Venezia 81/3. Il senso della fine

8 Settembre 2024

Era il migliore in Concorso. The Room Next Door di Pedro Almodóvar, vincitore di questa 81esima edizione della kermesse veneziana, uscirà in Italia il 5 dicembre con il titolo La stanza accanto ed è un film su come la libertà di vivere e la libertà di morire abbiano diritto di essere amiche.

È come quando, per esempio in un albergo, si sta in una camera “accanto” a un’altra: siamo molto vicino e al tempo stesso lontano e da un’altra parte. Riadattando per il cinema il romanzo di Sigrid Nunez What Are You Going Through del 2020 (tradotto con il titolo Attraverso la vita da Paola Bertante per Garzanti, nel 2022), Almodóvar ha preferito far immaginare prima di tutto non un’azione o una condizione, come nel libro di partenza, ma uno spazio (fisico e simbolico) di relazione, e che riguarda sia chi vive all’interno della scena, sia il film che la sta componendo.

Distanza e prossimità sono, infatti, due posizioni, ma anche due possibilità esistenziali di considerare e accettare la vita, fino al suo punto di verifica più estremo, ossia la morte. Eppure, non è detto che fuga e avvicinamento debbano essere scelte in antitesi: possono anche diventare, dinamicamente, condizioni compresenti e alleate. Per farci vivere questa reciprocità, Almodóvar ha realizzato The Room Next Door, che è il suo ventitreesimo lavoro, ma il primo in inglese, mettendo “accanto” due donne, e tenendo quasi tutto il film sui volti di Tilda Swinton e Julianne Moore, che si cercano l’una nell’altra, come due stanze che si guardano. Due protagoniste che si accompagnano, raccontandosi ma anche rimanendo in silenzio: “coesistendo”, cinematograficamente. Simili ma al tempo stesso diverse, e viceversa. Questo film racconta anche quanta felicità (perfino creativa) possono generare due donne standosi accanto; pure, o soprattutto, in tempi di malattia.

Un film in inglese ma dallo spirito profondamente spagnolo. The Room Next Door è fratello, per tematiche e motivi, del lavoro precedente Dolor y Gloria, perché entrambi sono opere di ricapitolazione: tirano le somme di una vita, come di una cinematografia complessiva, cercano l’essenziale; anche attraverso l’uso di colori sgargianti ma uniformi, e soprattutto mettendosi fuori, lontano, che significa anche, in termini formali, fare un film parlato in inglese ambientato a New York; ma, contemporaneamente, facendoci abitare progressivamente la stanza emotiva allestita dal film come se percorrendola entrassimo in tutte le altre “stanze” dei film di Almodóvar. Tutto questo, senza cercare sintesi definitive, ma mostrandoci immagini (cassetti pieni di ricordi, pagine, foto, quadri, scritture, oggetti), che continuamente riguardano la memoria, cosa si cerca alla fine, e cosa resta. Si parla di spazi, di legami, di dignità e di come possiamo riconoscere le scelte altrui a seconda delle parole di cui ci serviamo, per esempio dicendo “eutanasia” al posto di suicidio, quando un corpo sofferente decide di prendersi invece che essere preso.

 

The Room Next Door di Pedro Almodóvar

La stanza accanto è un film malinconico, perché lavora con il senso della fine (come molti altri film in concorso a Venezia81), ma non è un film disperato, perché racconta anche relazioni che rinascono dentro altre vite. Martha e Ingrid in gioventù sono state grandi amiche, scrivendo sullo stesso giornale, e condividendo l’epoca spensierata degli anni Settanta-Ottanta; a un certo punto hanno avuto anche il medesimo uomo, Damian (John Turturro). Da grandi si sono allontanate, assumendo abitudini di vita completamente diverse. Martha infatti ha fatto la reporter di guerra - la costruzione della sua biografia sembra indirettamente ispirarsi, fin dal nome, alla vita di Martha Gellhorn (1908-1998), di cui nel film si intravede un libro (The View from the Ground). Gellhorn, statunitense, è stata una delle più importanti corrispondenti di guerra del Novecento, e a novant’anni, cieca e malata, ha messo fine alla sua esistenza ingerendo del veleno.

Ingrid (Julianne Moore) invece è stata al riparo, a scrivere romanzi, diventando famosa. Le due donne si ritrovano dopo molti anni, quando arriva la notizia che una delle due, Martha (Tilda Swinton), ha una malattia terminale e Ingrid va a farle visita: l’ospedale è lo spazio in cui si ritrovano, e da cui in un certo senso si metteranno in salvo. Anche stavolta la loro diversità si confronta e si completa, specchiandosi anche nel nostro sguardo. Così assistiamo e partecipiamo a un racconto che dà vita alla paura di morire, quella di Ingrid, messa accanto e fatta incontrare con la paura di vivere senza dignità di Martha, che di fronte all’ennesima terapia ormai inutile decide di spostarsi e reinventarsi un percorso di fine vita, cercando una casa bellissima in mezzo al bosco dove andrà a abitare per un mese, fino a quando, solo quando vorrà e saprà lei, ingoierà una pasticca letale. Non sarà sola però: nella casa sarà insieme a Ingrid, che inizialmente è sorpresa e turbata («Don’t you want someone closer?» le chiede), ma poi accetta la proposta di dormire nella stanza accanto. Senza assistere direttamente all’evento, in questo modo potrà infatti sistemare le cose, una volta che l’amica avrà messo fine alla sua esistenza, scivolando via, con una scelta che metterà in armonia vita e morte, come la neve, nel finale del racconto di Joyce I morti (ripreso più volte nel film, e che funziona come tema ricorrente), che cade lentamente «upon all the living and the dead».

The Brutalist di Brady Corbet

Se il massimo riconoscimento assegnato ad Almodóvar rischiava di apparire agli occhi di molti un riconoscimento alla carriera, la Giuria ha bilanciato le quote generazionali assegnando il Leone d'Argento premio alla miglior regia al trentaseienne Brady Corbet per The Brutalist, che ottiene il primo riconoscimento di rilievo dopo il premio alla regia ottenuto nel 2015 nella sezione Orizzonti, dove gareggiava con il suo lungometraggio d'esordio, L'infanzia di un capo. Qualcuno all'epoca storse il naso davanti alle ambizioni smisurate di un regista alla sua opera prima; e probabilmente altri si fregarono le mani davanti all'accoglienza fredda riservata nel 2018 al più calcolato ma meno risolto Vox Lux, forse sperando in un bluff. Ma Corbet è così, prendere o lasciare: di sicuro è tutt'altro che un bluff, come dimostrano le oltre tre ore e mezza di The Brutalist. Imprevedibile ed estremo, irritante ed esaltante al tempo stesso, Corbet sembra qualche volta confondere - come avrebbero detto i critici di un tempo - il grosso con il grande, ma rimane indubbiamente uno dei pochi veri talenti visionari della sua generazione. Un aspetto che certo non dev'essere sfuggito a una Giuria guidata da Isabelle Huppert, da sempre sensibile al valore del "cinema-cinema".

Quanto ai premi riservati agli interpreti, il discorso è più complesso. Non ci sono dubbi sul premio Mastroianni a Paul Kircher per il suo ruolo in Leurs enfants après eux, considerata l'importanza che hanno gli interpreti (giovani e meno giovani: ci piace ricordare qui Ludivine Saigner e Gilles Lellouche nel ruolo dei genitori) nella riuscita e nell'efficacia del film. Allo stesso modo, Vincent Lindon era già da alcuni giorni (lo avevamo segnalato anche noi di "doppiozero"fra i papabili grazie alla sua interpretazione in Jouer avec le feu. Appare invece molto più sorprendente la Coppa Volpi assegnata a Nicole Kidman per il suo ruolo in Baby Girl.

Sul film, tutto sommato non memorabile, ci siamo già soffermati nelle puntate precedenti del nostro diario veneziano; quanto all'interpretazione di Kidman, ha evidentemente giocato a suo favore l'essersi offerta senza filtri alla macchina da presa, ostentando i segni visibili dell'età e di un passato caratterizzato dagli eccessi dell'anti-aging (come peraltro ha fatto, su un altro versante, la Angelina Jolie di Maria) e regalandosi un personaggio ambiguo e a tratti profondamente sgradevole. Naturalmente è presto per dirlo, ma il riconoscimento veneziano potrebbe davvero essere per Kidman il tassello che mancava una rentrée a pieno titolo nel cinema autorial-commerciale che, malgrado qualche titolo indovinato, inseguiva da una dozzina d'anni.

Il cinema italiano, che anche quest'anno schierava un numero eccessivo di titoli (cinque, uno in meno dell'anno scorso, il più affollato dal 1982), è rimasto quasi del tutto a bocca asciutta. Anche qui la Giuria ha operato scelte non scontate, ignorando i nomi affermati di Guadagnino e Amelio per assegnare il Leone d'Argento-Gran Premio della Giuria a Laura Delpero, in concorso con il suo secondo lungometraggio, Vermiglio, che era anche uno dei sei titoli d’autrice tra i ventuno complessivi scelti per la selezione principale.

Vermiglio di Laura Delpero

Il film, che prende il nome dal paese tra le montagne del Trentino dove è ambientata la storia, durante l’ultimo anno della seconda guerra mondiale, fa pensare a Ermanno Olmi, sia perché è al centro dell’azione è messa principalmente la cultura materiale di un microcosmo, raccontando il legame forte tra spazi e persone, prestando ascolto ai silenzi e ai tempi della neve e della montagna; sia perché le immagini, i suoni, la lingua (il dialetto) compongono un racconto in medias res molto accurato, mai manierista o estetizzante (come accade, per esempio, in Harvest, di Athina Rachel Tsangari, un altro film in concorso, ambientato in un villaggio europeo cinquecentesco, somigliante a una sorta di esercitazione scolastica su Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg).

Guardando il film, le memorie dell’antica cultura contadina prendono vita, con il rischio di assomigliare talvolta a un documentario realizzato per un centro di studi sul folklore. Ci sono parti originali, dedicate alla storia delle ragazze della famiglia Graziadei, figlie del maestro del paese (Tommaso Ragno), attraverso il filo conduttore delle scelte sulla loro istruzione – perché «per non aver vergogna davanti a tutti sì che serve il diploma», ma le ragazze possono studiare solo se potranno “eccellere”. Però queste scene, anche belle, restano dettagli di colore locale che più che altro arricchiscono i nostri archivi visuali e non molto di più: eppure il cinema può servire a molto di più che a ripensare (con amore) a come vivevano i nostri bisnonni.

Si è conclusa così questa 81esima edizione, un concorso fra i meno caratterizzati degli ultimi anni. L'ennesima edizione di transizione? Fra i cambi in corsa al Ministero della cultura e il varo di una "nuova, pessima, legge sul cinema" (lo ha ricordato durante la serata finale Nanni Moretti, premiato dalla Giuria di Venezia Classici per il Miglior Restauro di Ecce Bombo), non rimane che stare a guardare, vigili e attenti. Aspettando il 27 agosto 2025 e la Mostra numero 82.

In copertina: Pedro Almodóvar con il Leone d'Oro (fonte: Adnkronos).

Leggi anche:

Venezia 81/1. Spettri in laguna | Gabriele Gimmelli

Venezia 81/2. Corpi orgasmi e stereotipi glamour | Daniela Brogi

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO