Il lampadario di Cortona: una visita alla mostra di Milano
Milano è un ventre dalle mille sorprese e dalle tante contraddizioni. Nel cuore di corso Venezia, davanti al planetario dei giardini Indro Montanelli, si apre il mondo etrusco della Fondazione Rovati. È un universo quasi marino, un’oasi di silenzio che protegge dal rombo delle macchine futuribili, reduci dalla passeggiata nel Quadrilatero della Moda, accanto a cui sfrecciano le bici degli ecocittadini sulla pista ciclabile. Qui ci si può inabissare nei fondali quieti del palazzo ottocentesco voluto dal Principe di Piombino e fare un viaggio nel tempo, accolti in un antro candido e arioso, dalle pareti ondulate disegnate da Mario Cucinella, che riproduce una dimora funeraria tutt’altro che triste. Un ipogeo a ricordare che per gli etruschi l’esistenza nell’aldilà era importante quanto quella terrena, per questo riposavano con gli oggetti che erano riusciti a guadagnarsi in vita: gioielli, armi, armature, sculture, ceramiche.
Quando si sale al piano nobile, passando in mezzo a un corridoio di arazzi colorati, si arriva nella morbidezza oscura in cui viene ospitato il Lampadario di Cortona: una stanza adibita solo per questo oggetto di bellezza salmastra, uscito prima di ora solo una volta, e forzatamente, dalle stanze dell’Accademia Etrusca di Cortona, e a cui tornerà dopo essersi fatto ammirare a Milano, terra di fortunati incroci. Sotto luci morbide, il Lampadario appare come l’esoscheletro di un grande insetto bronzeo, con le colorazioni che degradano dal nero al verde, in un pullulare di figure. Gli esperti fanno risalire questo capolavoro al 330 avanti Cristo. 2300 anni fa, dunque, gli uomini erano in grado di creare un’opera d’arte in un pezzo unico, fondendolo con la tecnica della cera persa.
Gli etruschi sono un popolo che studiamo fugacemente, ma hanno inventato l’arco, l’acquedotto e le fognature, la filigrana, sculture bellissime in cui le donne appaiono come creature affilate, quasi feline, nei nasi stirati, gli occhi lunghi, i riccioli di creature spaziali.
La Fondazione Rovati è un dovuto omaggio a questa civiltà, trascurata dalla zampata inarrestabile di Roma, cui gli etruschi hanno dato i primi re.
La stanza che ospita il Lampadario ha le pareti nere, come neri erano i buccheri, le ceramiche lucide, sottili e leggere, movimentate e istoriate, che gli etruschi vendevano nel Mediterraneo. Al centro vi è il Lampadario, che la Fondazione Rovati ha capovolto per osservarne meglio i motivi, mentre sui muri scuri sono stampate in bianco le rappresentazioni e le decorazioni.
Largo quanto la ruota di un piccolo carro, per un diametro di circa sessanta centimetri, pesa mezzo quintale. Serviva a rischiare probabilmente un tempio dedicato a Tinia, il padre degli dei, e portava con sé i segni della grande vitalità di questo popolo, che scriveva da destra a sinistra e, a volte, in senso contrario. Sui decori appaiono sirene alate, nella tradizione che le immaginava uccelli e non creature acquatiche. Hanno code piumate, i capelli ravviati e indossano una tunica greca. In rilievo vi sono le zampette. E poi sileni con gli zoccoli, nudi e con un grosso fallo; in mano l’aulòs e la syrinx.
Insieme queste creature reggono i sedici beccucci da cui si accendevano le fiammelle. Probabilmente gli etruschi temevano il vuoto o avevano troppa vita da raccontare e non volevano sprecare spazio. Così, sotto i sileni nuotano dei delfini e a chiudere questo girotondo vi sono le onde di un mare che fece la fortuna nei commerci: i mercanti del Mediterraneo trovavano qui stagno e ferro, mentre gli etruschi portavano ai greci e ai celti oggetti di lusso e vino.
Erano un popolo raffinato gli etruschi con miti indipendenti dalla cultura ellenica e dei vendicativi, la cui volontà era interrogata dagli aruspici e attraverso segni premonitori, come i fulmini.
Sotto al mare, quattro scene di caccia cesellate girano ancora in tondo: un cinghiale viene assalito da una pantera e da un leone, mentre un grifone e un leone azzannano un cavallo, il principale mezzo di trasporto di terra degli etruschi. E ancora, un grifone e una pantera aggrediscono un toro; e infine, un cervo soccombe sotto le grinfie di una pantera e di un leone. Sono animali comuni che vengono uccisi da quelli esotici, leggendari, di potenza incontrastabile, quasi a dire che la vita è soggetta a eventi incontrollabili, anche se gli etruschi erano tutt’altro che remissivi fatalisti: l’arte della guerra è molto celebrata e pervasiva.
La teca che protegge il lampadario ha nel fondo uno specchio, da cui si possono scorgere di taglio i piccoli busti di Acheloo, dio fiume, figlio di Oceano e di Teti, e la vasca circolare che conteneva gli olii per accendere le bocchette dalle fiammelle tremolanti. Ma qualcosa, lasciando la stanza, ci dice che il lampadario non ci ha confidato tutti i suoi segreti. Al centro, è raffigurato il viso mostruoso di una gorgone, che, coronata da serpentelli, ci mostra canini affilati e tira fuori la lingua in segno di sberleffo ai posteri.
© Il lampadario etrusco di Cortona. Daniele Portanome per Fondazione Luigi Rovati