Forrest Gump: la vita come una scatola di cioccolatini

6 Luglio 2024

Da quando è uscito, ci sono stati diversi possibili modi di vedere Forrest Gump, il film interpretato da Tom Hanks con la regia di Robert Zemeckis, distribuito nelle sale americane esattamente trent’anni fa, il 6 luglio del 1994 - in Italia debuttò dopo l’estate, il 6 ottobre. 

Il primo modo è pienamente novecentesco. Riguarda infatti coloro che andarono subito al cinema, e proprio nel medesimo giro di settimane di Pulp Fiction (Palma d’oro a Cannes), proiettato in Italia a partire dal 28 ottobre. Entrambi i lavori sbancarono ai botteghini, ma agli Oscar 1995 fu il film di Zemeckis a conquistare il banco dei premi. Perché “più sentimentale e facile” del secondo, che invece era così di rottura e sperimentale, fu detto in molti casi; e in nome del pregiudizio per cui un grande racconto popolare sarebbe, per principio, più semplice da realizzare e dunque anche meno significativo, in termini critici. In effetti, molte frasi leggendarie pronunciate da Forrest Gump funzionerebbero da antidoti perfetti contro simili malintesi. Tuttavia passiamo al secondo modo in cui è stato visto il film, vale a dire alla televisione. All’epoca del lockdown, per esempio, appariva di continuo nelle nostre case. E puntualmente, come del resto continua a accadere, era difficile resistere al richiamo di guardare ancora un’altra volta. Perché Forrest Gump ci chiama, per l’appunto, procurando effetti sia magnetici sia riparatori; ci trascina dentro un tempo fuori dal tempo, come sanno fare i miti. 

La terza possibilità di visione è legata poi all’arrivo delle piattaforme digitali, che consentono di recuperare immediatamente le singole scene o il film intero. Infine, un modo ulteriore consiste nel ripassarne mentalmente le immagini, come può succedere anche adesso. Forrest Gump, che ha raggiunto il trentesimo anno di vita, riguardato oggi ci parla di una stagione storica abbastanza distante e diversa (al di qua, per esempio, dagli attacchi alle Twin Towers), e che potrà sembrarci anche “ingenua”, in termini di esperienza visuale della storia pubblica – circostanza che a maggior ragione può accrescere il potere di incantamento del film. 

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Modern Times (Tempi moderni, Charlie Chaplin, 1936).
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Les Bas-fonds (Verso la vita, Jean Renoir, 1936).
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Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1994). 

Il fatto è che Forrest Gump si riferisce a un mondo reale e immaginato in cui l’incontro tra vita privata e storia collettiva era reinventato e rappresentato secondo tecniche e abitudini di osservazione che negli anni Novanta, con il film di Zemeckis, portarono un linguaggio nuovo, ma oggi potranno apparire ormai desuete; oggi, tra l’altro, che, se ci sediamo su una panchina pubblica, difficilmente attaccheremmo discorso con gli sconosciuti accanto a noi; semmai ci connetteremo con l’iPhone, comportandoci ancora, in effetti, da spettatrici e spettatori delle vite degli altri, ma come creature mutanti di un mondo cambiato. Eppure, malgrado il senso di una distanza, le verità di Forrest Gump resistono, anzi forse sono anche questi aspetti “sentimentali” legati alla sensazione di un cambiamento (o persino di una perdita) che lo fanno agire ancora come un racconto che ci coinvolge. 

Non se ne devono necessariamente trarre delle conclusioni di valore, ma è interessante notarlo: per quanto possa sembrare incredibile, se guardiamo a come reagiscono alla visione le persone che hanno vent’anni oggi, Forrest Gump sembra reggere più di Pulp Fiction alla prova del tempo. Non significa dire che sia migliore. Tuttavia, la riconfigurazione del mondo e delle sue narrazioni in una grande polpa reticolare smontabile e rimontabile di cui ci parla l’opera di Tarantino è una forma di situazione e di percezione (sia cinematografica sia reale) che ormai in molti sensi è diventata esperienza comune. Anche Pulp Fiction ha compiuto trent’anni, e l’ironia è un codice molto più fragile e soggetto al tempo. Quella forma filmica così paradossale a livello di intreccio – e esteticamente ammirevole secondo il gusto e i codici della sua stagione – oggi, in effetti, può impressionare meno di quanto non faccia ancora la storia di Forrest: di quel “freak” che continua invece a essere famigliare e al tempo stesso straniante, o entrambe le cose assieme; famigliare come chi parla di qualcosa che sentiamo che ci manca e dunque abbiamo bisogno di continuare a vedere esistere. 

Conosciamo bene la vicenda. Il film inizia con una panoramica a volo d’uccello che progressivamente, assecondando la traiettoria aerea di una piuma, stringe il campo verso terra, su una strada trafficata di città, e poi, scendendo ancora, su un uomo di circa quarant’anni, seduto su una panchina alla fermata di un autobus. Dopo aver raccolto la piuma che si è posata ai suoi piedi, e averla conservata tra le pagine di un vecchio libro illustrato che si trova in una piccola valigia (contenente anche un tubetto di dentifricio, un giornale, una racchetta da ping pong, una palla da baseball, dei calzini e altri capi di vestiario), l’uomo comincia ad aprire la seconda cosa che porta con sé (oltre alla valigia). È una confezione regalo di cioccolatini. 

Siamo all’inizio degli anni Ottanta. Intanto, nel flusso delle immagini in movimento, arriva a sedersi sulla panchina anche una donna nera, con gli abiti da lavoro di un’infermiera. L’uomo la saluta, si presenta – «Hello. My name is Forrest. Forrest Gump» – e le offre un cioccolatino, aggiungendo che lui potrebbe mangiarne un milione e mezzo e che la sua mamma diceva sempre che la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai cosa ti capiterà. Ascoltando quelle prime battute, cominciamo a mettere a fuoco che c’è qualcosa di strano, e a maggior ragione vogliamo sentire di più. Sta parlando un uomo dal corpo adulto che si esprime in modo differente, seriamente infantile, come qualcuno che un tempo veniva definito “ritardato”, passando oltre e senza aggiungere altro. Invece qui la storia la manda avanti proprio lui, perché da questo momento, per le due ore successive del film, Forrest attacca a raccontare la sua vita, nell’arco di sette flashback scanditi da brevi scambi con altre quattro persone che via via e per caso si siederanno sulla stessa panchina. E così prende vita l’autobiografia di un idiota, come la definisce il narratore del romanzo omonimo (scritto da Winston Groom e pubblicato nel 1986) da cui è tratto il film. 

Si riparte dall’infanzia, in Alabama. Siamo in un ambiente ostile alla diversità, ma grazie alla madre (Sally Field) che ha fatto di tutto perché il ragazzino non fosse discriminato, e con il sostegno della piccola amica Jenny, che è stata la prima a incoraggiarlo a correre, Forrest diventa via via protagonista di favolose esperienze. Sono tutte avventure incredibili di attraversamento fisico e simbolico, che via via lo porteranno, senza nemmeno saperlo e men che mai curarsene, a diventare un campione sportivo, un eroe di guerra, un grande manager, e a incontrare, tra gli altri anche le figure e le situazioni più emblematiche e iconiche della storia americana dagli anni Cinquanta al 1981, spesso interagendo creativamente con loro: Elvis Presley, John Lennon, la guerra in Vietnam e lo scandalo Watergate, il Black Panther Party, i presidenti  Kennedy, Johnson e Nixon.

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Le due costanti del viaggio straordinario di Forrest nella storia e nello spazio americano, sono la fiducia nella vita trasmessagli dalla madre e l’amore incondizionato per Jenny (Robin Wright), creatura aerea e irrequieta – abusata da un padre alcolizzato. Per tutto il racconto, Jenny appare e scompare magicamente nella biografia di Forrest, vivendo intanto la stagione dell’emancipazione giovanile degli anni Sessanta, passando da relazioni tossiche, dalla droga, e continuando sempre a scappare, come per illudersi di sottrarsi al dolore che si porta dentro. Lo fa anche dopo esser temporaneamente tornata da Forrest, nella casa in Alabama, dove i due giovani finalmente una notte fanno l’amore, prima che la donna, all’indomani, sparisca di nuovo. Proprio questo abbandono ha portato Forrest a sciogliere la sua malinconia mettendosi a correre, per tre anni, due mesi, quattordici giorni e sedici ore; fin quando, tornato a casa, un giorno riceve una lettera di Jenny che gli chiede di andare a trovarla a Savannah. Eccoci al punto in cui i due piani narrativi del film si ricongiungono, perché il tempo del racconto di Forrest, sulla panchina, e il tempo della storia raccontata fin qui finalmente si incontrano. Una signora sedutasi accanto a lui osserva en passant che l’indirizzo dove l’uomo deve andare non è lontano da raggiungere a piedi. Via! è il momento di correre di nuovo, a casa di Jenny, dove Forrest incontrerà anche Forrest junior, il figlio di Jenny e suo. Ammalata (di epatite C) la madre ha scelto infatti di presentare e affidare il piccolo a Forrest. Dopo il matrimonio e la morte di Jenny, il film si conclude come era iniziato: con Forrest che, ancora seduto, di nuovo alla fermata di un bus, ma stavolta nella terra d’infanzia, in Alabama, si mette a aspettare il ritorno del suo bambino da scuola. Forrest Gump, che ci consegna uno dei più ritratti più belli di una madre, racconta anche, a pensarci la storia di come si può diventare un buon padre.

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Forrest Gump, film così pieno di scarpe, di fughe tra i campi o nella foresta attaccata dalle bombe, di camminate romantiche, di primi passi sulla luna, di gambe prima perdute e poi ritrovate e di maratone, è un grande racconto su come lo slancio all’andare, anche in senso figurato, metta in salvo. L’ottimismo e la potenza narrativa di Forrest riguardano anche lo schema fiabesco della sua storia, dove c’è un personaggio straordinario che anche da adulto mantiene miracolosamente dei tratti infantili, e, attraversando spazi sconfinati e superando regole e ostacoli, dopo incontri e esperienze eccezionali, conquisterà la sua amata.

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Lo schema narrativo è scandito dalla ricorrenza continua di situazioni e spazi che in molti casi si ripetono (la panchina, l’albero, il tema dell’attesa del bus, la stessa camera dove morirà la madre, prima, e Jenny poi, la piuma che nel finale riprende il volo), componendo un sistema di riprese e di rime interne che sottolinea alcuni motivi chiave (è il caso, per esempio, della canzone del 1973 Free Bird del gruppo rock Lynyrd Skynyrd, usata quando Jenny è sul punto di suicidarsi, che riprende la preghiera pronunciata dalla donna, da bambina, per scongiurare la violenza del padre).

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Oltre che in termini visivi e drammaturgici, lo stile della ripetizione riesce anche a rappresentare, senza spiegarli o patologizzarli, anzi facendoli esistere come forma naturale del film, certi stili tipici dei disturbi dello spettro autistico: come, per esempio, la propensione per abitudini di vita, di comportamento e di linguaggio identiche e regolari. Anche questo motivo diventa, paradossalmente, un punto delicatissimo di forza del film, perché accade proprio così: c’è realmente qualcosa di fiabesco nella complessità delle persone diversamente speciali che, nella vita reale, somigliano a Forrest – il discorso ci porterebbe lontano, ma è interessante osservare che questo film – per esempio anche attraverso l’amicizia tra Forrest e Buba – rovescia anche uno dei pregiudizi più razzisti e micidiali in tema di autismo, vale a dire il principio per cui le persone autistiche andrebbero isolate perché preferirebbero vivere dentro di sé. Tra l’altro, Forrest, che, come spiega la madre, ha il nome di un generale confederato, potrebbe forse ricordare anche il nome di “Forest”, una cittadina del Mississippi nota anche per essere stata, nel 1933, la città natale di Donald Triplett, prima persona a cui è stato diagnosticato un disturbo autistico.

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Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit?, Robert Zemeckis, 1988).

Tom Hanks ha raccontato di esser stato molto incerto sugli esiti del lavoro mentre girava le scene sulla panchina. È un particolare significativo, perché conferma quanto la riuscita del film, in questo caso più che mai, non dipenda da elementi isolati, ma dalle armonie dell’insieme. Sia Forrest Gump, in quanto personaggio, sia l’opera cinematografica omonima, sono entrambi, infatti, delle meravigliose creature ibride che si contengono e si raccontano reciprocamente. La riuscita del film deve molto a questa perfetta corrispondenza tra livelli formali e livelli simbolici. Non c’è soltanto un singolo aspetto vincente, ma un risultato che premia un concetto di cinema come esito di un lavoro collettivo.

Il regista, Robert Zemeckis, già collaboratore di Spielberg, ha ideato scritto e diretto la serie di Ritorno al futuro (1985, 1989, 1990); nel 1988 aveva realizzato con Chi ha incastrato Roger Rabbit un crossover tra cartoni animati e attori in carne ed ossa; nel 1992 La morte ti fa bella. Sono tutti film che sviluppano immaginosamente i progressi della tecnologia in tema di conservazione e riuso della memoria, facendo dialogare in modo paradossale e vertiginoso situazioni temporali diverse e messe a specchio. Questo sistema di rovesciamenti e di compresenze stranianti torna, ricreato, anche in Forrest Gump, a partire dalle trovate tecniche con cui, malgrado ancora non esistesse il digitale,  si “infila” Forrest nei filmati di repertorio dei grandi eventi storici;  mostrandoci così il protagonista, per esempio, mentre stringe la mano a John Fitzgerald Kennedy, dicendogli «Devo fare pipì»; o accanto a John Lennon, in un talk show durante il quale Forrest suggerisce indirettamente uno spunto per la canzone Imagine.

Nella maggior parte dei casi i falsi d’archivio funzionano come un nuovo racconto, di secondo grado, che si intromette, attraverso il riquadro della tv, nel campo narrativo principale, invertendo il rapporto tra centro e periferia – per esempio, all’epoca dello sbarco sulla luna, di cui arriva di scorcio la notizia via tv mentre tutti seguono la partita di ping pong di Forrest. Questo sistema di innesti funziona, oltre che a livello visivo e narrativo, in senso umoristico e simbolico, perché la promiscuità dei codici e delle immagini, intrecciandosi alla diversità del protagonista, agisce, per così dire, da logica creativa. Questo, infatti, è quello che Forrest fa continuamente, sia in prima persona, sia attraverso il linguaggio cinematografico e gli effetti speciali che lo fanno esistere: diventa un dispositivo speciale di reinnesto e rimessa in prospettiva della storia, vale a dire la sua storia, quella degli altri, quella dell’America, e persino la nostra storia di spettatrici e spettatori. Noi che, al cospetto di Forrest che ci guarda da quella panchina (sistemata su un piano rialzato, come su un palcoscenico teatrale), noi che infatti ci rispecchiamo nella sua diversità, e siamo noi a esserne contenuti. Il paternalismo patetico con cui si guarda spesso alle persone “strane”, trattandole da creature aliene rispetto al perimetro del nostro concetto di normalità, in un certo senso è ribaltato. Qui è la stranezza che ridà forma e contenimento alla nostra (presunta) normalità.

La trovata della panchina, anche come situazione spettatoriale da cui ripercorrere la storia, è un’idea di sceneggiatura geniale – l’Oscar a Eric Roth, per la sceneggiatura non originale, è più che meritato. Anche questa è una qualità per cui Forrest Gump resiste alla prova del tempo; un’originalità, tra l’altro, che anche grazie alla sceneggiatura e alla reinvenzione tecnica rende il film un racconto molto più potente del libro da cui è tratto. La ricchezza di professionalità diverse che possono essere mobilitate dalla fabbrica del cinema operano al meglio nella reinvenzione di un personaggio che è contemporaneamente polimorfico e sempre uguale; e che non potremmo mai separare, per esempio, dalle invenzioni linguistiche create per lui – e restituite in italiano dal doppiaggio di Francesco Pannofino. È impossibile immaginare Forrest senza il lavoro di Hanks sugli accenti e le particolarità di pronuncia – e per averne un’idea, si può confrontare il risultato finale, in cui Hanks ha fatto suo anche l’accento del ragazzino che interpreta il protagonista da piccolo, con il provino originario.

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Andrew Wyeth, Christina's World, 1948.

Ma perché Jenny, lei che ha insegnato a Forrest che ci si salva correndo, proprio lei invece non si salva, mentre lui sì? Perché certe volte le pietre da tirare addosso a una casa non bastano: «Sometimes, I guess there just aren’t enough rocks», commenta Forrest, che infatti più avanti nella storia chiamerà una ruspa.

Ma una risposta più complessiva può indirettamente arrivarci da una scena ambientata nell’ospedale da campo in Vietnam, dove sono ricoverati sia Forrest, sia il Tenente Dan Taylor (Gary Sinise), portato in salvo dal protagonista contro la sua volontà. Con molti sforzi, perché entrambe le gambe sono state amputate al livello del ginocchio, Dan di notte riesce a tirare giù dal letto, violentemente, Forrest e gli rivolge queste parole arrabbiate: «Ora ascoltami. Abbiamo tutti un destino. Niente succede per caso. Fa tutto parte di un piano! Avrei dovuto morire là fuori, con i miei uomini, invece ora sono solo un maledetto storpio, un mostro senza gambe! Guarda, guarda questo! (costringendo Forrest) Lo sai cosa significa non essere in grado di usare le gambe?». «Sì Signore, lo so», risponde Forrest, che prende sempre tutto alla lettera e anche qui dunque svuota sempre in modo straniante la pretesa di enfasi dei suoi interlocutori. «Hai sentito cosa ho detto?», prosegue Dan strattonandolo: «Mi hai derubato! Io avevo un destino! Avrei dovuto morire in quel campo con onore! Quello era il mio destino e tu me l’hai derubato!». Dan scoppia a piangere e abbandona la testa sul torace di Forrest, chiedendogli con un tono adesso sconfortato: «Capisci quello che sto dicendo, Gump? Non avrebbe dovuto succedere, non a me. Io avevo un destino. Ero il tenente Dan Taylor». Stacco di inquadratura e messa a fuoco frontale di Forrest, che dice: «Lei è ancora il Tenente Dan». 

Nella risposta di Forrest vive l’anima del film. Quelle parole che rovesciano tutta la retorica della guerra in Vietnam, come pure il mito esclusivo della maschilità come modello unico di virilità militare e aggressiva, quelle parole ci indicano anche la logica narrativa e formale di Forrest Gump. «Lei è ancora il Tenente Dan», dice Forrest – che, ricordiamolo, prima di tutto è entrato nella storia che stiamo guardando come narratore: questa è la sua prima e più importante funzione. Forrest, infatti, non è solo protagonista, ma artefice della sua storia, anche in termini cinematografici. È un narratore: questa è la sua forza e la sua verità, che dunque è anche fiabesca, ma non soltanto. 

«Lei è ancora il Tenente Dan»: la resistenza di un’identità sta nella capacità di costruire uno sguardo e un racconto buono che organizzi e contenga le proprie memorie – come fa Forrest raccontando via via la sua vita – e conservando i propri oggetti talismano. Anche per questo è così emblematica la prima indimenticabile immagine di sé che ci consegna Forrest, quando entra in scena su una panchina (che funziona simultaneamente da dispositivo narrativo e contemplativo), e, aspetto non meno importante, in compagnia di due oggetti-contenitori (la valigetta e la scatola dei cioccolatini). Quei due elementi non sono decorativi e basta, perché il contenimento è esattamente la più grande lezione che con fiducia e amore è stata consegnata al protagonista dalla sua meravigliosa madre.

La leggendaria scatola di cioccolatini, in questo senso, è una metafora più complessa di quanto non potrebbe sembrare, proprio perché è “una scatola”, vale a dire un oggetto che, come un’inquadratura, contiene; e in più, attraverso l’azione del dono, stabilisce una relazione, una reciprocità, in questo film che continuamente ci parla non solo dell’andare, ma di situazioni, oggetti, scatole, case, cassette postali, lettere, persino televisori che sono essi stessi scatole, narrazioni che contengono.

Ci può essere una “dolcezza” della vita che non è semplicemente un fatto di gusto o di golosità, banalmente paragonabile a quando non si smetterebbe mai di mangiare cioccolata. Come un oggetto che si porta con sé, si offre, si apre, si conserva e si porta in regalo, la dolcezza di cui parla quella scatola contiene la verità gratuita eppure preziosa di una vita che ha fatto pace con gli eventi inaspettati e con la perdita “contenendo”: proprio attraverso l’arte del racconto.  

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