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Tutto Campana. Conversazione con Gianni Turchetta

19 Marzo 2025

“Quando nel 1982 andai da Vittorio Spinazzola per dirgli che volevo laurearmi su Dino Campana, lo lasciai di sasso. Lui si aspettava uno studio sulle battaglie politico-culturali di Franco Fortini, o del ‘Politecnico’ di Vittorini: di Campana non gliene poteva importare di meno!”. Ride, Gianni Turchetta, seduto alla scrivania del suo studio, quando ricorda le circostanze in cui ha preso forma la sua tesi (che oggi definisce “brutalmente semiotica”), primo tassello di una lunga fedeltà al poeta di Marradi.

Da allora sono passati più di quarant’anni. Turchetta, che attualmente insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Milano, ha proseguito la propria attività di studioso con monografie (La coazione al sublime, 1993; Critica, letteratura e società, 2003) e curatele (L’opera completa di Vincenzo Consolo, 2015), ma non ha mai perso di vista il grande marradese. Un’attenzione che col tempo l’ha portato “per caso e su commissione” (parole sue) a farsi anche biografo, cominciando dal primissimo Dino Campana, biografia di un poeta, apparso nel 1985 per i tipi dell’allora neonata Marcos y Marcos, per giungere, dopo lunghe revisioni e riscritture, alle oltre 450 pagine di Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta, pubblicato da Bompiani nel 2020.

La curatela del Meridiano di recente uscita, che raccoglie interamente e per la prima volta L’opera in prosa e in versi di Campana, rappresenta quindi per Turchetta il coronamento di un percorso pluridecennale. Al di là del valore di canonizzazione garantito, a torto o a ragione, dalla storica collana mondadoriana, quest’inedito “Tutto Campana” ha, fra i tanti, un duplice pregio. Da un lato, considera l’intero corpus letterario del poeta, pur nell’inevitabile frammentarietà, come un insieme organico e a suo modo coerente: dai tentativi poetici dei quaderni e dei taccuini, alla prima sistematizzazione di Il più lungo giorno, fino ai Canti Orfici, libro per molti versi “unico” e continuamente, ostinatamente rivisto fino all’ultimo, per ragioni che hanno ben poco a che vedere con uno squilibrio mentale. Dall’altro, raccogliendo in un unico volume tutti i testi campaniani di cui siamo a conoscenza (incluso l’epistolario), costituisce per i lettori anche un utilissimo strumento per orientarsi nella vastità del “continente-Campana”, liberandolo dalle residue incrostazioni mitiche. E proprio dalla vicenda biografica di Campana, da sempre sul crinale della leggenda, ha preso le mosse la nostra conversazione, in una piovosa giornata di fine gennaio.

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Gianni Turchetta.

Nell’ultima edizione della tua biografia su Campana hai parlato di una vita e di un destino fin troppo esemplari: un poeta isolato, vagabondo, la mente insidiata dalla follia, che produce un’unica opera straordinariamente luminosa per poi spegnersi per sempre. Insomma, un perfetto maudit.

Quella di maudit è un’etichetta un po’ macchiettistica, che Campana ha dovuto subire già quando era in vita. Un’etichetta sempre rifiutata, peraltro, anche in nome di certi tratti del suo carattere, in genere poco sottolineati, che potremmo definire di “conformismo sociale”: per esempio, la scelta di frequentare l’accademia militare a Bologna, con l’intenzione di diventare allievo ufficiale; oppure, qualche anno più tardi, l’idea di sostenere gli esami per diventare professore di francese… Non credo insomma di forzare i termini quando dico che, malgrado questa biografia fin troppo esemplare, Campana ci appare al contrario come un intellettuale per molti aspetti atipico, piuttosto difficile da digerire guardando i percorsi dei letterati italiani dell’epoca, anche quelli dallo sguardo più internazionale.

Uno di questi aspetti, sui quali ti soffermi a lungo, riguarda le sue letture. Partendo dalle ricerche svolte dapprima dal compianto Alberto Petrucciani, e in seguito da Renato Martinoni, tu definisci Campana un vero e proprio “maniaco della lettura”. Un’esagerazione?

No, anzi, è una definizione che rivendico, sia perché mi sembra che non sia stata sottolineata a sufficienza, sia perché utile per spiegare, almeno in parte, le origini del “mito” campaniano. In fondo, fino a tempi relativamente recenti, un ragazzo che girava sempre con qualche libro in mano, che passava tutto il tempo a leggere, poteva ben essere considerato un po’ fuori squadra, non trovi? Quante mamme abbiamo sentito preoccuparsi dei figli che passavano troppo tempo fra i libri? È una cosa che in qualche modo riguarda anche noi! (ride) Detto questo, c’è poco da fare: dati alla mano, Petrucciani ha dimostrato che Campana non solo leggeva in modo estremamente articolato e ricco, ma leggeva cose che in Italia – siamo intorno al 1909 – nessuno conosceva. Prima ancora, negli anni faentini, appena finito il liceo, le testimonianze ci dicono che s’informava, chiedeva di libri difficili da trovare. Insomma, per dirla con Franco Scalini, Campana era uno che passava quasi più tempo chiuso nelle biblioteche che a vagabondare in giro. E in ogni caso, anche nel corso dei suoi viaggi, trovava comunque il modo di infilarsi in qualche sala di lettura, come dimostra del resto Dualismo, una delle prose dei Canti Orfici di ambiente sudamericano: “Entravo, ricordo, allora nella biblioteca […]. Le lampade elettriche oscillavano lentamente. Su da le pagine risuscitava un mondo defunto…”

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A proposito di dualismi, mi pare che anche nella contrapposizione fra biografia esemplare e formazione atipica, fra spinte confusamente antisistema e conformismo sociale, emerga quella componente di ambivalenza che si riscontra molto spesso nella personalità e nell’opera di Campana, e che tu a più riprese giustamente sottolinei. È un tratto peculiare del suo carattere o ci sono anche altre ragioni, più profonde e circostanziate?

Al di là delle sue difficoltà personali, Campana partecipa di una tensione che è condivisa da tutta la sua generazione. Lo dimostra molto bene Thomas Harrison, in quel libro incredibile che è 1910. L’emancipazione della dissonanza (1996), accostando i procedimenti impiegati nella Chimera, uno dei più celebri e belli tra i componimenti campaniani, a quelli proposti in musica da Arnold Schönberg. In Italia tutto questo assume i tratti peculiari dell’antipositivismo e di un certo sovversivismo antigiolittiano, destinato più tardi a sfociare apertamente nel nazionalismo e nel revanscismo. Il conflitto di Campana con la società andrebbe considerato anche in questa prospettiva: non maudit, dunque, ma antigiolittiano sì, senz’altro.

Eppure l’adesione di Campana ai miti del nazionalismo e del bellicismo è soltanto parziale…

È vero. Il suo stesso autoproclamarsi “ultimo dei germani in Italia” mentre il Paese si prepara a entrare in guerra contro l’ex alleato tedesco, è – almeno a sentir lui – una provocazione rivolta ai benpensanti di Marradi, imbevuti di retorica nazionalista. Allo scoppio della Grande guerra, però, fa mostra di una lucidità sorprendente: parla di “industria del cadavere”, vedendo nel conflitto l’espressione dell’industrialismo; e nell’estate del 1915 scrive all’interventista Ardengo Soffici di trovare “stupida e ridicola l’idea di un miracolo nazionale prodotto dal meccanismo della guerra”. Il che non gli impedisce – riecco l’ambivalenza – di proporsi volontario per il fronte, nonostante fosse già stato riformato per infermità mentale anni prima.

Il nostro profilo di Campana sarebbe incompleto se non menzionassimo Marradi, la cittadina della Romagna toscana dove nacque nel 1885. In anni recenti, con il suo Dino Campana. Formazione del paesaggio, Matteo Meschiari ha tracciato un legame estremamente suggestivo tra i Canti Orfici e i luoghi in cui il poeta era nato e cresciuto.

Meschiari è fra coloro che hanno colto molto bene il rapporto fra la poesia di Campana e il paesaggio, in quanto modalità rappresentativa ed esperienza in movimento. Effettivamente, Marradi è un luogo molto particolare. Geograficamente piuttosto chiuso, è spesso soggetto alle inondazioni del torrente Lamone e a intense nevicate durante gli inverni. Ma non dobbiamo pensare a un paese culturalmente asfittico, ottusamente provinciale, come vorrebbe una certa vulgata alimentata in primis dallo stesso Campana – a Giovanni Papini: “Mi hanno sputato addosso dall’età di 14 anni”; e a Emilio Cecchi: “Mi hanno sempre contestato il diritto di esistere” – e poi ripresa da altri, a cominciare da Sebastiano Vassalli nel romanzo La notte della cometa (1983). Nell’ultimo quarto dell’Ottocento Marradi ha vissuto un certo dinamismo economico e intellettuale, anche precoce, che però si è esaurito in fretta. Poi è senz’altro vero che in questo contesto Campana era diventato sempre più ingombrante, con le sue fissazioni e le sue stranezze; ma non era un emarginato. Né sono mancate le persone in grado di capirne subito la grandezza dietro l’apparente stravaganza, come Luigi Bandini, che fu uno dei suoi pochi veri amici.

C’è infine il contesto famigliare. E qui il discorso si fa delicato: le testimonianze in proposito sono spesso contraddittorie, rese ancora più ellittiche dal riserbo a tratti un po’ omertoso che all’epoca di Campana era riservato alla malattia mentale e a coloro che in qualche modo vi erano entrati in contatto. Tu che idea ti sei fatto in merito?

Beh, così come sono ostile al vittimismo di cui si è fatto interprete Vassalli, così sono convinto che qualche problema in casa Campana esistesse. Forse sarò troppo maniacale, troppo letterario se vuoi: ma quando leggo che il padre di Dino, Giovanni Campana, adopera il termine “risentita” per descrivere la moglie Fanny, mi si spalanca davanti un mondo flaubertiano di aspirazioni frustrate, di insoddisfazioni, di tensioni coniugali che devono aver avuto ricadute di un qualche tipo sull’intero nucleo famigliare, e che nel caso di Dino sono peggiorate nel corso del tempo.

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La prima edizione dei Canti Orfici (Marradi, 1914)

Chiariti i contorni biografici, direi che possiamo passare finalmente all’opera. Nell’introduzione del Meridiano scrivi che Campana è “autore unius libri, come pochi altri” e che i Canti Orfici “sono una versione (forse) parossistica” dell’aspirazione tardoromantica verso “un Libro capace di addensare in sé il mondo”, accogliendo in un’unica totalità anche elementi extraletterari, dalla musica alla pittura al cinematografo. Ne viene fuori insomma un Campana forse più vicino a Joyce e Pound (che tra l’altro era suo coetaneo), che non agli italiani Sbarbaro e Rebora.

Con i primi due nomi che hai fatto, Campana condivide almeno un tratto in comune, e cioè l’idea che la letteratura sia un linguaggio altro. Di fronte a un mondo che si degrada anche moralmente, in cui l’unica legge è quella del capitale, il letterato dell’età industriale pensa che la parola poetica non possa più, come in passato, rappresentare del mondo, ma debba essere il mondo. Questa convinzione, secondo me, permette di comprendere meglio le dinamiche testuali, anche complesse, degli Orfici: le parole sono letteralmente “pezzi di mondo” e del mondo debbono possedere il dinamismo. Il mondo di Campana è un mondo instabile, e la sua poesia è un modo per “mettere in forma” questa instabilità.

Nel caso di Campana mi pare che ci sia un elemento di complicazione in più, vale a dire la completa identificazione con il proprio libro: “Nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato”, scrive a Prezzolini nel 1913, “per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato”. Anche per questo – ed è un altro aspetto in cui insisti a lungo nel Meridiano, fin dall’introduzione – i Canti Orfici vanno letti come un tutto unitario, e non come semplice antologia poetica.

Uno che questa cosa l’ha capita da subito e molto bene è stato Mario Luzi. Io ho soltanto voluto sottolineare come i Canti Orfici siano a tutti gli effetti un libro, pensato e costruito come tale, secondo un’intenzionalità che è stata troppo spesso sottovalutata. Ho sentito esperti anche grandi parlare di “casualità”, di “sfilacciatura” nella costruzione, mentre mi sembra innegabile che il libro presenti delle simmetrie strutturali abbastanza calcolate. Non è casuale, ad esempio, che incominci con una larga prosa (La Notte) e finisca con un largo poemetto (Genova), né che la prima sia seguita da sette componimenti poetici e il secondo sia preceduto da sette prose; né tantomeno che quasi al centro del libro stia un terzo testo, La Verna, ampio e di notevole impegno compositivo, che insieme agli altri due dà vita a una sorta di triade, simulazione del percorso di una giornata.

Perché allora c’è voluto così tanto per capirlo?

So che può sembrare assurdo, ma il libro ha patito da subito una sbadataggine editoriale dalle conseguenze gravissime: nella prima edizione dei Canti Orfici, stampata a Marradi nell’estate 1914, manca completamente l’indice! (ride) E sono pronto a scommettere che manca non perché Campana non ce lo volesse, ma semplicemente perché se lo sono dimenticato. È uno dei tanti difetti imputabili allo stampatore Bruno Ravagli, che aveva lavorato davvero al risparmio. Talmente al risparmio che Giovanni Boine, nella sua recensione, faceva notare che il taglio e la qualità della carta cambiavano senza motivo, che il testo presentava palesi errori di stampa… Non a caso, lo stesso Campana ne avrebbe voluta realizzare una seconda edizione, ripulita dai refusi e con l’aggiunta di qualche altro componimento.

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L’epigrafe conclusiva dei Canti Orfici.

Un altro punto su cui ti soffermi molto dettagliatamente nel commento ai testi sono le fonti a cui Campana attinge. Anche qui assistiamo a un doppio movimento: fra tradizione e avanguardia, senz’altro, ma anche fra Italia ed Europa, e fra Europa e America.

È un doppio movimento che ancora una volta rivela la profonda originalità della formazione letteraria campaniana. Accanto a modelli più noti e in un certo senso ben assimilati dalla cultura italiana dell’epoca, come Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Campana guarda a Goethe, a Heine, a Swinburne, all’estetismo britannico. E poi c’è la letteratura nordamericana: Whitman, naturalmente, che cita quasi letteralmente nell’explicit degli Orfici“They were all torn and cover’d with the boy’s blood” –, ma anche episodi relativamente minori, come la sua traduzione – a memoria! – di alcuni versi tratti dalla poesia In Music Hall. Looking down upon the white heads of my contemporaries, di Julia Ward Howe, poeta abolizionista e suffragista, autrice del famoso Battle Hymn for Republic – hai presente? “Glory, Glory Alleluja…” – la cui attribuzione, rimasta misteriosa per oltre un secolo, è stata recentemente identificata da Susanna Sitzia. In barba a chi ha sempre considerato Campana un misogino!

L’altro doppio movimento a cui facevamo cenno prima è quello fra Campana e l’avanguardia. Quale è stato il suo rapporto con gli “ismi” novecenteschi, primo fra tutti il Futurismo?

Campana guarda al Futurismo nel corso del suo primo apprendistato poetico, i Canti Orfici ne portano ancora qualche traccia, ma certo non ha simpatizzato con il movimento, anzi. Se proprio vogliamo parlare di avanguardie, al di là di un espressionismo inteso nel senso più largo del termine, direi semmai – anche sulla scorta di studi autorevoli – che esiste una convergenza fra le forme poetiche campaniane e l’esperienza del Cubismo, che lui senz’altro conosceva grazie alla mediazione di Soffici.

In effetti, più che come avanguardista, Campana ambisce a porsi come un continuatore e un innovatore della tradizione poetica italiana. Qualcuno ha parlato di Scapigliatura, qualcun altro di Pascoli; ma forse il riferimento principale è Dante.

Già la scelta del prosimetro per gli Orfici rimanda implicitamente alla Vita Nova; non si contano poi le citazioni dantesche sparse qua e là per tutto il libro, da La sera di fiera a La Verna. Dante rappresenta per Campana l’aggancio principale alla tradizione, ed è molto presente nella sua opera, fin dall’inizio.

Si potrebbe dire che i Canti Orfici rappresentino una sorta di riscrittura “rovesciata” della Vita Nova. Laddove nel modello dantesco abbiamo un itinerario iniziatico di conoscenza e di salvezza, nella rivisitazione campaniana abbiamo invece un movimento circolare di andata e ritorno, in un mondo che non può più conoscere alcuna trascendenza.

Non c’è trascendenza, è vero, ma neanche nichilismo. Qui il niccianesimo di Campana è davvero coerente: nessuna traccia di superomismo, tanto meno di matrice dannunziana, allora imperante. Da Nietzsche lui trae semmai un elemento utopico, un’utopia tragica fondata sull’amor fati e sull’eterno ritorno – “Ogni fenomeno è per sé sereno” – e dunque su un’accettazione che è al tempo stesso valorizzazione del mondo nella sua pienezza e bellezza. Il che non vuol dire mettere in scena un mondo aproblematico, bensì un mondo in cui le contraddizioni restano irriducibili. Insomma, azzardando un po’, potrei dire che siamo nei paraggi di Wittgenstein: “Nel mondo tutto è come è”.

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Recto di una cartolina postale inviata da Campana a Emilio Cecchi il 24 agosto 1916 (fonte e trascrizione integrale del testo qui)

Uno dei meriti non secondari di questo Meridiano è quello di includere, accanto ai testi letterari, l’epistolario completo – a oggi, perlomeno – di Campana. Una scelta che contribuisce a fare piazza pulita di alcuni miti campaniani duri a morire, primo fra tutti quello del poeta “grande ma solo”. Scorrendo le lettere, appare al contrario evidente che, soprattutto a partire dalla pubblicazione degli Orfici, Campana sia entrato in corrispondenza con molte figure importanti di quegli anni.

Per quanto gli Orfici non abbiano avuto troppa eco fra la critica al momento dell’uscita, ottennero comunque recensioni da parte di Boine, di Cecchi e di Giuseppe De Robertis, un nome che contava nell’intellighenzia fiorentina. Pur con tutti gli impicci e le difficoltà che sono ormai note, da quel momento Campana appare inserito nel circuito intellettuale, pur rimanendo – e questo va sottolineato, perché è un fatto decisivo – assai precario da un punto di vista economico. E in questo circuito, come hai visto anche tu, non ci sono soltanto i famigerati Soffici e Papini – a proposito dei quali, tra l’altro, questa nuova edizione dell’epistolario aggiunge importanti dettagli sulla mancata restituzione del manoscritto di Il più lungo giorno; ci sono anche Cardarelli, Sbarbaro, Bacchelli e Carrà, col quale Campana si lega in amicizia.

L’altra novità è l’inclusione, all’interno del corpus complessivo dell’epistolario, del carteggio con Sibilla Aleramo. Finalmente sottratto a una certa idealizzazione romantica – il “viaggio chiamato amore” – o, peggio, all’immagine della tragedia annunciata dipinta da Vassalli, il rapporto fra i due può finalmente essere letto e valutato all’interno di un contesto più ampio.

Quella tra Aleramo e Campana era una situazione estremamente delicata fin dall’inizio. Lei, che era una donna estremamente colta e intelligente, forse lo aveva in qualche modo mitizzato, e vedeva nel loro incontro un’unione di spiriti affini, nel segno della creazione poetico-letteraria. Quanto a lui, appare evidente che, dopo aver opposto una minima reticenza iniziale, si lascia completamente andare a un investimento affettivo di vasta portata, tale da travolgere delle difese psichiche che in quel periodo erano già drammaticamente fragili. Non intendo dire che l’esito della vicenda fosse scontato, ma di sicuro poggiava su basi tutt’altro che solide; e trovo che questo emerga con chiarezza tenendo conto, come dici, del contesto generale, così come lo si può ricavare dagli scambi che Campana aveva nel frattempo con altri interlocutori. Fino al drammatico epilogo del gennaio 1918, con l’internamento manicomiale prima a San Salvi e poi a Castel Pulci, nei pressi di Firenze, dove morirà nel 1932.

Siamo arrivati al termine della nostra chiacchierata. Un Meridiano come questo spinge inevitabilmente a domandarsi se esista un’eredità campaniana, così come esistono i pascoliani, i carducciani, i dannunziani… Poco fa hai citato la frase “Ogni fenomeno è per sé sereno”, che è stata ripresa – “Ogni fenomeno è in sé sereno” – da un altro scrittore-camminatore come Gianni Celati, nelle ultime righe di uno dei suoi libri più importanti, Verso la foce (1989). Esiste una “memoria letteraria” di Campana nel nostro Novecento?

Se dovessimo fare un regesto dei testi creativi, delle citazioni o anche solo dei prestiti da Campana credo che non ne verremmo mai a capo, perché sono davvero tantissimi. Oltre a quello di Vassalli, c’è, più recente, un bel romanzo di Laura Pariani, Questo viaggio chiamavamo amore (2015). Hai ricordato Celati, giustamente; ma c’è anche Tabucchi, c’è il lavoro di mediazione molto importante svolto da Carmelo Bene. Ci sono i film – Inganni di Luigi Faccini, Un viaggio chiamato amore di Michele Placido – più o meno veritieri o riusciti. Quanto alla poesia, si può dire che ogni generazione di poeti italiani, a cominciare dagli ermetici fiorentini, abbia avuto il suo Campana. Ti cito due nomi a titolo d’esempio, uno più ovvio, l’altro forse meno. Il primo è Giorgio Caproni, nella cui produzione l’influenza campaniana si avverte decisamente; il secondo è quello di Amelia Rosselli, che l’ha proprio ripreso esplicitamente, rimaneggiandolo e rimodulandolo all’infinito. A conferma che quella di Dino Campana è una presenza tutt’oggi estremamente viva nella memoria di chi fa letteratura in Italia.

Giovedì 20 marzo, alle ore 18.30, presso Casa Manzoni (via del Morone 1, Milano), Gianni Turchetta presenterà Dino Campana, L’opera in versi e in prosa (Mondadori “I Meridiani”, 2024, pp. 1740). Ne parleranno con Turchetta Maurizio Cucchi e Gabriele Gimmelli; a moderare l’incontro interverrà Marco Corsi. L'evento, organizzato con la collaborazione del Circolo dei Lettori di Milano, sarà trasmesso in diretta streaming a questo link.

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