Venezia 80. Fuori gli autori!

3 Settembre 2023

Nell’intervista rilasciata a Pedro Armocida sul numero 35 di “Film Tv”, Alberto Barbera, giunto ormai alla sua penultima Mostra come direttore (ne ha dirette quattordici: un record), schiva con elegante destrezza le domande più spinose – da quella sull’effettivo peso della politica nei festival cinematografici a quella sulla scarsa presenza delle cinematografie extraeuropee ed extranordamericane (“è stata una scelta obbligata”, con toni che ricordano quelli spesi l’altroieri per motivare l’assenza di registe nel concorso principale) – ma poi sorprende tutti esaltando “l’aspetto creativo dei film a discapito di quello glamour e modaiolo”. Dichiarazione curiosa, considerato che in passato (correva l’anno 2019) non aveva mancato di bollare come “autoreferenziale” molto cinema presentato ai festival. 

 

Una risposta alle ricorrenti accuse d’aver trasformato il Lido in una succursale dell’Academy e i Leoni in una anticipazione degli Oscar? Più semplicemente, si tratta di pragmatico realismo: lo sciopero degli attori e degli sceneggiatori in corso da mesi a Hollywood fa sentire i suoi effetti anche qui in laguna, privando la Mostra della consueta parata di star.

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In effetti, l’atmosfera dei primi giorni, con il film d’apertura sostituito in corsa (il discusso Comandante di Edoardo De Angelis al posto dell’annunciato Challengers di Luca Guadagnino), il red carpet in tono minore e l’inaugurazione sotto la pioggia, faceva pensare a un festival all’insegna di una certa austerity, malgrado la solennità dell’occasione (è l’80ma edizione della Mostra). 

La selezione è comunque piuttosto ricca. Il concorso ha voluto calare subito gli assi, puntando su un’idea di autorialità “forte” che privilegia però nomi già sperimentati (Larraín, Mann, Lanthimos, Fincher, Bonello e via discorrendo) rispetto a eventuali scoperte. E se è comprensibile la scelta di tenere Polanski e il suo The Palace fuori dal concorso (considerata anche la modestia del film, non certo all’altezza del precedente L’ufficiale e la spia), non si spiega invece l’inclusione di un Besson un po’ decotto per quanto gradevole (Dogman), o dell’esercizio calligrafico in costume del danese Arcel (Bastarden), al posto di uno Tsukamoto “retrocesso” nella collaterale sezione Orizzonti quando già in passato si era guadagnato la competizione principale.

Va da sé che “autorialità” non è necessariamente sinonimo di “qualità” e molte sono state in questi primi giorni le sorprese, positive o negative a seconda dei casi.

In quest’ultima categoria bisogna purtroppo mettere El conde di Pablo Larraín, che segna il ritorno del regista cileno ai propri temi prediletti dopo tre film in qualche modo “lontani da casa” (i ritratti femminili di Jackie e di Spencer, l’anti-musical di Ema). Rieccoci dunque nel Cile di Pinochet: ma stavolta il protagonista è il dittatore in persona (il bravissimo Jaime Vadell), trasformato per l’occasione in una sorta di Dracula ormai esausto della vita, preso in mezzo fra un clan famigliare più avido che mai e un’emissaria della Chiesa cattolica (Paula Luchsinger), un po’ santa e un po’ commercialista. 

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Ancora una volta, Larraín pone al centro del proprio discorso il corpo del potere, che sottopone a un impietoso esame autoptico – come nel vecchio Post Mortem, forse ancora oggi il suo film migliore. In questo caso però i codici sono quelli di un genere ben preciso (l’horror-gotico), che il regista infarcisce di riferimenti a Murnau e a Dreyer, ma anche a Intervista col vampiro; e forse anche per questo l’esito appare parecchio pasticciato, con intuizioni visive spesso di geniale bizzarria (soprattutto grazie alla fotografia di Ed Lachman), messe al servizio di un apologo talmente scoperto da rasentare il didascalismo (il neoconservatorismo come eterno ritorno di un ancien regime che letteralmente non vuole morire), ma che rimane in definitiva irrisolto e anche un po’ discutibile tanto nel metodo quanto nel merito.

Il comparto statunitense punta invece su uno dei generi hollywoodiani per antonomasia: il biopic. Michael Mann e Bradley Cooper, due registi lontanissimi per età ed esperienza, alle prese con due ritratti in chiaroscuro di figure maschili “più grandi della vita”: Enzo Ferrari per il primo, Leonard Bernstein per il secondo. 

Per Mann, Ferrari segna il ritorno alla regia di un lungometraggio a quasi dieci anni di distanza dal fiasco di Blackhat. Non sempre a proprio agio con il film biografico, che non praticava dai tempi di Alì (era il 2000), l’ottantenne regista annaspa un po’ quando si tratta di tracciare un ritratto intimo dell’uomo Ferrari; ma riacquista l’energia di sempre quando può concentrare l’attenzione sulle corse, la preparazione dei piloti, il funzionamento dei motori. Più di tutto, si capisce, lo interessa tessere l’elogio del “saper fare” (un filo conduttore della sua filmografia, da Strade violente a Collateral, passando ovviamente per Heat), per quanto questo possa essere, come dice il protagonista, “a deadly passion”, “a terrible joy”. Peccato per il budget risibile, che mortifica sequenze sulla carta ben più spettacolari (la ricostruzione della Mille miglia, l’incidente di Guidizzolo), e la scelta sbagliata dei due protagonisti: il sopravvalutato Adam Driver con parrucca sale e pepe e pancia finta, ormai abbonato (dopo House of Gucci) ai ruoli di italiano; e una Penélope Cruz al di sotto delle proprie capacità, che recita col pilota automatico un personaggio scritto maluccio. 

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Da parte sua, Bradley Cooper può contare su un budget ben più sostanzioso (produce Netflix, in collaborazione con Scorsese e Spielberg) per il suo Maestro, ricostruzione di vita e carriera del compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, che lo vede anche nei panni del protagonista accanto a una Carey Mulligan più brava del solito. A distanza di cinque anni da A Star is Born, passato fuori concorso proprio qui al Lido, Cooper compie indubbiamente un notevole passo avanti come regista, anche se non mancano le incertezze stilistiche (una prima parte fin troppo effettistica contrapposta a una seconda parte eccessivamente verbosa, l’alternanza un po’ meccanica fra bianco e nero e colore) e i cedimenti a una certa ruffianeria sentimentale (abbondano i primi piani). A differenza di Mann, tra pubblico e privato Cooper opta decisamente per il secondo, omettendo completamente la dimensione politica del lavoro di Bernstein, apertamente schierato a sinistra (fu proprio lui, del resto, a ispirare a Tom Wolfe la definizione radical chic). Il Bernstein di Cooper, che lo interpreta con un brio attoriale talvolta persino eccessivo (sarà Coppa Volpi oppure Oscar? In ogni caso, complimenti al make up departement), è un furfante di genio, straordinario nell'arte e distruttivo nella vita; un omosessuale non dichiarato che però non rinuncia al comfort tutto borghese di un matrimonio etero; un uomo profondamente innamorato e al tempo stesso cronicamente infedele. Nei panni della moglie Felicia lo affianca Mulligan, ottima nel restituire l’atteggiamento ambivalente della consorte nei confronti del marito-mostro, ma al tempo stesso abile a non farsi sovrastare troppo dalla energia interpretativa del partner di scena.

Un discorso a parte va fatto anche per i primi due italiani in concorso (ce ne sono sei in tutto: non accadeva dal 1982), se non altro perché dimostrano la fatica del nostro cinema nell'emanciparsi dalle formule di un passato glorioso ma ormai irripetibile. Da un lato i fellinismi ad altissimo costo (si parla di oltre venti milioni di euro) di Saverio Costanzo, che con il suo Finalmente l’alba occhieggia timidamente al caso Montesi ma non riesce ad andare oltre l’evocazione-descrizione del cinema italiano che fu (il film è stato girato in 35mm a Cinecittà), con clamorose scivolate nel casting (Alba Rohrwacher nei panni di Alida Valli!) e imbarazzanti effetti digitali. Dall’altro, i cosiddetti generi “di profondità” riletti in chiave autoriale (rieccoci) dallo specialista Stefano Sollima. Il suo Adagio, che lo vede sbarcare per la prima volta nel concorso principale, è un poliziesco ben congegnato, con echi apocalittici (una Roma carpenteriana minacciata dagli incendi e oscurata da continui blackout) e tenui risvolti politici. E tuttavia, malgrado l’indubbia capacità di raccontare e il cast di tutto rispetto (Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea e Adriano Giannini, tutti adoperati coraggiosamente “fuori parte”), il film non riesce a scrollarsi di dosso un certo sentore di già visto – in Suburra, per esempio, giusto per rimanere all’interno della filmografia di Sollima Jr.

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Di fatto, in questi primi giorni di concorso, il solo film ad aver raccolto un consenso pressoché unanime è Poor Things di Yorgos Lanthimos. Il regista greco, più volte ospitato al Lido, a cinque anni di distanza da La favorita torna con un altro film “settecentesco”. Non nell’ambientazione stavolta (che invece è quella di un Ottocento fantastico e un po’ steampunk), bensì nello spirito, con un romanzo di formazione che è anche un racconto filosofico di stampo più sadiano che voltairiano. Tratto dal libro di Alasdair Gray (recentemente ri-tradotto in italiano da Safarà con il titolo Povere creature!), il film, sceneggiato dal fedelissimo Tony McNamara, segue le spericolate avventure di Bella (una superba Emma Stone alla sua seconda prova con il regista, qui anche coproduttrice), un po’ Alice, un po’ Pinocchio, un po’ Moll Flanders: creata in laboratorio dall’iperpositivista dottor Godwin “God” Baxter (un Willem Defoe deformato dal trucco), la ragazza intraprende un percorso di autoconsapevolezza e liberazione in un mondo dove un po’ tutti, dal padre-patrigno all’inetto libertino Wedderburn (Mark Ruffalo), dall’innamoratissimo e pudico Max (Ramy Youssef) al crudele Alfie (Christopher Abbott), vorrebbero ingabbiarla in qualche modo. Ma al di là dell’efficacia dell’apologo, ciò che più colpisce di Poor Things è la straordinaria energia affabulatoria, degna dei grandi romanzi picareschi, unita alla capacità di dare vita a un universo narrativo (e visivo) di grande fascino e coerenza (la fotografia stilizzata di Robbie Ryan, i costumi di Holly Weddington, le scene di Shona Heath e James Price), originale pur nella molteplicità dei riferimenti (da Grandville a Escher, da Browning a Gilliam, da Burton a Fassbinder). 

Per quanto sia ancora troppo presto per fare pronostici, Poor Things rimane comunque un film che varrebbe la pena prendere ad esempio: di come si possano evocare dei modelli senza lasciarsene schiacciare; di come sia possibile fare del cinema d’idee senza perdere di vista la carne e il sangue da cui quelle idee prendono vita; di come si possa dar vita a un apologo senza incappare nei gorghi della retorica; e di come si possa essere “autore” senza smarrire la craftsmanship del vero artigiano.

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