Io non la conoscevo bene: Parthenope

31 Ottobre 2024

A circa metà del film, Parthenope (Celeste Dalla Porta), la protagonista del decimo lungometraggio di Paolo Sorrentino, decide di prendere lezioni di recitazione, e si rivolge a Flora Malva (Isabella Ferrari), una diva non più giovane che indossa una maschera perché è rimasta sfigurata da un intervento di chirurgia estetica. Chi guarda il film sa che ci troviamo agli inizi degli anni Settanta. La donna dal volto oscurato chiede alla sua ospite perché voglia fare l’attrice. «Perché gli attori nei vecchi film hanno quasi sempre la risposta pronta», risponde la ragazza. Dopo un momento di silenzio, l’altra replica, intanto che la macchina da presa la segue mentre si alza dal divano dirigendosi verso un’altra stanza. «È vero» dice Flora, «la vita dovrebbe essere così. E invece la notte non prendiamo sonno, rimuginiamo sulla risposta giusta che avremmo dovuto dare a tutti gli uomini che ci hanno offeso, perché le donne belle vengono offese continuamente». 

Celeste Dalla Porta.
 

Sono frasi che stanno definendo qualcosa di più importante di una scena, ed è interessante che a pronunciarle sia un volto in maschera, in questo film che funziona come una sorta di Mistero Napoletano, in cui la maggior parte del dramma si svolge, sotto forma di primi piani rallentati o monologhi enfatici, proprio sul volto trasformato in teatro scenico di quattro donne. Così abbiamo quello bellissimo e seducente di Parthenope da giovane; quello velato di Flora; quello imbruttito e deformato dalla calvizie dell’attrice Greta Cool (Luisa Ranieri); e quello di Parthenope a settant’anni (Stefania Sandrelli), lasciato agire silenziosamente, di fronte a noi, nella parte finale, come a interpellarci. 

Torniamo alle parole di Flora: l’alternanza tra momenti diurni, chiari e impostati, in cui la coscienza, come una vecchia attrice, ha la battuta pronta per sistemare le cose; e momenti notturni, di dormiveglia intorno a risposte mai pronunciate, funziona anche come schema di Parthenope, un film che procede continuamente per simbolismi visivi e per contrasti e che, proprio come una sirena, è davvero un’opera anfibia, vale a dire una creatura mostruosa con viso di donna e corpo di pesce: fatta di parti legate a cicli di vita differenti, ma che stanno nel medesimo corpo, e, nel caso del film, anche disubbidendosi reciprocamente. C’è, infatti, la parte luminosa, con le risposte certe, e poi la notte senza sonno e piena di demoni e di squarci onirici; come dire anche terraferma versus dimensione acquatica. Non stiamo guardando soltanto un film: stiamo partecipando, anche con le nostre emozioni, all’allestimento visionario di un mito e dei suoi archetipi.

Il mare è dappertutto, fin dalla locandina, dove un corpo femminile nuota davanti al profilo, anch’esso inabissato, della città con il Vesuvio. L’inizio stesso parte dal mare, proprio come nella prima pagina di Ferito a morte (1961), il romanzo di Raffaele La Capria diventato nel tempo una specie di mito letterario di fondazione delle generazioni di artisti e intellettuali separatisi da Napoli – perché da Napoli non si va via e basta: si fugge dolorosamente.

È in mare, infatti, che partorisce, sempre all’inizio, la madre di Parthenope; da lì era arrivata la carrozza reale donata dal padrino al fratello della protagonista – e c’era una carrozza anche all’inizio del film precedente, sempre ambientato a Napoli. La carrozza, il mare, i nomi favolosi dei personaggi (Flora, Devoto, Tesorone), il palazzo stesso di Donn’Anna, con i muri di tufo che lo fanno sporgere sull’acqua come un elemento naturale del paesaggio; o, ancora, la giovane bellissima, e portatrice di luce e sorrisi. Tutti questi aspetti, assieme alle numerose scene surreali, popolano l’intero film come se fossero tanti sogni che riemergono dal tempo sommerso di un fondale incantato, mentre si svolge, in maniera discontinua, il filo di una cronologia che parte dal 1950 (quando viene al mondo la protagonista) agli inizi degli anni Ottanta, per fare poi un salto temporale di oltre trent’anni, arrivando al presente.

Attraverso questa linea serpentinata, l’esistenza che Parthenope ci fa guardare direttamente non è quella dei fatti decisivi (lasciati per lo più fuori campo), ma piuttosto quella di incontri o dialoghi episodici, digressivi, molti dei quali avvenuti di notte, e trattati come eventi autonomi; procurandoci più che mai l’illusione cinematografica del passato, e in particolare della gioventù, come situazione trascorsa in un tempo chissà se più breve o più intenso, ma di certo finito, fuori dalla nostra esperienza presente, ormai, e tuttavia eternamente cristallizzato e pronto a scintillare dentro la memoria emotiva, come può succedere con il ricordo di un bagno in mare, un bacio inatteso, una canzone, un costume: tutti elementi di un’estetica anche troppo patetica, se non fosse che è talmente bella e fatta percepire come desiderio sospeso. Andando avanti, la visione di Parthenope asseconda il sentimento di una memoria fatta di dettagli che tornano trasfigurati in spettacolari e favolose fantasie – capaci di trasformare certi tratti tipici degli ambienti partenopei (come i cesti o catini calati dai balconi) in elementi animati di un ipnotico fondale marino. 

Foto di Gianni Fiorito.
 

Non è vero che Parthenope è un film senza una storia: manca, come in tutto il cinema di Sorrentino, una tensione narrativa usata come epicentro romanzesco del racconto. Nondimeno, la storia c’è fin troppo, tanto da somigliare, in certi tratti, a un feuilleton in cui la protagonista passa da un mare all’altro, intrattenendo una relazione simbiotica con il fratello e un altro coetaneo, durante un’estate passata tra Napoli e Capri – dove incontra anche lo scrittore John Cheever (Gary Oldman) e altri personaggi. Ma ormai lo sappiamo bene: raccontare i film di Sorrentino riassumendone la trama è abbastanza insensato rispetto alla cifra cinematografica dei suoi lavori, così efficaci nel sabotaggio del plot grazie alla reinvenzione degli sguardi.

Fin quando Raimondo (Daniele Rienzo), il fratello di Parthenope, non si fa fuori, buttandosi in mare, il film è bello, commovente, ma più debole – ci ricorda ora The Dreamers ora altre recenti scene di triangoli amorosi già viste al cinema. Invece, dal momento in cui Parthenope smette di essere solo funzione di una rievocazione nostalgica e diventa sguardo, dal momento in cui la sua bellezza comincia a farsi impura, ecco però che cambia anche il nostro modo di partecipare alla visione, perché questo film che sin qui ci era sembrato un incantesimo sin troppo artefatto, e forse nemmeno così speciale come altri lavori di Sorrentino, adesso invece diventa un’opera riepilogativa, che riprende elementi formali dei film precedenti, ma trasformandoli, stavolta, nelle parti di un mostruoso intero.

Silvio Orlando in una scena del film (foto di Gianni Fiorito).
 

Parthenope è, infatti, forse molto più di tutte le altre opere, una sorta di autobiografia per interposta città. Un film difficile da realizzare, più complicato, perfino più egocentrico, se si vuole – anche nella sceneggiatura, interamente scritta da Sorrentino. Eppure è anche un lavoro più sfacciatamente libero di portare in scena, in maniera aperta, un’idea personale di cinema come osservazione antropologica continua (almeno nel significato che si attribuisce qui all’antropologia); come esperimento fantasioso di sguardo, portato anche là dove la ferita è ancora infetta, dove si può sbagliare e ci si può far male; come riparazione, temporanea, di un dolore troppo grande per essere contenuto. È tutto carico, esagerato, come sempre nel cinema di Sorrentino; ma è anche, paradossalmente, tutto molto sincero, in termini realistici, e chi guarda il film percepisce – e apprezza – la sfrontatezza della caduta libera.

Napoli, il posto da cui partiva il protagonista autobiografico di È stata la mano di Dio (2021), nel finale del film, torna anche in Parthenope come spazio da cui allontanarsi, proprio come farà, da adulta, la protagonista, che non tornerà più per trent’anni. Ma Napoli, come corpo e volto in scena, è anche lo schermo contraddittorio su cui proiettare, trasfigurandolo e deformandolo, un modo di stare e di guardare, sia la città sia il proprio passato: che è duplice, anfibio, come si diceva anche sopra. Il film cerca di tenere insieme, infatti, sia un’esperienza di Napoli come mondo sottomarino, corporale, impuro, osceno, imbruttito; sia un tentativo di concettualizzazione e di risposta pronta, come aveva detto Parthenope a Flora parlando del lavoro degli attori; un modo che trova spazio nelle frasi apodittiche pronunciate dai vari personaggi che portano la propria solitudine per il mondo; incluso il professore di antropologia (Silvio Orlando) con cui si laurea Parthenope. 

Difficilissimo, allora, tenere insieme livelli di vita così distanti, che simultaneamente corrispondono al tempo mitico da cui esce Parthenope e che via via il film percorre (inoltrandosi sempre più in basso, nei vicoli, o nelle Chiese); e al tempo storico – più complicato da gestire – come nella scena poco felice di Parthenope, ormai adulta, seduta sui gradini dell’Università occupata da una manifestazione.

Celeste Dalla Porta in una scena del film (foto di Gianni Fiorito).
Jude Law nei panni di Lenny Belardo nella serie The Young Pope (2016).
 

È talmente difficile e complicato, nella vita come in un film, tenere in un solo corpo questi aspetti, che il tempo fuori dal tempo del miracolo (il tema della tesi scelto da Marotta, scartando l’argomento del suicidio) certamente non rappresenta la salvezza, ma diventa una zona paradossalmente vitale, anche in senso culturale e cinematografico, perché il codice del sacro (già presente nella serie televisiva The Young Pope e poi nel titolo stesso del successivo lungometraggio È  stata la mano di Dio) segna, anche ironicamente, il momento in cui la sistemazione si arrende, e in questo modo si può fare spazio non al significato chiuso e definitivo, ma almeno alla possibilità di vedere, e di vedere veramente: proprio come quando il Professor Marotta, alla fine della sua carriera, invita Parthenope a casa per mostrargli l’amatissimo figlio: una creatura deforme fatta tutta di acqua e sale - come il mare – che ci turba e ci lascia senza parole.

Parthenope non è un racconto in flashback, né mette in scena il punto di vista di una donna. I quattro volti che scandiscono il racconto e in particolare quelli della protagonista servono come specchio opaco di un’autobiografia per interposta città, come si diceva riprendendo le parole di La Capria. 

Stefania Sandrelli.
 

Quando, finalmente, Parthenope ormai matura torna a Napoli e va a Capri, cercando la ringhiera da cui si era buttato in mare il fratello, indugia, come se guardasse il punto in cui si è rotto il tempo mitico, dà le spalle al mare e ci guarda, rimanendo in silenzio. Ricordando un po’ anche Adriana, la protagonista di Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, uno dei volti di donna più iconici e indimenticabili interpretati da Sandrelli. Non ci sono battute pronte adesso, passato e futuro sono dietro le spalle, e come il mare sono più grandi di me e di te – sembra dirci quel volto. Tanto vale tacere.

 

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