Una resistenza intima: Io sono ancora qui
C’è un’urgenza tutta contemporanea in un lavoro basato sul valore del ricordo come Io sono ancora qui, premiato con l’Oscar al Miglior Film Internazionale all’ultima edizione degli Academy Awards. Pare un paradosso, in realtà è solo lo spessore progressista della Storia che s’insinua in una vicenda che abbiamo visto più volte nelle cinematografie argentine e cilene, pronte a fare ripetutamente i conti con il proprio passato, meno in Brasile. Sarà anche per la congiuntura che ha voluto che il film fosse ultimato nello stesso momento in cui i sostenitori di Jair Bolsonaro stavano preparando un colpo di Stato dopo la sconfitta elettorale del 2022, l’ennesimo golpe di un paese la cui alternanza politica si è espressa spesso in questi termini, ma nel ritorno alla fiction di Walter Salles dopo dodici anni (da On the Road) è evidente lo scopo di fissare lungo i binari tortuosi e non sempre limpidi della memoria un momento delicato della storia recente del Brasile. Che poi questo momento si sia attualizzato nel tentativo di boicottaggio dell’estrema destra contro il film alla sua uscita non ha fatto altro che giovare agli incassi, mai così alti per il mercato brasiliano dopo la pandemia. Il periodo che Salles mette a fuoco è l’inizio degli anni Settanta, durante la presidenza di Emílio Médici, probabilmente il periodo peggiore della giunta militare 1964-1985, quello che esacerbò maggiormente la repressione fascista contro gli oppositori del regime.
Tra questi c’era anche Rubens Paiva, che scelse volontariamente l’esilio quando il colpo di Stato depose il governo laburista di João Goulart, per poi tornare, sei anni dopo, insieme alla moglie Eunice e i cinque figli, tra cui l’unico maschio, Marcelo, dalle cui memorie la storia è tratta. Rubens fu prelevato dalla polizia politica nel gennaio del 1970 per essere interrogato e non tornò mai più a casa, accusato di essere un fiancheggiatore del terrorismo. In una vicenda che malgrado la differente ambientazione (là irlandese) ricorda molto da vicino il bellissimo romanzo di Paul Lynch, Il canto del profeta, pubblicato lo scorso anno, Salles racconta il vuoto e la sospensione seguiti alla scomparsa di Rubens Paiva colmandoli con una regia attenta al dosaggio di ambienti e volumi e calibrando la messa in scena sull’interpretazione di Fernanda Torres nei panni della moglie Eunice, meritata candidata all’Oscar (così come lo fu la madre, Fernanda Montenegro, l’eroina di Central do Brasil, che qua interpreta Eunice ottantenne). Perfettamente consapevole che non ci può essere consapevolezza del presente senza la memoria critica del passato, soprattutto se si attraversano periodi di riscrittura revisionista, Salles realizza fissa i cardini del suo progetto sull’importanza della memoria e sul coraggio di sottrarla al limbo di una società che intende rimuovere il trauma per garantirsi un comodo futuro.

Tutta la narrazione ruota intorno al personaggio di Eunice. Lungo la superficie della storia è in lei che si incarna il valore del ricordo, attraverso la sua opera di ricostruzione e nella rincorsa al riconoscimento della giustizia (una volta raggiunta la consapevolezza di essere rimasta vedova, si laureerà in giurisprudenza all’età di 48 anni). Ma Io sono ancora qui, come anche il titolo fa intuire, non è un thriller sulla ricerca processuale di una verità: è un film sulla resistenza intima, quella che da qualche anno (diciamo dopo il lockdown) si è uniformata nel termine resilienza; un film sul coraggioso tentativo di ovviare a un vuoto, non di motivarlo con le sue ragioni. E su questo aspetto la regia di Salles insiste, generando una parabola di progressivo prosciugamento della messa in scena e di conseguente mutamento dei toni e delle gradazioni estetiche. Se infatti all’inizio le scene sono organizzate su piani pieni di personaggi, dai colori caldi, resi ancora più pastosi dalla scelta tutta settantesca di utilizzare la pellicola a 35 mm, con una macchina da presa talmente mobile da coreografare l’armonia delle movimentate situazioni familiari, dal momento del prelevamento di Rubens da parte della polizia politica, la tendenza cambia radicalmente. Non deborda più, si dissecca e si normalizza, in qualche modo si oscura. La presenza degli agenti in casa fa calare il silenzio e l’opacità sull’abitazione, le inquadrature diventano stabili, i tagli del montaggio sostituiscono l’anarchica fluidità immediatamente precedente.
La situazione si radicalizza nel momento in cui anche Eunice e la figlia Eliana vengono forzatamente condotte in caserma per essere interrogate: le pareti si scuriscono, le inquadrature si restringono diventando claustrofobiche, addirittura asfissianti nella cella, dove il volto di Eunice stesa sulla branda è compresso dal margine superiore dell’inquadratura. Una traduzione plastica dell’oppressione che successivamente, quando la donna torna a casa, assume la forma di un crescente svuotamento, di densità, di personaggi in scena, di atmosfere spaziali, fino all’icasticità di osservare la casa di Rio de Janeiro, prima del trasferimento a San Paolo, completamente vuota, priva di mobili, di persone, persino di anima. Prima della partenza, Eunice deve trovare la figlia Eliana, che si oppone al trasferimento: la trova in spiaggia a osservare il mare, ferma e immobile, vista in un desolante campo lungo. Quello stesso tratto di spiaggia che poco prima della sparizione di Rubens si animava di amici e sorrisi in una foto di gruppo dall’acre sapore di ultimo momento di gioia. Per un confronto impietoso tra il prima e il dopo tramite la riproposizione di identici codici visivi.

È il modo con cui Salles rende espressivo il vuoto familiare. Non il lutto, perché della morte non v’è certezza (l’ufficialità arriverà solo venticinque anni dopo, ma senza il ritrovamento del corpo), ma la sua forma intermedia, limbica, quella che obbliga a dedurre l’assenza definitiva senza averne la conferma. Una sorta di condanna che esclude la speranza obbligando comunque all’attesa. Io sono ancora qui è infatti un film popolato da fantasmi. È la loro essenza – non solo quella di Rubens, anche quella dei giorni felici, dell’innocenza non ancora perduta, dell’unità familiare – ad animare la memoria, che, nel caso di Eunice e della tenacia con cui insegue le risposte, è sospensione lungo l’eternità. Salles suggerisce questa essenza fugace e sfuggente attraverso la grana diafana dei Super8 che si susseguono sullo schermo, dapprima per condividere felicità e affetti, poi per connettersi con la figlia Veroca trasferita a Londra, infine per rievocare i momenti felici che non sarebbero più tornati. I primi piani di Rubens, proposto come padre paziente, bonario, affettuoso e comprensivo, sono l’emblema della perdita, di un’assenza incolmabile che grava sulla cattiva coscienza di un intero paese e che ritorna più volte nella funzione identica rappresentata dalle fotografie che i personaggi guardano, scattano e ricercano lungo tutta la durata del film per fornirle ai giornali e permettere che se ne parli anche a distanza di tempo. Ed è ancora una foto che, altrettanto emblematicamente, risveglia per un attimo dal suo torpore Eunice ormai anziana e affetta dall’Alzheimer: il suo sguardo verso lo schermo per sussurrare il nome del marito non è solo uno dei momenti più commoventi, ma è anche – e forse soprattutto – l’invito simbolico al pubblico (brasiliano, ma non solo) a far comunque emergere dall’oblio le colpe di uno Stato che non ha mai voluto riconoscere pubblicamente le sue responsabilità.
I simboli e le azioni emblematiche in Io sono ancora qui si susseguono, nonostante Salles le occulti abilmente integrandole nel tessuto del racconto come momenti naturali, consequenziali rispetto all’improvvisa drammatizzazione della realtà. Merito anche di una sceneggiatura (di Murilo Hauser e Heitor Lorega) organizzata fin nei più riposti dettagli, al punto da fornire alcune indicazioni a margine delle situazioni per rendere più chiaro ed espressivo l’assunto. Niente è escluso, perché il campionario è vario e articolato: riguarda luoghi, come il tunnel in cui la figlia di Rubens ed Eunice, Veroca, è fermata dal posto di blocco dell’esercito e che allude al vicolo cieco cui versa il Paese; presenze, come il randagio trovato in spiaggia e subito adottato per sottintendere l’elevato grado di accoglienza dei Paiva; arredi, come la porta scorrevole con cui si palesano i poliziotti nella residenza di famiglia, per significare la sliding door che da un momento all’altro muta inaspettatamente gli equilibri. Oppure il rimando costante al soufflé come madeleine proustiana, che dopo essere stato evocato come atto mancato (è il piatto che Rubens lasciando l’abitazione con la polizia assicura che avrebbe mangiato una volta tornato) oltrepassa gli anni e ritorna al ritrovo di famiglia, trentatré anni dopo la scomparsa del padre.

E su tutto l’acqua del mare, usata con un contrasto antifrastico che sintetizza l’intera anima brasiliana dell’epoca, con l’Oceano a pochi passi da casa, mentre su di esso volteggiano gli elicotteri e oltre la spiaggia passano le camionette dei battaglioni che garantiscono l’ordine contro le pretese democratiche. Un Eden imbarbarito e corrotto, di cui Eunice, fin dalla prima inquadratura del film, è attenta testimone, pronta a registrare ogni aspetto per comprenderne la natura. È attraverso i suoi occhi, tramite le sue soggettive che lo spettatore nota quei piccoli grandi segnali di cortocircuito che si inseriscono nelle pieghe di una spensieratezza familiare ancora ignara di cosa succederà. Basterebbe dare un’occhiata alla locandina del film per comprendere le intenzioni espressive di Salles, con Eunice che guarda altrove mentre i famigliari sorridono allegri verso l’obiettivo. Lo spazio oltre, fuoricampo, è ciò che differenzia Eunice da ogni altro personaggio e la rende protagonista di un percorso di visione preventiva, di comprensione e conservazione della memoria.
Eppure, questa attenta costruzione da parte di Salles non sarebbe così intensa sul piano drammatico senza l’interpretazione magistrale di Fernanda Torres. Eunice mostra una forza che va al di là del personaggio e che è soprattutto attoriale: insieme al progressivo prosciugamento di ogni entusiasmo in un ambito familiare così differente dopo la scomparsa di Rubens, sul suo volto si dipinge una complessa tavolozza di espressioni che è duplice lavoro di finzione, rispetto al copione del film e nei confronti dei figli, davanti ai quali nasconde il turbamento, la sofferenza, la crescente consapevolezza di un vuoto che giorno dopo giorno apre una voragine dentro di sé. Che da un lato consuma, dall’altro è l’alimento per chiudersi a riccio e difendere istintivamente ciò che è rimasto.
