Prima la vita, poi il cinema: Il tempo che ci vuole

7 Novembre 2024

La generazione che ha fatto la commedia all’italiana, diceva Mario Monicelli, non ha avuto padri e non ha avuto figli (artisticamente parlando, si capisce). Alle sue spalle aveva il lungo viaggio attraverso il fascismo, con i suoi Littoriali della cultura, le ingenue velleità ribellistiche incoraggiate e al tempo stesso rigidamente controllate dal regime, il repentino e drammatico crollo delle illusioni di fronte al disastro della guerra. Davanti, c'erano la ricostruzione, il miracolo economico, un mondo (un’Italia) che cambiava troppo rapidamente. Forse sta qui, in questo particolarissimo concorso di circostanze, il segreto di quella capacità irripetibile (e in effetti mai più ripetuta) di cogliere il momento presente, sospeso fra il già stato e il non ancora, di un Paese in tumultuosa trasformazione. 

Comencini, Monicelli, Risi, Scola – ma anche il ruvido Germi, l’indipendente Pietrangeli, l’indisciplinato Salce, il veterano Zampa. In questo gruppo, tutto sommato omogeneo dal punto di vista anagrafico (tolti Zampa, classe 1905, e Scola, classe 1931, erano tutti nati fra il 1914 e il 1919), ma assai variegato per stile e sensibilità, Comencini occupa un posto particolare. Anzi, un posto scomodo, viziato negli anni da definizioni parziali e luoghi comuni. Comencini, “traditore del neorealismo” (“Ancora adesso mi arrivano delle bordate”, scriverà cinquant’anni dopo, a proposito di Pane, amore e fantasia). Comencini, “regista dei bambini”. Comencini il buono, il beneducato, il remissivo: “Ho sempre avuto paura dell’autorità e di non essere all’altezza”, confesserà in tarda età in un bellissimo libro di memorie, Infanzia, vocazione, esperienze di un regista, apparso per la prima volta nel 1999.

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Luigi Comencini con Andrea Balestri sul set di Le avventure di Pinocchio (1972)

 

Forse ci voleva proprio uno sguardo filiale per gettare nuova luce sulla sua figura, per mettere a nudo l’uomo e insieme l’artista, dissipando ombre e giudizi calcificati. Uno sguardo tutt’altro che neutrale e oggettivo, anzi profondamente partecipe e soggettivo; ma proprio per questo tanto più acuto e penetrante. È lo sguardo che Francesca Comencini, figlia terzogenita di Luigi, ha adottato nel suo Il tempo che ci vuole. Passato fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia (con qualche piccolo strascico polemico: secondo alcuni avrebbe meritato la competizione), il film è un oggetto singolare, a metà fra il ritratto intimo, l’autobiografia e la rielaborazione immaginaria, a tratti onirica, di una vicenda autentica. Un’immagine ne detta il tono fin dall’inizio: quella in bianco e nero, inscritta in un mascherino circolare, di un bambino coricato sull’orlo di un fossato, che dorme e forse sogna. È un frammento del mediometraggio di Umberto Paradisi Dagli Appennini alle Ande (1916), prima versione cinematografica di uno dei più noti “racconti mensili” del Cuore di De Amicis. 

Non è soltanto un riferimento metatestuale (Comencini Senior dirigerà nel 1984 per la RAI una celebre e molto apprezzata versione televisiva del libro), ma una vera e propria chiave di lettura. Quella del film non è un’autobiografia reale, infatti, bensì un’autobiografia sognata. Il rapporto fra un padre, Luigi (Fabrizio Gifuni) e una figlia, Francesca, che da bambina curiosa e un po’ testarda (Anna Mangiocavallo) matura negli anni dapprima in un’adolescente insicura e dai molti problemi (Romana Maggiora Vergano) e poi in giovane donna finalmente sicura di sé, tanto da sostenere il padre sul set quando l’uomo, sempre più vecchio e fiaccato dalla malattia di Parkinson (“M.d.P.”, le stesse iniziali di “Macchina da Presa”, osserverà Comencini nelle sue memorie), comincia a trovare il lavoro troppo faticoso. 

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La vicenda di Il tempo che ci vuole è tutta qui. Malgrado ricostruisca con piglio rigoroso le riprese dell’indimenticabile Pinocchio televisivo (una sorta di palinsesto di tutta la prima parte del film), tutto nel film appare circonfuso da un alone di fantastica ingenuità (i simil-Franchi & Ingrassia nei panni del Gatto e la Volpe, la ricerca della magica “luce a cavallo” per le riprese). Non c’è spazio per il mondo del cinema italiano dell’epoca, da Age e Scarpelli a Suso Cecchi D'Amico all'amico Monicelli (ché altrimenti sarebbe diventato un film di Virzì), ma nemmeno per il resto della famiglia Comencini, la moglie Giulia e le altre figlie Paola, Eleonora e Cristina (ché altrimenti avremmo avuto un film di Bellocchio, che qui si limita a co-produrre con la sua Kavac Film). Nessun cognome, soltanto nomi: Luigi, Francesca. Una scelta che suona quasi come una risposta divertita della regista ai rimproveri del padre. Quando nel film, dopo molte vicissitudini e tormentate vicende personali, Francesca decide di debuttare nella regia raccontando la propria storia di ex tossicodipendente (il film è Pianoforte, e nel 1987 è stato effettivamente l'esordio della regista nel lungometraggio), Luigi reagisce sulle prime con fare burbero: “Ho fatto quaranta film evitando l’autobiografia. Che bisogno avete tutti di raccontare le vostre storie?”; ma poi finisce per commuoversi quando la figlia ottiene un premio speciale al Festival di Venezia.

Ne Il tempo che ci vuole c’è in compenso molto cinema: Polidor (con numerosi estratti del Pinocchio muto di Giulio Antamoro), Méliès, ma anche Rossellini (il finale di Paisà) e Pialat. Il cinema è un prisma che assume, di volta in volta, significati differenti. È memoria storica e personale: “Mi ricordo di tutti i film che ho salvato”, dice Luigi/Gifuni, commosso, rievocando i tempi in cui, con due amici – che erano, per la cronaca, Mario Ferrari e Alberto Lattuada –, andava a recuperare preziosi (e pericolosi, perché altamente infiammabili) esemplari in nitrato di film come Il monello o Femmine folli, che nell’immediato dopoguerra avrebbero costituito il nucleo iniziale della Cineteca Italiana di Milano. Ma il cinema è anche una sorta di particolarissima educazione sentimentale: le immagini sensuali e magiche del film di Pabst L’Atlantide, dove è sufficiente una battuta (“Antinea, c'est Paris!”) per trasportare la scena dalla vastità del Sahara agli interni di un cabaret parigino, hanno per il Luigi adolescente il valore di una vera e propria epifania, così intensa da fargli dimenticare l’appuntamento andato a vuoto con una coetanea, e a suscitare in lui l’innamoramento definitivo per tutto quello che riguarda il cinematografo. 

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Da passione adolescenziale, il cinema diventa mestiere. “Il nostro è soprattutto un lavoro…”, chiosa Luigi, anziano e malato, sul suo ultimo set, “L’importante è che il film stia in piedi”: una visione laica e disincantata di quella che un po’ pomposamente si è soliti chiamare “settima arte” (“cioè l’ultima”, avrebbe detto ancora Monicelli). Ed è forse qui che Il tempo che ci vuole riesce a raggiungere il cuore dell’opera e della personalità artistica di Luigi Comencini: la mansuetudine, la versatilità e la prolificità, celano un profondo rovello interiore, un sospetto d’inadeguatezza (anche rispetto al ruolo di padre) e lo spettro del fallimento. Lo stesso atteggiamento che nelle sue memorie spesso lo spinge a soffermarsi maggiormente sulle opere di compromesso (Persiane chiuse, La tratta delle bianche) e sugli insuccessi commerciali (La finestra sul Luna Park, A cavallo della tigre), che non sui capolavori indiscussi (Tutti a casa, Lo scopone scientifico); e che nel film trova eco in una celebre frase presa a prestito da Beckett (“Sempre tentato. Sempre fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio”) e nel ricordo toccante di una lettera spedita il 22 maggio 1948 all’amico e co-sceneggiatore Aldo Buzzi, all’indomani della postproduzione dello sfortunato lungometraggio d’esordio, Proibito rubare: “Caro Aldo, [...] sono molto triste perché forse mi accorgo che di tutti i mestieri che ho tentato sempre con successo, quello del regista è l’unico nel quale non riesca”. 

Certo, se il ritratto dell’artista da vecchio è spesso straordinario, ad apparire talvolta un po’ sfocato e troppo programmatico è paradossalmente il ritratto (l’autoritratto) della regista da giovane, fortunatamente riscattato in pieno dall’ottima prova di Romana Maggiora Vergano; così come leggermente fuori fuoco e fuori tono è la ricostruzione storica degli anni di piombo (con tanto di richiamo intertestuale: Gifuni come Comencini e al tempo stesso come il Moro di Romanzo di una strage e di Esterno notte). Quanto alle repentine virate nel fantastico-visionario (il finale a Napoli, che sembra rifarsi a Miracolo a Milano, ma con le memorabili musiche composte da Fiorenzo Carpi per il solito Pinocchio), risentono un po’ troppo dei limiti del budget, e rischiano, con i loro effetti in CGI non proprio all'altezza, di essere le cadute più discutibili in un'opera altrove ammirevole per delicatezza ed equilibrio. Peccati veniali, sia ben chiaro, soprattutto per un film che dichiaratamente si pone all’insegna del motto “Prima la vita, poi il cinema”: come a dire che le cose davvero importanti stanno altrove, e il cinema è un oggetto molto più effimero di quanto normalmente si creda. 

“Il cinema, secondo me, è nato come un carro raccogli-rifiuti”, ha detto Comencini in una conversazione con un’altra figlia, Cristina. “Il cinema non è autonomo dal gusto contemporaneo, dalle intromissioni di altre arti, di altre culture. Si porta dietro uno strascico di robaccia. […] Quando penso al cinema, mi viene in mente un bambino che gioca nella spazzatura e trova all’improvviso una biglia meravigliosa. Allora dice: ‘Guarda papà che bello, guarda cosa ho trovato!’. Così è il cinema: mostra ciò che trova”. 

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