Grand Tour. Invito al viaggio

2 Gennaio 2025

Il cinema di Miguel Gomes, da sempre, sfida le convenzioni e punta dichiaratamente a essere inclassificabile. I suoi film sono piccole gemme che sbocciano da situazioni improbabili e si trasformano progressivamente in qualcos’altro di completamente differente, a volte diametralmente opposto rispetto alle ipotesi di partenza. Impossibile una definizione. Neanche quella di cinema d’autore, ampia e troppo spesso di comodo, quando i principi strutturali non tornano o le costanti visive e narrative si susseguono. Il problema non si ferma all’etichetta, perché Gomes è indubbiamente uno degli autori europei più interessanti dell’ultimo decennio, ma alla sua reale essenza. Le storie di Gomes sono un magma di immagini che travolgono lo spettatore, sempre sul filo di un paradosso che ricorda molto da vicino alcuni tratti del realismo magico latino-americano; travolgono prive di una struttura apparente, pur possedendo un loro intimo rigore. Un rigore che è tutto narrativo. Con molta probabilità è questa la prospettiva privilegiata da cui bisogna assumere i suoi film: riconoscerne la spontanea capacità di includere qualunque elemento all’interno delle storie per convertirlo in materia narrativa. Anche Grand Tour, il suo sesto film, uscito sugli schermi italiani lo scorso 5 dicembre dopo la partecipazione all’ultimo Festival di Cannes, dove ha vinto il premio per la miglior regia, è un autentico manifesto delle potenzialità della narrazione. Così come il film che nel 2012 lo ha posto all’attenzione della critica, Tabu. E come anche il complesso trittico As mil e uma noites, capace di fondere la serialità fiabesca della leggendaria Shahrazāde con i problemi sociali ed economici del Portogallo del primo quindicennio del Nuovo millennio.

Ambientato nel 1918, Grand Tour racconta il viaggio reciproco di due fidanzati di lunga data. Quando la ragazza, Molly (Crista Alfaiate), annuncia il suo imminente arrivo in quel di Rangoon, Birmania, dopo sette anni di separazione, l’uomo, Edward (Gonçalo Waddington), funzionario dell’Impero britannico, preso dal panico, inizia una fuga che lo condurrà lungo un ironico tour dell’Asia, sempre tallonato dalla caparbia fidanzata, tra Singapore, Bangkok, Saigon, Manila, Osaka, Shanghai e l’entroterra cinese; tour che capovolge la tendenza in voga tra i giovani rampolli della buona borghesia europea tra fine Ottocento e inizio Novecento. Il pretesto si origina da uno spunto accennato in due paginette del diario di viaggio di un fine narratore come W. Somerset Maugham, Il signore in salotto, in cui si racconta un aneddoto simile. Due sole paginette, nelle mani di Gomes e della sua abituale sceneggiatrice (e moglie) Maureen Fazendeiro (a cui il film è anche dedicato), diventano per superfetazione un racconto stupefacente che affonda le radici nel contesto esotico di un passato coloniale (qua inglese), si alimenta con una serie di suggestioni cinematografiche sedimentate nell’inconscio del regista e riaffioranti come impulsi e si sostanzia attraverso una successione di eventi e incontri che forniscono la misura del vero significato, metaforico, del film e del modo di concepire le storie da parte del regista. Grand Tour, infatti, è girato con una sceneggiatura in progress, addensando episodi e personaggi lungo uno sviluppo che è, per Gomes e i suoi collaboratori (con Maureen Fazeindeiro anche Mariana Ricardo, Telmo Churro e Babu Targino), itinerario di scoperta e disposizione all’eventualità della sorpresa. Il mondo si rivela davanti alla troupe e la troupe lo riprende, è un principio molto elementare. Meno elementare è il fatto che quello stesso mondo rivelato venga organizzato, montato e sistematizzato lungo i vari momenti del film per creare risonanze e consonanze con le vicende, con le azioni, con le aspirazioni e gli stati d’animo dei personaggi.

Nel film di Gomes le scene riprese dal vero si integrano perfettamente nel racconto con i momenti di fiction: le une sono girate perlustrando i luoghi in cui poi si sarebbe svolta la storia, gli altri sono stati realizzati in teatro di posa a Roma e a Lisbona, in mezzo a scenari forestali ricostruiti. In una riflessione canonica, si dovrebbe parlare di punto di confluenza tra documentario e finzione, di docufiction, come se si trattasse di un discorso da tassonomizzare necessariamente, ma nel caso di Gomes e non solo di Grand Tour (basterebbe osservare, ad esempio, la grazia con cui il primo volume di As mil e uma noites passa dalle rivendicazioni dei portuali portoghesi alla cornice persiana), è cinema in senso esteso, è culto dell’immagine che si fa senso con la sua sola presenza, ritagliata da un insieme potenzialmente infinito. La tendenza di Gomes è però inversa: l’immagine catturata durante il percorso della troupe per cercare le opportune locations del film è il punto di partenza che crea il significato, non il frutto di una paziente ricerca per inserire la tessera mancante in un discorso progettato a tavolino. Le immagini riprese dal vero, infatti, illustrano un mondo lontano e sono state scelte unicamente per la loro bellezza, unicità e particolarità. Come la ruota panoramica azionata a mano dei minuti iniziali, che in una ricerca ostinata di sovrassenso critico potrebbe essere associata alla ruota sulla quale Shahrazāde e il padre dialogano nel volume 2 di As mil e uma noites, ma che in realtà compare in Grand Tour solo per la sua stessa esistenza nel contesto da cui è tratta, non per altro. Ciò che propone Gomes è quanto di più vicino a ciò che sosteneva Susan Sontag in Contro l’interpretazione, ossia ambire a un’erotica dell’arte, non a un’ermeneutica. Il principio adottato è la pura jouissance, il godimento dei sensi, al punto che alcune sequenze sono proposte a colori solo perché il bianco e nero con cui è girato il resto del film non avrebbe reso sul piano spettacolare.

In questo modo, Grand Tour attraversa i luoghi e le epoche, gli spazi e i tempi, fondendo insieme presente e passato, scene ambientate nel 1918 con la contemporaneità delle riprese documentarie, rendendo l’anacronismo il principale sintomo di una convenzione metanarrativa accettata come naturale dallo spettatore, poiché il senso di straniamento è costantemente sollecitato, indotto, come se fosse il requisito fondamentale per integrarsi in questa particolare poetica. Che ha delle costanti ed è ormai perfettamente riconoscibile, perlomeno tra il pubblico cinefilo dei festival. Ad esempio, per citare una delle più evidenti, l’utilizzo della voce narrante che accompagna le sequenze dal vero e che crea un raccordo con la finzione attraverso un commento disgiuntivo, completamente slegato da ciò che mostrano le immagini. Lo scopo è, ancora una volta, evidenziare l’atto stesso del narrare, isolandolo rispetto alla consequenzialità delle scene su cui si fissa, scindendone portata e funzione.

Oppure, per citarne un’altra altrettanto evidente, la tendenza a dicotomizzare nettamente il discorso, così come si era già visto in Tabu, quando Gomes aveva diviso la storia tra l’attesa della morte di un’anziana e il flashback dell’indimenticabile storia d’amore vissuta dalla stessa donna da giovane. Laddove un normale racconto filmico avrebbe intrecciato le vicende del personaggio inseguito, alternandole a quelle dell’inseguitrice, perlomeno per suscitare la ovvia e necessaria tensione narrativa, Grand Tour espone invece le singole esperienze proponendo prima l’una e poi l’altra, negando qualunque principio di montaggio analitico, malgrado si svolgano in parallelo. Il confronto è tra due prospettive, la fuga codarda e senza speranza di Edward e la caccia caparbia e fideistica di Molly. Diversi i toni e la progressione (la parte dedicata a Edward è prima trafelata, poi tende al malinconico; quella di Molly inizialmente più scanzonata, con la sua risata grottesca e beffarda, poi sempre più cupa), totalmente opposto il criterio di condivisione con lo spettatore della parziale consapevolezza dei personaggi, pur tendendo entrambi a un punto culminante particolarmente drammatico. Il confronto, piuttosto che l’intreccio, predispone per di più al ribaltamento delle convinzioni e ancora una volta gioca con lo spettatore, questa volta in funzione dei criteri di focalizzazione, ossia del rapporto intercorrente tra le informazioni di cui gode il personaggio e quelle delle quali invece è a conoscenza il pubblico. 

La prospettiva esterna di Edward, in assenza di qualunque notizia su Molly, solo evocata, ma assente dal film fino all’inizio della seconda parte, rende vivo il gioco delle supposizioni su quale figura ossessiva e particolarmente fastidiosa possa determinare una fuga così precipitosa di paese in paese, patendo un incidente ferroviario e sfidando persino l’ingresso da clandestino in Giappone pur di non essere scovato. Ma Molly, che esordisce sullo schermo con una sonora risata, è figura che nelle intenzioni di Gomes va oltre le supposizioni, perché il suo regno appartiene al simbolico. Molly, infatti, è dapprima la causa scatenante del racconto, poi, da quando compare sullo schermo, con la sua azione che non conosce pause né dubbi, rende chiara la metafora di motore della narrazione che incarna. L’azione da lei compiuta non è praticamente mai logica, è esclusivamente un puro tendere verso l’obiettivo, a sprezzo del pericolo e privo di qualunque pausa, di qualunque momento morto che non sia l’incedere verso lo scopo dichiarato. Molly è ben più di un personaggio, è l’astrazione con cui Gomes rappresenta l’allegoria della narrazione, attraverso la cui ottica nulla è impossibile e tutto si lega, presente e passato, verità e finzione, tonalità da Katherine Hepburn postmoderna e finale da tragico mélo. È una personificazione, così come lo era la Shahrazāde della trilogia As mil e uma noites oppure l’anziano Gian Luca Ventura in Tabu, ed è un capitolo ulteriore in quella ricerca sui confini possibili della rappresentazione che Gomes sviluppa in ogni film, con quel consueto distacco ironico che dissimula la profondità della teoria con l’apparenza giocosa di un appagamento dei sensi.

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