalla natura, dalla propria casa, dalle proprie emozioni; la separazione, come condizione reale e simbolica spesso inevitabile ma che però, come succede, può anche rischiare di diventare il malinteso più grosso e doloroso di un’esistenza, se si vive in modo assoluto, senza provare a attraversarlo e a rigenerare la perdita, proprio come farà il film, attraverso le due protagoniste.
La stanza accanto è un lavoro tutto giocato nella chiave degli spostamenti: di abitudini, di spazi, di modi di considerare le relazioni o il sentimento della fine. È un tema talmente forte da funzionare anche in senso formale, creando distanza e persino un senso di gelo. La situazione stessa di primo lungometraggio in inglese realizzato da Almodóvar procura un senso di straniamento, che fa sistema con il volto attoriale più enigmatico del cinema contemporaneo (quello di Tilda Swinton), e con l’architettura modernista di una casa fatta di tanti cubi a vetrate che ci procurano, attraverso una fotografia che fa risaltare le trasparenze e i riflessi, il senso di un mondo distopico e già oltre i confini di una malattia terminale. La stanza accanto ci chiede di considerare una storia che parli di morte, ma facendolo senza melodramma; anzi, sottraendo progressivamente, lavorando con dialoghi e linee di racconto essenziali come quelle dell’ambiente circostante, e mettendo accanto, a specchio, due donne diverse, in uno schema di affinità e distanza che procede per tutto il racconto, spostando di continuo il nostro sguardo.
Martha e Ingrid in gioventù sono state amiche, scrivendo sullo stesso giornale, e condividendo l’epoca spensierata degli anni Settanta/Ottanta; nelle loro vite parallele a un certo punto c’è stato anche il medesimo uomo, Damian (John Turturro). Da grandi invece si sono allontanate, seguendo stili di vita completamente diversi. Martha ha fatto la reporter di guerra: la costruzione della sua biografia sembra indirettamente ispirarsi, fin dal nome, alla vita di Martha Gellhorn (1908-1998), di cui nel film si intravede un libro (The View from the Ground). Non se ne parla nel film, ma Gellhorn, statunitense, è stata una delle più importanti corrispondenti di guerra del Novecento: a novant’anni, cieca e malata, ha messo fine alla sua esistenza ingerendo del veleno. Non è l’unica grande reporter che vive in questo film, attraverso il personaggio di Tilda Swinton, perché su una parete della sua casa a New York è appesa anche una foto del 2000 fatta dalla grande Cristina Garcia Rodero. È il quadro al centro, con le donne in processione vestite di nero, e si intitola Duelo [Dolore], Canosa di Puglia, Italia:
Sempre continuando a guardare quella parete, a destra di Duelo vediamo un ritratto di Martha, e a sinistra, invece, un’opera di Louise Bourgeois, che tra l’altro è anche il titolo di una mostra dedicata all’artista in corso proprio in questi mesi a Tokyo:
«Sono andata e tornata dall’inferno. E lasciami dire che è stato meraviglioso», dicono le parole ricamate su un fazzoletto. Come ha fatto Martha, mentre Ingrid, invece, è stata al riparo, a scrivere romanzi, diventando famosa. Martha che entra in scena, all’inizio, spiegandoci «Per me la morte è innaturale», ma che, andando avanti nella storia, spostandosi proprio nell’ambiente naturale di una casa tra gli alberi, in compagnia di una sua simile che sta morendo, compirà anche lei un viaggio di andata e ritorno dall’inferno – percorrendo, paradossalmente, una traiettoria meravigliosa.
Le due donne infatti si sono ritrovate dopo molti anni. Raggiunta dalla notizia che Martha ha una grave malattia, Ingrid va a farle visita. L’ospedale è lo spazio dove si reincontrano, e da cui in un certo senso si metteranno in salvo. La loro diversità si confronta e si completa, specchiandosi anche nel nostro sguardo. Così assistiamo e partecipiamo a un racconto che dà spazio alla paura di morire, quella di Ingrid, messa accanto e fatta incontrare con la paura di una vita senza dignità di Martha, che di fronte all’ennesima terapia ormai inutile decide di spostarsi e reinventarsi un percorso di fine vita, cercando una casa bellissima in mezzo al bosco – nella finzione si trova a Echo Lake Park, nel New Jersey, ma in realtà è in Spagna a San Lorenzo de El Escorial. Le due amiche abiteranno qui per un mese, fino al momento in cui, solo quando lo vorrà e lo saprà unicamente lei, Martha ingoierà una pasticca letale. Non sarà sola però: nella casa sarà insieme a Ingrid, che inizialmente è sorpresa e turbata («Don’t you want someone closer?» le chiede), ma poi accetta. Senza assistere direttamente all’evento, però, perché in questo modo non avrà complicazioni legali, una volta che l’amica avrà messo fine alla sua esistenza, scivolando via, con una scelta che metterà in armonia vita e morte, come la neve, nel finale del racconto di Joyce (ripreso più volte nel film, e che funziona come tema ricorrente), che cade lentamente «upon all the living and the dead» (The Dead).
Riadattando per il cinema il romanzo di Sigrid Nunez What Are You Going Through del 2020 (tradotto in italiano nel 2022 per Garzanti da Paola Bertante, con il titolo Attraverso la vita), Almodóvar ha preferito farci immaginare lo spazio di relazione tra le due donne, costruendo un percorso alterno di fuga e avvicinamento che corrisponde anche ai caratteri e agli stili di vita inizialmente così diversi di Martha e Ingrid, ma che può anche diventare, dinamicamente, una compresenza fatta di reciprocità vitali. Quasi tutto il film fa vivere questa reciprocità sui volti di Tilda Swinton e Julianne Moore, che si cercano l’una nell’altra. Sono loro, realmente, le due stanze accanto di cui vive questo film, che racconta anche quanta felicità (perfino creativa) possono generare due donne standosi accanto - pure, o soprattutto, in tempi di malattia. Ma lo spostamento di cui si parlava all’inizio agisce anche a questo livello, creando un sistema di scambi per niente previsti eppure eloquenti. Per esempio: Ingrid, che non accetta che una cosa così naturale come la vita debba morire, in un certo senso somiglia al cinema classico di Almodóvar; d’altra parte Martha, che sembrerebbe la più estranea, è colei che abita, a New York, in una casa piena di oggetti di design e di colori, di tracce di un’appartenenza alla vita fatta di segnali e di storie che potrebbe essere la casa stessa del regista.
Il fatto è che si tratta di un film in inglese ma profondamente in continuità con i lavori precedenti. La stanza accanto è fratello, per tematiche e motivi, di Dolor y Gloria, perché entrambi sono opere di ricapitolazione: tirano le somme di una vita, come di una cinematografia complessiva; qui si fa mettendosi fuori, lontano, a New York, ma, contemporaneamente, facendoci abitare progressivamente tutte le altre “stanze” dei film di Almodóvar; senza cercare sintesi definitive, ma mostrandoci immagini (cassetti pieni di ricordi, pagine, foto, quadri, scritture, oggetti) che riguardano la memoria, cosa si cerca alla fine, e cosa resta. Si parla di spazi, di legami, di dignità e di come possiamo riconoscere le scelte altrui a seconda delle parole di cui ci serviamo, per esempio dicendo “eutanasia” al posto di suicidio, quando un corpo sofferente decide di prendersi invece che essere preso.
In questo film, che tra l’altro è così pieno di omaggi all’Italia, si parla molto anche di cinema, ora con riferimenti diretti a titoli di film, ora con rime e riprese che interpellano chi guarda. Per esempio, il lettino esterno su cui riposa Martha ricorda anzitutto il quadro di Hopper People in the Sun di cui esiste una riproduzione su una parete della casa; ma si ripensa anche a una scena di Viaggio in Italia (1954) di Rossellini.
E la scelta di far interpretare a Swinton, icona del doppio, anche il ruolo di sua figlia fa tornare in mente La donna che visse due volte (Vertigo, Hitchcock, 1964). Soprattutto, però, crea un senso di artificiosità sforzata che fa sistema con la poetica di La stanza accanto, che è un film dove tutto è perfetto (in termini formali), quasi troppo, ma la perfezione del cinema serve a far esistere, raccontare e forse anche a rielaborare destini e progetti di vita imperfetti. Siamo dentro un mondo di temi che hanno abitato da sempre nel cinema di Almodóvar, spesso proprio riattivando l’archetipo della relazione madre-figlia.
Martha è stata una madre imperfetta. La complicità con Ingrid non la aiuterà soltanto a morire, ma a rinascere dentro il nuovo sguardo con cui la figlia, attraverso il dialogo con Ingrid, rivede e ripensa la madre, contenendola e facendosi contenere da lei, Martha, che da parte sua eserciterà con Michelle una funzione materna che l’amica non ha mai avuto (e lo sa). Forse era proprio questo che Ingrid le aveva chiesto davvero di fare: “abitare” con la vita che continua dopo di lei in Michelle. Forse è proprio questo il dono più grande e rigeneratore di Martha a Ingrid, quando le promette «Starò con te».