Emilia Pérez contro Donald Trump

6 Febbraio 2025

Caro Doppiozero,

nei tempi in cui anche i sacerdoti si riproducono nel saluto nazi-Star Trek di Elon Musk (Calvin Robinson, cui per fortuna è stata revocata la “licenza” sacerdotale), sento il bisogno di spiegare perché Emilia Pérez è un film importante.

La trama è presto detta e potrebbe apparire grottesca, ma se le guardi al setaccio, anche le nostre vite per molti aspetti lo sono. Si tratta della storia del re dei narcotrafficanti messicani, Manitas Del Monte (Karla Sofía Gascón), che vuole cambiare sesso e dileguarsi dalla società. Per farlo ha bisogno di un tramite operativo e legale che trova nella giovane avvocatessa Rita (Zoe Saldaña), di umili origini, quindi una sua potenziale vittima, perché è su questo che si basa la vita di Manitas: sfruttare e uccidere i più deboli. Dopo la transizione, sotto il nome di Emilia Pérez, l’ex narcotrafficante capisce che con l’immensità del suo denaro sporco può aiutare tutti coloro che ha sempre oppresso a sperare in una vita dignitosa.

Ora ti indico i motivi per cui questo film, a mio parere, è importante: 

1) Partiamo da quello cinematografico. Allo scorso festival di Cannes, dopo alcuni giorni di proiezioni di amabili compitini, tutti a modino e politically correct, sono saltata sulla sedia trovandomi davanti a qualcosa di completamente inaspettato, originale, sincero. Un fuori classe vero: mutevolmente noir, melodramma, commedia, telenovela e gangster movie. Jacques Audiard, a 72 anni, ha imbastito un film che mi sarei aspettata da un ventenne.

2) Ha il grande valore politico di essere un musical (genere che io non amo particolarmente, nemmeno il veneratissimo La La Land) che vede la gente comune protagonista, quella con tatuaggi alla buona, facce piene di rughe e fisici appesantiti. Il film, infatti, inizia in un mercato rionale e, quando entra nel vivo, mostra che a essere davvero importante è la comunità, che prende corpo in tanti medaglioni sul lenzuolo dello schermo nero. Tanti ovali cantano la sopraffazione, la fatica, la sopravvivenza, la dignità. Se la collettività fosse glorificata così al cinema, come accadeva in fondo nella Commedia all’italiana, non ci sarebbe l’escalation di idiozie sui social, con protagonismi da saltimbanchi, perché in una società matura anche il cinema deve fare la sua parte: consolare, divertire, ma anche dare voce a una coralità che si sente presa in considerazione come corpo unico, rappresentata nel bene e nel male, nei pregi e nei difetti.

3) La Commedia all’italiana parlava di tragicità più che reali, ma lo faceva divertendosi e divertendoci. Emilia Pérez denuncia la condizione di molti Paesi dell’America latina, sotto lo scacco della delinquenza più feroce e della collusione della mala con i poteri forti. Nello stesso tempo, sa giocare con le coreografie di Damien Jalet, tra chirurghi plastici e karaoke. Quando però Rita danza tra i tavoli della cena di gala, con la canzone El Mal – che ha vinto il Golden Globe –, vestita di rosso come il sangue delle tante vittime, parla di corruzione ed è più trascinante di un rap. Miren al juez Santos/Mírenlo, no le importa nada/Solo los niños/Los narcos los matan a tiros/Los llevan afuera de todos sus pueblos natales/A cambio de eso, Santos reduce los juicios a falta de pruebas (Guardate il giudice Santos,/Guardatelo, non gli importa nulla./Solo dei bambini./I narcos li ammazzano a colpi di pistola,/Li portano fuori dai loro paesi natali./In cambio di questo,/ Santos riduce i processi per mancanza di prove).

4) Mi collego alla lingua di queste strofe per continuare a parlare di responsabilità dell’arte. Emilia Pérez assume la nobiltà di una grande opera contemporanea con parole felici, senza jingle facilmente cantabili. È rapinoso perché vero. Quando il mercato balla, non canta versi caramellosi, ma si esprime con parole dense di significato nei testi di Camille e Clément Ducol. “Se compran/Colchones/Tambores/ Refrigeradores…  Se compran/ Se compran… No se compra/Mi cuerpo/Mi alma/No se compra”… I negozianti cantano ciò che si può acquistare – materassi, batterie, frigoriferi –, ma sono fermi: non il corpo e l’anima. Quando i figli di Manitas si ritrovano ad essere orfani perché il padre, nel segreto di quanto è successo, sceglie di essere morto per il resto del mondo, ecco che la figlia riabbracciandolo sotto le vesti e l’identità nuove di Emilia Pérez, una zia piombata dal nulla, sente una familiarità. E quando prende a cantare, in sussurrato, come capita a tanti altri personaggi, non esprime concetti aerei sull’amore filiale, ma parla di cose terrenissime, come l’odore, che mancano quando una persona cara scompare. La bambina ritrova nella zia l’odore della pelle del padre, che le ricorda quello del cuoio, dell’hierbabuena, del mangiare piccante, dell’olio del motore e del sudore.

5) Questo miracolo è possibile anche perché tutto avviene in spagnolo, una lingua più che corporea, sin dal semplice “Mi dispiace” che si esprime in un “Lo siento”, una compartecipazione fisica. Perché è di corpo che parla il film, di quanto la coerenza tra identità e fisico possano cambiare la vita di una persona. Ma anche noi potremmo esprimerci nello stesso senso. Non dobbiamo tornare a Verdi per sentire che abbiamo ancora la capacità di interpretare il nostro Paese, o, meglio ancora, questa grande globalità connessa. La recente tradizione del cantautorato italiano ha raccontato le nostre pecche, ma con la poesia di una lingua che sa essere dolcissima e affilata. Ci ricordiamo di come De André riuscì a spiegare l’insensatezza della guerra in poche strofe?: “ E mentre marciavi con l'anima in spalle/Vedesti un uomo in fondo alla valle/Che aveva il tuo stesso identico umore/Ma la divisa di un altro colore”. O come Guccini seppe raccontare la rivoluzione sociale e dei costumi del '68 in Eskimo?: “Portavo una coscienza immacolata/che tu tendevi a uccidere però/ inutilmente ti ci sei provata/con foto di famiglia o paleto'”. “Le piazze sono vuote/Le piazze sono mute/ Per combattere l'acne/Sono tutti in ferie”, canta Vasco Brondi in Per combattere l’acne, piccolo manifesto del nostro disimpegno. Possiamo ancora essere capaci di dare “corpo” a una società attraverso le parole.

6) Emilia Pérez non fa del Male un cliché fascinoso, come nei film sulla mafia in cui arrivi ad affezionarti al boss. Non ha come protagonista un’eroina o un eroe inarrivabile. Zoe Saldaña è rampante, ma sa che non può emergere per via delle sue origini e della condizione femminile. Si suppone che se Manitas fosse nato femmina non sarebbe caduto nel giro del narcotraffico e quindi non avrebbe investito la rabbia della sua dualità forzata, unita alla condizione di povertà, nel peggiore degli esiti, ovvero la violenza, le uccisioni sommarie, la brutalità più misera e facile contro gli ultimi, categoria cui per altro Manitas appartiene. Può suonare giustificazionista, ma attenzione, Emilia Pérez non scagiona mai il Male, in nessun momento. È un film sulla redenzione, ma senza alcuna empatia nei confronti dell’orrore delle pandillas, le bande armate di strada e di chi le comanda: la sceneggiatura le denuncia e le punisce. Audiard non ha mai avuto paura di avvicinarsi al Male, a quello spiccio che cammina sulle strade, come in un altro grande film, Il Profeta, film sempre attento a non rimanere abbagliato dalla parte buona dei cattivi.

7) Last but not least: Emilia Péres rende l’infinita complessità della sessualità. Manitas avrebbe voluto da sempre essere una donna, ma questo non gli impedisce di amare e aver amato una donna. Nel cammino del film questa ricerca della sessualità coerente al sé profondo, è naturale quanto è naturale la lotta di ciascuno di noi per vivere a fianco di chi amiamo, fare un lavoro per cui ci sentiamo tagliati, recuperare la nostra identità. In un’epoca in cui una delle figure politicamente più rilevanti di questo contesto politico, il presidente degli Stati Uniti, nel discorso inaugurale del suo nuovo mandato si prende la briga di dire che i sessi sono due, maschio e femmina, il cammino che mostra il film è importante. Quella dichiarazione ha dato fiato a tutti i peggiori istinti. Karla Sofía Gascón, non appena sono state rese note le nomination ai Globe e agli Oscar, è stata ricoperta di insulti sui social. E subito si è scavato nel suo passato di twitterista, ora Xista, per tirare fuori vecchi post contro cinesi e l'Islam di cui per fortuna si è scusata, cancellandosi da X, cosa che dovrebbero fare tutti, almeno dopo il saluto nazi. Sono ottimista che sulla sessualità non si torni indietro: per fortuna i ragazzi su questo non transigono. Per loro la questione gender è importante quanto la tutela del pianeta. Ottimista su questo punto. Ma nel frattempo vecchi arnesi mal pensanti avranno il via libera di esibire sui social il proprio razzismo e il proprio estremismo, come il sacerdote, di cui ho parlato all’inizio della mia lettera, durante un raduno pro life. Questi “pii” fratelli lasciano che si spengano migliaia di vite (life) sul confine con il Messico, ma si concentrano sempre e solo contro l’aborto, per la solita vecchia storia: considerare la donna come puro strumento riproduttivo e condannarla a maternità che non vuole o che, in quel momento, non può mantenere.

L’idea di una donna che non abbia utero è quanto di più pauroso, immagino, possa esserci per il sacerdote con simpatie nazi. Anche per questo Emilia Pérez è importante: per ribadire in una società evoluta che il sesso fa parte dell’identità e non attiene alla mera riproduzione.

Vediamo se Hollywood riuscirà a premiare la prima attrice trans candidata alle statuette. Non perché è trans, ma perché è un’eccellente interprete nella recitazione e nella modulazione dei brani nel suo registro sussurrato o crudele, ma consono alla situazione e alla sua corporeità vocale. C’è il rischio che l’Oscar vada a Thimotée Chalamet per premiare l’unico eroe che rimanga ancora agli USA, quel furbacchione di Bob Dylan, cantautore eccelso e poeta, che però ha ceduto alla vanità di manipolare, senza metterci una lira, il suo biopic, fingendo di far la fronda al sistema.

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