M - la serie: l’eccezione e la svolta
La narrativa italiana ha un problema con la Storia contemporanea, un problema che è ancora più accentuato se si restringe il discorso al cinema. Salvo rare eccezioni, la rielaborazione in forma di racconto di alcune pagine della nostra storia recente è problematica e posta sempre all’interno di un perimetro di sicurezza che, azzerando i rischi, elimina con essi anche qualsiasi elemento provocatorio, catartico e di pensiero. La messa in racconto o messa in scena, insomma, di molti passaggi chiave delle vicende italiane degli ultimi 150 anni viene sempre operata con una cautela che appiattisce ogni tipo di discorso articolato e i molti possibili incastri con il presente. Facciamo l’esempio del Risorgimento al cinema. Tolti i noti esempi viscontiani e poco altro, uno scrigno di storie e personaggi straordinari come il processo asimmetrico che portò all’Unità d’Italia è – nella migliore delle ipotesi – trascurato, se non svilito e ridotto a stereotipo, come nel recente caso di L’abbaglio di Roberto Andò.
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M – il figlio del secolo è in questo senso un’eccezione e forse un punto di svolta. È in qualche modo eccezionale la stessa scelta di affrontare in modo diretto e coraggioso il tabù del Ventennio e soprattutto del suo tragico protagonista, il Duce, condensando tutto il potenziale drammatico dell’ora più buia della storia italiana del XX secolo in una messinscena che prova a proporne un immaginario “nuovo”. In questo modo il racconto del fascismo si stacca dalla forma del saggio storico e dalla cronaca, in un prodotto che osa prendersi la libertà di assumere un punto di vista che permetta di rendere davvero attuale un discorso sul Ventennio. Il bel libro di Scurati, il primo della tetralogia dedicata al Fascismo, riusciva in questa operazione attraverso un mosaico di testi in cui si alternavano la ricostruzione storica dei documenti e l’invenzione dello scrittore, tradotta in una scrittura densa, ironica, coraggiosa. Gli sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino, insieme al regista inglese Joe Wright, supportati dalla produzione decisamente coraggiosa di Sky, si prendono dei rischi ancora maggiori. Non è un caso che la serie abbia spaccato l’opinione pubblica in modo trasversale, ricevendo critiche e incontrando perplessità incandescenti da destra e da sinistra, soprattutto per la “forma” del racconto, peraltro in un contesto in cui la ricezione della cultura assume sempre più spesso i contorni dello scontro tra fazioni e tifoserie.
Il punto centrale che si intravede tanto nelle otto puntate di M quanto nel libro di Scurati – entrambi coprono l’arco cronologico che va dalla fondazione dei fasci di combattimento del 1919 alle leggi fascistissime del 1925 – è che il passato che la serie ci racconta è cristallizzato in una sorta di eterno presente che giunge in modo sinistro fino a noi. Non perché il fascismo, inteso come movimento politico, sia ancora vivo, ma perché a essere assolutamente intorno a noi, come un liquido in cui siamo immersi, è la nostra fascinazione per l’uomo forte che, ancora prima di imporre, semplifica e banalizza la complessità, la riduce a categorie dozzinali e si pone come salvatore della patria, rapidamente osannato quanto apparentemente ripudiato e archiviato. Il Mussolini di Marinelli, che è “come le bestie, sente il tempo che viene”, ha il talento populista di chi intercetta la pancia delle folle, vi si adegua, vi si sdraia e la nutre, simbolo di qualcosa di orrendamente intrinseco alla nostra società, l’ipocrisia borghese di chi vede nel popolo un mero strumento per ottenere la conservazione dei propri privilegi. La serie utilizza l’espediente della rottura della quarta parete, di cui tanto si è discusso, con quell’insistente parlare in camera del Duce, proprio come elemento di rottura: M parla a noi in quanto suoi complici, ci mette nella posizione scomoda dei suoi confidenti, il suo flusso di coscienza ci contagia, ci riguarda, ci mette in discussione. Oltre allo sguardo in camera, per dare forma al racconto di questa immane tragedia, la messinscena di Wright si serve di altri strumenti retorici dirompenti, soprattutto elementi teatrali di impianto brechtiano, che determinano una sensazione profonda di straniamento, ma anche elementi futuristi che colgono perfettamente lo spirito del tempo.
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Il corpo di Marinelli è altro elemento testuale fortissimo della serie, un corpo che non è mai mimetico, ma è simbolico e parlante. La sua versione di Mussolini è quanto di più distante da un’imitazione si possa pensare, opportunamente costruita “a posteriori”, dall’oggi, un lavoro che si appropria di “pezzi”, gesti e segni che rimandano ad altri personaggi della storia più o meno recenti, decisamente successivi al Duce, che ne hanno riproposto sotto forme differenti, più ipocritamente digeribili, la stessa violenta logica di sopraffazione e la stessa liquidità ideologica. È un corpo prismatico, che ha molte facce e molti volti, molti disgustosi, altri grotteschi, alcuni tragicamente seducenti.
M – il figlio del secolo ritrae due aspetti in modo impietoso. Il primo è la connivenza del sistema, che va al di là dell’incapacità e dell’inettitudine della classe politica del tempo e di Vittorio Emanuele III che ci viene scolasticamente tramandata. Il fascismo è una soluzione di comodo per molti attori dello scenario politico, lo è per la borghesia, lo è per un pezzo della politica, lo è per la Chiesa, lo è per la monarchia. Mussolini è il diavolo con cui fare il patto, che si sporca le mani al posto degli altri. Il secondo elemento è la rappresentazione dei fascisti, delle camicie nere. Teppisti, delinquenti, sicari, vengono ritratti con uno sguardo da gangster movie, non politici quindi, ma criminali e assassini, non un partito o un movimento, ma una vera banda criminale che ha nel Duce il suo Al Capone e negli arditi – prima reclutati dallo stato per vincere la Prima guerra mondiale e poi scaricati nelle fogne della società post bellica – il monstrum che ritorna dalla rimozione cui era stato confinato.
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Tre personaggi chiave, intorno a Mussolini, completano la struttura di un’opera che può tranquillamente candidarsi a essere la serie più importante realizzata in Italia fino a questo momento (anche per il poderoso costo di produzione, 49 milioni di euro, un budget da kolossal). Il primo è Cesarino Rossi (Francesco Russo), consigliere e braccio destro di Mussolini, manipolato e manipolatore, scaricato e sacrificato sull’altare dell’immondo delitto Matteotti. Poi c’è Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli), magnificamente raccontata lungo due prospettive narrative: innanzitutto quello di donna sfruttata e svuotata dal violento machismo del Duce, patriarca bambino dal narcisismo feroce; la seconda è quella della borghese dei salotti colti, attratta dalla bestialità del selvaggio, pronta ad amarlo, ma anche a umiliarlo negli ambienti futuristi. Infine Rachele Guidi Mussolini (Benedetta Cimatti), la figura più tragica della storia, opposta a Margherita Sarfatti, destinata però allo stesso tragico e infelice destino, che accomuna anche le altre donne della serie. Umiliata, schiacciata, ferita, al personaggio di Rachele è affidato il compito di ribadire come l’annientamento della femminilità sia elemento intrinseco a ogni forma di fascismo, da quello “originale” a quelli più moderni (Make Italy Great Again, dice Mussolini guardando in camera).
Sono solo alcuni degli elementi rilevanti di questa serie che fa del grottesco la sua cifra più riconoscibile, che mette tutto sopra le righe, ribadendo che le più grandi tragedie della storia sono avvenute e avvengono perché talvolta scambiate per farsa, con cui condividono alcuni elementi, e non prese sul serio. Avvengono soprattutto con la complicità di chi vive facendo l’equilibrista per la conservazione i propri privilegi, come la Chiesa di Pio XI e come il parlamento di Giolitti e del “cagoia” Nitti. In fin dei conti, come noi, perennemente indignati, ma al sicuro dentro la nostra zona d’interesse.
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