Cinema senza film, film senza cinema
E se il futuro del cinema fosse nel suo passato? Se il luogo elettivo del post-cinema fosse il pre-cinema? Sono questi gli interrogativi che suscitano le installazioni in corso a Milano di Anna Franceschini e Diego Marcon. Due allestimenti per molti versi in contiguità fra loro – anche dal punto di vista geografico: distano meno di mezz’ora a piedi l’uno dall’altro (26 minuti, precisa Google Maps), si possono visitare comodamente nell’arco di un pomeriggio, attraversando il centro – e che una visita ravvicinata mette inevitabilmente in dialogo.
Un dialogo che nasce, almeno per quanto riguarda il sottoscritto, non soltanto da una conoscenza personale dei due artisti che dura da tempo (e rinforzata, nel caso di Marcon, anche da una breve e felice collaborazione alcuni anni fa), ma anche da prossimità anagrafiche. Nati rispettivamente nel 1979 e nel 1985, entrambi originari della vasta provincia lombarda (l’asse Pavia-Vigevano per Franceschini, Busto Arsizio per Marcon) e con una solida formazione nell’audiovisivo alle spalle (regia la prima, montaggio il secondo), appartengono a una generazione che – come anche chi scrive – ha conosciuto il cinema più attraverso le VHS e il videoregistratore che non in sala.
Un’esperienza inevitabilmente più solipsistica, legata a un consumo domestico, privato. Il cinema in sala, come esperienza collettiva c’è stato, ma solo come esperienza secondaria, quasi una riscoperta: la vera iniziazione alle immagini è avvenuta altrove, e il lutto per una eventuale morte del cinema è soltanto parziale. Probabilmente è anche per questo che nei lavori di Franceschini e Marcon sono assai rari i toni della nostalgia o del feticismo necrologico. Si respira semmai una sorta di incanto infantile – e non a caso l’infanzia è un tema che ricorre più o meno scopertamente nell’opera di entrambi. Più che un cinema espanso, mi sembra che i loro lavori presuppongano un cinema ormai esploso, di cui sia possibile recuperare qua e là soltanto dei frammenti, preziosi ma irrimediabilmente sparsi.
Al di là di questi aspetti comuni, però, le strategie a cui ricorrono per dare vita al loro post-cinema (o pre-cinema?) sono molto diverse fra loro, addirittura opposte. Nel caso di Franceschini, ci troviamo di fronte a un cinema letteralmente senza film; in quello di Marcon, di film (di una suite di film, per la precisione) senza cinema. Metterli a confronto serve a poco. Molto meglio osservarli e descriverli uno per volta, nella propria specificità, innanzitutto spaziale (un aspetto, come vedremo, tutt’altro che secondario), lasciando al lettore e allo spettatore il compito di tirare le fila di questo dialogo a distanza.
Anna Franceschini. La macchina malinconica
Stanno lì, nell’Impluvium della Triennale, disposti su tre file. Sulle prime sembra che riposino, dolcemente collassati su se stessi. Poi però prendono vita all’improvviso, come obbedendo a un ordine che lo spettatore non può udire. Si drizzano e si afflosciano, ora l’uno ora gli altri, secondo un ritmo tanto preciso quanto, almeno sulle prime, inafferrabile.
Che cosa sono? Il titolo dell’installazione, All Those Stuffed Shirts, suona come il corrispettivo anglosassone dell’italiano “pallone gonfiato”. Ma chi sono i veri palloni gonfiati, si domanda (e ci domanda) Anna Franceschini, nel testo che presenta la mostra? Non certo i marchingegni esposti: queste stiratrici modificate per l’occasione sono docili, obbedienti (il termine con cui vengono comunemente indicate, dressmen, ricorda da vicino yesmen), quasi commoventi nel loro essere macchine destinate a una rapida obsolescenza nell’epoca di ChatGPT. Quanto ai corpi tessili (disegnati dalla stessa Franceschini in collaborazione con Nelly Hoffman), sono benevoli fantasmi, costretti da un imperscrutabile algoritmo (la partitura per tastiera midi composta da Matteo Nasini) a farsi suonare come note di un pentagramma invisibile.
L’installazione, curata da Damiano Gullì e realizzata appositamente per Triennale Milano, può essere considerata come l’ultimo capitolo di un percorso intorno all’oggetto che Franceschini ha avviato fin dal 2007 con il cortometraggio Polistirene. L’attenzione (e l’affezione) rivolta agli oggetti imperfetti, desueti, pronti da gettar via (nel recente What Time is Love?, cortometraggio del 2018, l’artista filma impassibile i sadici stress test cui vengono sottoposti i giocattoli destinati alla messa in commercio): i sottoprodotti del capitalismo, insomma, l’inorganico senza più alcun sex appeal.
Col tempo, l’attenzione di Franceschini si è spostata sempre più dall’oggetto inanimato al dispositivo meccanico, con tutto il carico di perturbante che questo porta con sé. Il Luna park di The Player May Not Change Its Position (2009) ne è già un ottimo esempio: il barcone, il toro meccanico, la giostra che vediamo sullo schermo sono autentiche “macchine spettacolari”, rollanti e cigolanti, che ogni sera, malgrado l’età, faticano senza risparmio per far divertire chi ha pagato il biglietto.
Quella stanchezza della macchina si traduce oggi nelle sculture cinetiche. Dalla contemplazione del dispositivo, Franceschini è passata al dispositivo stesso. Se una decina d’anni fa, come ricorda il comunicato stampa della mostra, l’artista si serviva ancora del video (The Stuffed Shirt, 2012), oggi i dressmen/yesmen hanno occupato interamente la scena con la loro ingombrante, scultorea fisicità. Uno spostamento essenziale, all’interno del quale giocano un ruolo di rilievo tanto le installazioni che Franceschini ha dedicato al tema dell’ornamento (le parrucche in Villa Straylight, 2019; le mani e gli specchi in The Lady Vanishes, 2022, di cui Luigi Grazioli ha già scritto su “doppiozero”; i pezzi d’arredamento in Il Salotto cattivo, 2022), quanto lo studio della vetrina come dispositivo spettacolare (la serie What Happened to the Girl?, 2016-17).
Siamo dalle parti di Duchamp e dei suoi readymade, naturalmente – benché in questo caso ci troviamo di fronte a dei semi-readymade, dato che le stiratrici sono state modificate per l’occasione. Sottratte per qualche tempo al loro umile, anonimo e pressoché invisibile lavoro, vengono restituite a una nuova vita sotto le luci della ribalta, per questo “ultimo spettacolo” post-umano ma al tempo stesso anche post-macchinico. Come possono competere queste macchine celibi (o nubili, come suggerisce la stessa Franceschini), parenti strette dei marchingegni del Locus Solus rousselliano, fatte di viti e ingranaggi, con i meccanismi ormai del tutto smaterializzati delle GIF animate o di TikTok?
Nella fase preparatoria del lavoro, ho avuto modo di parlarne con Franceschini. In un’occasione, ha paragonato le sue macchine alla sfilata d’un esercito in rotta, con i suoi bravi ufficiali, sottoufficiali e modesti fanti: un’Armata Brancaleone allo sbando, esausta dopo una battaglia mai combattuta. Davanti all’installazione conclusa, la sua sovrapposizione tra guerra e spettacolo mi ha riportato alla memoria una vecchia coreografia del mitico Busby Berkeley per il film di Mervyn LeRoy La danza delle luci (1933): Rembember My Forgotten Man, in cui Joan Blondell e Etta Moten cantavano con tristi accenti blues il destino dei reduci nella Grande depressione.
“Remember my forgotten man | You put a rifle in his hand | You sent him far away | You shouted: ‘Hip-hooray!’ | But look at him today”. Il cinema, abbandonato come mezzo, torna ad agire in absentia nell’opera di Franceschini. All Those Stuffed Shirts è un musical senza musica e senza interpreti, un film senza film, un’animazione senza schermo (“un cinema fatto con altri mezzi”, ricorda giustamente l’artista). Con questa trenodia sul destino della “forgotten machine”, Franceschini ci riporta all’epoca degli automi, delle fantasmagorie di Georges Méliès, delle case stregate di Buster Keaton. In una parola, all’incanto primigenio del cinema.
Diego Marcon. Un teatrino della crudeltà
“‘Non c’è stato molt’altro nella vita’. ‘No, è quasi tutto laggiù’”: così Michele Mari conclude l’ultimo racconto della raccolta Tu, sanguinosa infanzia (1997). Laggiù dove? Ma nel buio della fanciullezza, ovvio. Il buio in cui precipita da subito l’incauto visitatore di Dramoletti, la prima mostra antologica in Italia di Diego Marcon, curata da Massimiliano Gioni e allestita da Fondazione Nicola Trussardi presso lo storico Teatro Gerolamo.
Età gotica per antonomasia, dove tutto è minacciosamente fuori scala (e qui la scelta del teatrino-bomboniera come luogo deputato è qualcosa di più che una location suggestiva), l’infanzia è una costante nella produzione di Marcon, dai tempi di Franti, fuori!, la mostra allestita presso Careof nel 2014, che già dal titolo evocava De Amicis, fino al più recente Monelle (2017). Non a caso, nel testo di presentazione della mostra, accanto a maestri della miniatura come Joseph Cornell e Thomas Bernhard (da cui Marcon ha preso in prestito il titolo della personale), figurano anche Lewis Carroll e Carlo Collodi – ma si potrebbero aggiungere anche Robert Louis Stevenson, con le sue isole del tesoro e i suoi ragazzi rapiti, e Charles Dickens, con i suoi spettri penitenti e i suoi bimbi vilipesi.
Questa teoria di scrittori non deve tuttavia sorprendere, ché difatti, malgrado la forte impronta visiva, l’opera di Marcon possiede un’importante dimensione letteraria, tra filastrocche (l’ultima in ordine di tempo è uscita in questi giorni nell’antologia Che traccia hai scelto, curata da Ivan Carozzi per UTET) e prodotti ibridi, come il perechiano A Script for Dick (2014), che raccoglie in un libriccino d’artista 38 soggetti da fare per un cartoon immaginario.
E proprio dal cartoon, che Marcon frequenta perlomeno da Interlude (2013), prende il via il viaggio nei Dramoletti, con l’animazione digitale di Ludwig (2018) nella sala principale del teatro. Sballottato qua e là nell’oscurità di quella che ha tutta l’aria di essere la stiva di una nave in balia del mare in tempesta, il piccolo eroe del titolo, dal volto paffuto e dagli occhioni dolci come quelli di un personaggio disneyano, intona una nenia (testo di Marcon, musica di Federico Chiari, esecuzione del Coro di Voci Bianche dell’Accademia della Scala) che tanto disneyana non è: “Dio, come son stanco, | mi sento proprio giù. | Vorrei tirar le cuoia e non pensarci più”. In questo buio senza speranza, illuminato a tratti dal bagliore crudele dei lampi, la sola luce è quella del fiammifero che il bimbo è riuscito, dopo molti sforzi, a tenere acceso davanti a sé. Sul più bello, quando le parole della canzone sembrano lasciar presagire una svolta positiva (“Eppur…”), il fiammifero si spegne, bruciacchiandogli le dita; e tutto è pronto per ricominciare da capo, all’infinito.
La ripetizione è il fil rouge che lega tutte le opere presenti nella mostra. A latere di Ludwig, distribuite fra palchetti e loggione, stanno le proiezioni in 16mm di Untitled (Head Falling) (2015), profili di teste che crollano (morte di sonno o morte e basta?) ottenuti da Marcon graffiando e dipingendo direttamente sulla pellicola. Nel sottosuolo, al piano interrato, agonizza invece Il malatino (2017), animazione in stile fratelli Fleischer ma dal cuore, ancora una volta, cupamente deamicisiano. In cima alle scale, infine, nel caffè del teatro, si proietta The Parents’ Room (2021), silly symphony in salsa grand-guignol interpretata da attori in carne e ossa (ma con indosso grottesche maschere di gomma che li privano di ogni espressione), in cui si evoca, con toni di raggelata malinconia, una storia di inaudita violenza famigliare.
Il meccanismo del loop inchioda i personaggi in un limbo senza fine di azioni coatte, perennemente in sospeso: il malatino con il suo respiro affannoso, Ludwig con il suo fiammifero nel mare in burrasca, il pluriomicida davanti alla famiglia appena sterminata prima di togliersi la vita. Eppure, come nelle fiabe, non c’è autentico orrore, ma curiosità e persino un pizzico di divertimento: “‘Non ti ho chiesto se vuoi entrare, ma se sai cosa c’è dietro’. ‘Meglio che non lo sappia mai papà, se c’è qualcosa di ignoto sarà orrendo, se c’è qualcosa di familiare sarà triste’”, scrive sempre Mari in un altro racconto della sua raccolta.
Il pathos presente in questi lavori, fortemente voluto da Marcon (“Vorrei che, quando si reca a una mia mostra, lo spettatore sia avvicinato prima al cuore che alla testa”, ha dichiarato a Cesare Alemanni in un’intervista di qualche tempo fa), nasce appunto dallo scarto fra il carattere gotico ma fondamentalmente innocuo dell’infanzia e l’orripilante banalità dell’età adulta (e Storie di fantasmi per adulti è appunto il titolo di un suo video del 2010). Il perturbante è prossimo a noi, sembra suggerire Marcon fin dagli esordi (penso al corto She Loves You, 2008), ma è un perturbante familiare, da sobborgo, da tinello: un perturbante che non spaventa più nessuno. Proprio come il cinema, macchina fra le macchine, esposto come parte integrante del lavoro, sotto forma di proiettori che girano all’infinito. Film senza cinema, appunto.
Rimane il piacere della manualità, del lavoro condotto con metodo e perizia. Alcuni anni fa, dopo aver visto Ludwig per la prima volta, chiesi a Marcon se la superficie su cui rollava il poveretto fosse linoleum: “No”, mi rispose lui con sicurezza, “è mandorlato”. Non è un caso, allora, se nello spazio a fianco di The Parents’ Room, Marcon abbia disposto, le une di fronte agli altri, le marionette collodiane dei fratelli Colla, antiche inquiline del teatro, e una serie di suoi bozzetti (Untitled 01, 02, 03 (Dolle; Sketch for the Moles’ Bed), 2023) raffiguranti tre lettini vuoti: un risveglio dai begli incubi dell’infanzia, certo, ma anche la memoria-omaggio a un magistero d’alto artigianato, capace di spaventare e divertire allo stesso tempo.
Anna Franceschini, All Those Stuffed Shirts, a cura di Damiano Gullì. Triennale Milano, fino al 2 luglio 2023. Ingresso libero.
Diego Marcon, Dramoletti, a cura di Massimiliano Gioni. Fondazione Nicola Trussardi, presso il Teatro Gerolamo di Milano fino al 30 giugno 2023. Ingresso libero.