Venezia 81/1. Spettri in laguna

1 Settembre 2024

Di che si può parlare a Venezia quando il sistema di prenotazione dei biglietti funziona senza intoppi, i divi sono tornati sul red carpet e la nuova presidenza della Biennale in quota meloniana ha confermato per altri due anni la direzione artistica ormai “storica” (in tutti i sensi: è il mandato più lungo di sempre) di Alberto Barbera? Non sarebbe la situazione ideale per parlare finalmente dei film?

E invece sono proprio i film a mancare, in questi primi giorni di Mostra. Salvo occasionali eccezioni di cui si dirà e in attesa dei titoli più attesi (fra gli altri, Joker: Folie à Deux di Todd Phillips, sequel del film premiato con il massimo riconoscimento nel 2019; Queer di Luca Guadagnino; The Room Next Door di Pedro Almodóvar, al primo lungometraggio in lingua inglese; Youth (Homecoming) di Wang Bing, che tiene alta la quota “cinema del reale”), il concorso è finora scivolato via piuttosto piattamente, tra gradevolezze (la ronde vagamente rohmeriano-alleniana di Emmanuel Mouret con il suo Trois amies), efferatezze (Babygirl, di Halina Reijn, tentativo abbastanza cafone di resuscitare l’erotic thriller anni Ottanta, forte di una produzione “cool” come quella di A24 e di una Nicole Kidman da oltre un decennio in cerca di un ritorno ai fasti di fine anni Novanta) e film onesti ma un po’ ingessati (Campo di battaglia di Gianni Amelio, primo italiano in concorso, che propone una parabola improntata a un forte e convinto pacifismo, ma forse senza l’energia che sarebbe stata necessaria).

Cate Blanchett in Disclaimer, di Alfonso Cuarón.

Sarà vero che – come sembrano insinuare voci udite qua e là dentro e fuori le sale – l’annata non è stata generosa, con pochi film prodotti e conseguente scarso raccolto festivaliero? Potrebbe essere questa la ragione che ha spinto la Mostra a inaugurare la sottosezione Fuori Concorso – Series: quattro serie televisive complete – M, il figlio del secolo di Joe Wright, The New Years di Rodrigo Sorogoyen, Families Like Ours di Thomas Vinterberg e Disclaimer di Alfonso Cuarón, già Leone d’oro nel 2018 con Roma – con durate che oltrepassano ampiamente le cinque ore, spalmate lungo più giornate. La sottosezione, che Barbera definisce “un esperimento”, ripropone il vetusto e un po’ noioso quesito: serie TV o film lunghi? Qui alla Mostra sembrano propendere per la seconda definizione, fidando ovviamente sull’“effetto firma” dei registi coinvolti. Cuarón, il primo a fare la sua comparsa al Lido, ha rivendicato la continuità fra la serie (prodotta da Apple e prevista per i prossimi ottobre-novembre) e il proprio modo di fare cinema, portandosi dietro il fidato Emmanuel Lubetzki per la fotografia (qui affiancato da Bruno Delbonnel) e ingaggiando un cast di tutto rispetto: Cate Blanchett, Sacha Baron Cohen, Kevin Kline. Peccato che il risultato finale, con i suoi 329 minuti complessivi, malgrado i richiami all’attualità (il rapporto fra pubblico e privato, i pregiudizi antifemminili, il rapporto fra verità e finzione), appaia davvero troppo debitore ai più usurati espedienti del mélo: più che un film lungo, un lungo feuilleton a puntate, e nemmeno dei più freschi.

In questo panorama un po’ spettrale, il film del concorso che ha polarizzato le opinioni di critici e cinefili presenti al lido è Maria di Pedro Larraín, ormai ospite fisso della kermesse veneziana, che chiude – per stessa ammissione del regista – la trilogia di film dedicata alle figure femminili iconiche del XX secolo, iniziata proprio al Lido nel 2016 con Jackie, forse l’episodio migliore del polittico. Sceneggiato come il precedente Spencer (2021) da Steven Knight, Maria mette in scena un’altra storia di fantasmi, stavolta ambientata negli ultimi sette giorni di vita della “Divina” Callas. E fantasmatica è a tutti gli effetti la Callas di Angelina Jolie, che, in spregio a ogni somiglianza fisica, sembra mettersi totalmente al servizio della Diva per antonomasia, non solo con il proprio volto e il proprio corpo, ma anche e soprattutto con tutta la dolorosa consapevolezza di che cosa significa essere una star venerata in tutto il pianeta.

Angelina Jolie in Maria di Pablo Larraín.

Sopravvissuta a se stessa e al proprio mito, reclusa per sua volontà in una casa-museo che è anche una casa-mausoleo, Callas/Jolie è un’apparizione impossibile da afferrare. Filtrata attraverso mille immagini, tra autentici filmati di repertorio e falsi reperti d’epoca, come al solito ricreati con fanatica precisione da Larraín grazie all’apporto del sempre straordinario Ed Lachman, rimane a tutti gli effetti un’icona (sacra, come dimostra l’Ave Maria verdiana nell’ouverture del film) che resiste a qualsiasi oltraggio, irraggiungibile e irreplicabile (“Non potevo replicare me stessa”, spiega, quasi a giustificare la mancata maternità). Un’apparizione in un mondo di spettri: perché tale è la realtà in cui si muove la protagonista, la mente ottenebrata dai farmaci che assume in grande quantità. “Ciò che è reale e ciò che non lo è, è affar mio”, dichiara a un certo punto in una intervista (immaginaria, manco a dirlo); e ancora: “Il palco è nella mia testa”, dice, mentre si immagina di essere ancora una volta davanti alle luci della ribalta, mentre il Trocadero e il vestibolo dell’Opera di Parigi si trasformano istantaneamente nei set di un musical dei tempi d’oro, sulle arie di Verdi (Trovatore) e Puccini (Madama Butterfly). La dimensione operistica e la divisione in atti trasformano l’anti-biopic di Maria in una sorta di anomalo film-opera, esattamente come Jackie era (anche) un melodramma politico con inserti da documentario televisivo e tocchi musicali à la Broadway, e Spencer un racconto gotico dagli echi kubrickiani (Shining). In questo senso, uno dei momenti chiave del film è il confronto (a distanza) con Marilyn, altra diva consumata e distrutta da un pubblico sempre famelico d’icone, oltreché rivale di quella Jackie Kennedy che di lì a poco sottrarrà alla protagonista l’adorato Onassis: se al compleanno di JFK si esibisce il corpo senza voce di Marilyn, Callas è ormai una voce senza più corpo. 

Maria ha in sé il meglio e il peggio di Larrain. Oppure, giusto per andar di paradossi: il peggio al suo meglio (dialoghi sentenziosi e aforistici, estetizzazione vintage del passato, la mescolanza di sublime e triviale) e il meglio al suo peggio (la direzione degli interpreti: se Jolie, con tutta la buona volontà, riesce solo in parte nel restituire la carica magnetica della “Divina” Maria, va anche peggio con le figure di secondo piano, affidate ai nostri attori più esportati, Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher). 

The Sanatorium Under the Sign of the Hourglass, di Stephen e Timothy Quay.

Volendo proseguire sul filo della spettralità, merita d’essere segnalato, nelle Giornate degli autori, The Sanatorium Under the Sign of the Hourglass dei pluripremiati gemelli britannici Stephen e Timothy Quay, che tornano alla misura del lungometraggio dopo quasi vent’anni di lavori brevi, con un’opera tratta dal grande Bruno Schulz (1892-1942), del quale avevano già rielaborato, con molta libertà, il racconto La via dei coccodrilli con il cortometraggio Street of Crocodiles (1986). Stavolta il testo di partenza è fornito da Il sanatorio all’insegna della clessidra (1937), una delle opere più celebri dello scrittore e disegnatore ebreo polacco, già portata sul grande schermo nel 1973 da Wojciech J. Has, uno dei maestri del cinema fantastico, in un lungometraggio live action.

Nei titoli di testa, i Quay tengono a precisare di essersi serviti del libro di Schulz per alcuni “motivi e temi”, traendo nel contempo ispirazione da altri testi e disegni (nel film trova spazio l’immaginario grottescamente feticista delle incisioni raccolte nel Libro idolatrico). Il film è comunque una creazione del tutto autonoma, che mescola animazione in stop-motion e attori in carne e ossa. Come tutti i film della coppia, Sanatorium evoca più che raccontare, suggerisce più che spiegare: nelle prime scene del film, un imbonitore di strada si impossessa di una sorta di Mondo Niovo, leggendaria macchina pre-cinematografica, in cui però è curiosamente incastonata la retina di un occhio umano che proietta nell’apparecchio (secondo una nota credenza pseudoscientifica del XVIII secolo) gli ultimi sette momenti vissuti dal proprietario dell’occhio appena prima di morire. Inizia così il viaggio in una sorta di oltretomba perennemente al buio, abitato da larve in sonno e demoni dispettosi; un aldilà che ricorda molto una sala cinematografica, in cui si sogna tutti insieme (“Qui dormono tutti”, dice uno dei personaggi, “d’altronde è sempre notte qui”), oppure si spia un po’ ovunque, attraverso gli oculi del Mondo Niovo come per il buco della serratura. Fantasmi che guardano altri fantasmi di nascosto: il cinema, sembrano dire i due gemelli registi, forse è tutto qui.

Di spettri, di sogni e di cinema parla anche Bestiari, erbari, lapidari, documentario-monstre (204 minuti) realizzato da un’altra coppia di cineasti, quella formata da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, tra i più apprezzati e controversi esponenti della scena documentaria nostrana, amati da molti per la loro radicalità metodologica (la rivista “Film TV” ha già inserito il film nell’iniziativa “Anima e corpo”, con cui sostiene il cinema di qualità), ma contestati da altri per una certa innegabile propensione all'effettismo (il giovane trafficante di droga arrestato dalla polizia aeroportuale ne Il castello; la nascita del vitello deforme in Materia oscura). I due tornano al Lido a otto anni di distanza da Spira Mirabilis, lungo e affascinante poema visivo la cui accoglienza in concorso, tra fuggi-fuggi dalla sala e commenti sprezzanti post-visione, rimane una delle pagine meno edificanti della recente storia della Mostra.

Prudentemente collocati fuori concorso (saranno in sala dal 5 ottobre), questa volta D’Anolfi e Parenti propongono un altro film-mondo dal taglio rapsodico: “Un documentario ‘enciclopedia’”, secondo il pressbook, “omaggio a quegli ‘sconosciuti’ e per certi versi alieni mondi, fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per scontato, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo dal momento che costituiscono la parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta Terra”.

Bestiari, erbari, lapidari, di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti.

Il film si snoda attraverso tre capitoli, o “atti”, ciascuno dei quali si rifà a un genere documentaristico ben preciso. Come il precedente film della coppia, Guerra e pace (2021), “Bestiari” riprende la tradizione del found footage “decostruito” inaugurato fra gli altri da Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi, con splendide immagini dei primi operatori della Storia del cinema commentate fuori campo e alternate a immagini riprese ai giorni nostri in una clinica veterinaria; “Erbari”, forse il segmento più interessante e riuscito dei tre, è un documentario d’osservazione molto simile ai primi film dei due registi, girato nell’orto botanico dell’Università di Padova, uno dei più antichi del mondo; “Lapidari”, infine, si presenta inizialmente come film industriale per portarci, secondo un procedimento che vorrebbe essere “sebaldiano”, a una riflessione più ampia sulla memoria e le atrocità della Storia recente.

Basato su una serie di pattern (la luce e l’ombra) e di elementi ricorrenti (il registro, l’archivio, lo schedario), con molte sequenze degne di nota (una per tutte: le fasi della preparazione delle pietre d’inciampo), malgrado l’apparente struttura policentrica Bestiari, erbari, lapidari è invece accuratamente strutturato secondo una serie di echi visivi e di rime interne: al botanico pacifista del secondo atto, che fino all’ultimo aveva raccolto in trincea esemplari di piante e fiori in un apposito “Erbario di guerra”, corrispondono nel terzo atto le foto e le informative sugli antifascisti schedati nel casellario politico centrale; le immagini dei  recinti in filo spinato in cui vengono rinchiusi gli animali nel primo atto, anticipano quelle dei campi di concentramento e di sterminio nazisti presenti nel terzo atto; così come la schedatura delle piante nel secondo atto è seguita, nel terzo, dai simboli identificativi utilizzati per distinguere i prigionieri nei campi nazisti. Un’opera enciclopedica che non nasconde di essere anche un lavoro sul cinema: dai filmati dei primordi ai fossili (che vengono appunto definiti “prima ‘reale’ forma di cinema”), il tema della traccia visiva (spettrale, appunto), dello sguardo che vuole abbracciare tutto, anche l’impossibile, attraversa tutto il film.

Tuttavia, è proprio questa ambizione alla totalità e all’onnicomprensività – già presente del resto nel più interessante e riuscito Spira mirabilis – a costituire il maggiore elemento problematico di un film come questo, nonché i limiti che il cinema di D’Anolfi e Parenti mi ha rivelato, film dopo film, nel corso degli anni. Un cinema in cui c’è sempre qualcosa di eccessivo: ora nella durata, ora nelle parole (i commenti strategicamente collocati per indirizzare il discorso), ora nelle immagini (le operazioni sugli animali, nelle intenzioni forse debitrici di Brakhage, ma dilatate ai limiti del sadismo visivo). Un cinema che vorrebbe essere semplicemente mostrativo ed è invece profondamente didascalico. Un cinema che vorrebbe essere antiantropocentrico e propone continuamente un’epica (una retorica?) del lavoro manuale. Un cinema che, pur dichiarando di voler lasciare allo spettatore la libertà di valutare e collegare fra loro le immagini, non fa che imporre ogni volta, in maniera martellante e continua, il proprio punto di vista. Un cinema che non conosce vere sfumature, che da subito stabilisce il confine fra buoni e cattivi, vittime e carnefici. Un cinema che vorrebbe essere di poesia e che invece è, ahinoi, irrimediabilmente di prosa.

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