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Trieste: lo sguardo dei Wulz

12 Marzo 2025

Lo sguardo dei Wulz su Trieste aveva la forza di un opus alchemico. Come gli antichi maghi degli alambicchi, prima Giuseppe, poi Carlo e alla fine la favolosa coppia di sorelle Wanda e Marion, sono sempre riusciti a rendere vivo, palpabile, dinamico, con le loro fotografie, il divenire della città e le sue continue trasformazioni. Creando una sorta di solve et coagula visivo da cui mettere in evidenza, poi, il contesto reale del tempo che stavano vivendo.

Attraverso l’occhio della macchina fotografica, in un periodo compreso tra il 1868 e il 1981, i Wulz hanno saputo mettere a fuoco paesaggi urbani, hanno raccontato le persone in significativi ritratti, hanno osservato i mutevoli equilibri sociali in divenire. Sono riusciti, insomma, a documentare momenti iconici della Storia. Per farla interagire, poi, con le storie minime degli anonimi protagonisti che affollavano vie e piazze. E che, spesso, sono diventati loro stessi protagonisti di racconti per immagini.

Nello studio di Palazzo Hierschel, posto al numero 9 nel centralissimo Corso di Trieste (che ha cambiato più volte nome, da Corso Vittorio Emanuele III al fascistissimo Corso Ettore Muti, fino a diventare l’attuale Corso Italia), i Wulz hanno saputo farsi sismografo della realtà. In oltre cento anni di fotografie, passando il testimone dal capostipite della dinastia Giuseppe, a suo figlio Carlo, fino ad arrivare a Wanda e Marion, hanno fissato lo sguardo sui momenti salienti dello sviluppo economico, demografico, sociale e culturale di Trieste.

Questa lunghissima storia, adesso, è sintetizzata in una mostra. Si intitola Fotografia Wulz. Trieste, la famiglia, l’atelier, è ospitata nelle sale del Magazzino delle Idee, in corso Cavour 2 a Trieste, vicino alla zona del Porto Vecchio. Curata da Antonio Giusa e Federica Muzzarelli, è promossa dall’Ente regionale per il patrimonio culturale del Friuli Venezia Giulia in collaborazione con la Alinari di Firenze. Fondazione che ha acquisito tra il 1986 e il 2007 oltre 25mila fototipi dello Studio fotografico Wulz, oltre a una gran messe di documenti, fatture, lettere, resoconti e fogli di diario.

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Marion Wulz“In guardia” - Irene Camber, Trieste, 1952, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz.

La mostra, accompagnata da un corposo e prezioso catalogo pubblicato da Silvana Editoriale, rimarrà aperta al pubblico fino al prossimo 27 aprile tutti i giorni, eccetto lunedì, dalle 11 alle 19.

Per imbarcarsi in questo viaggio nel tempo, trecento sono le possibili porte d’ingresso. Ogni fotografia, ogni negativo, ogni immagine di un passato ormai lontano, ma anche quelle più vicine al nostro tempo, insieme a documenti, oggetti, lettere, quadri conservati nell’archivio Wulz, trasformano quest’esposizione in una lentissima passeggiata, o in una corsa a perdifiato, nella Trieste che muta pelle nello scorrere dei decenni. Come un serpente pronto a liberarsi del vecchio involucro, per apparire sempre uguale eppure diversissimo.

Il primo guardiano della soglia, in questo viaggio a ritroso nel tempo, arriva a Trieste da un posto sperduto tra le montagne. Si chiama Joseph Wulz, ma i triestini ancora sudditi dell’Impero austroungarico lo ribattezzano in fretta Giuseppe. È nato nel 1843 in un posto dove si parlano tre lingue, allora al confine tra Carinzia e Carniola: italiano, tedesco e sloveno. Anzi, quattro, perché c’è anche il friulano. Infatti, ognuno lo chiama a modo suo: Cave del Predil, Raibl, Rabelj, Rabil.

Non si conosce il nome del padre di Giuseppe. Lui viene registrato all’anagrafe come figlio di Klara Wulz, che si trasferirà presto a Trieste con il bambino per sposare un carpentiere ungherese: Gabriel Nagy. E proprio nella nuova dimensione cittadina, il capostipite della grande famiglia fotografica troverà gli stimoli giusti per crescere in fretta. Tanto che, poco più che ventenne, inizierà l’apprendistato nello studio fotografico di Frederich Wilhelm Engel. Un atelier importante, tra i tanti aperti in quel periodo da dagherrotipisti, ottici e calligrafi itineranti, visto che lavora a contatto con il potente Lloyd Austriaco.

Giuseppe resterà per sempre legato al suo maestro. Tanto che quando deciderà di mettersi in proprio, dopo il violento incendio divampato nello studio fotografico di Engel, che lo costringerà ad abbandonare Trieste, Wulz lavorerà a lungo in coppia con Giuseppe Boccalini sotto la dicitura di Allievi di G. Engel.

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Marion Wulz“Alba Wiegele”, Trieste, anni Quaranta, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz.

È quello un momento di grandi trasformazioni per Trieste. La città supera, ormai, i centomila abitanti e gli Allievi di Engel vengono chiamati a partecipare con le loro fotografie all’autorappresentazione della borghesia cittadina. Così, accanto agli scorci di vie e piazze, al tracciato della ferrovia, ai teatri e ai prestigiosi palazzi in stile neoclassico, alle inquadrature che documentano i traffici di navi e di merci nel porto, cominciano ad accumularsi i ritratti di uomini e donne che, in quel momento, stanno acquisendo in società un ruolo importante.

“Per ogni famiglia borghese, in quel periodo – ha scritto Elvio Guagnini, critico e docente universitario selezionato dallo storico della letteratura Giuseppe Petronio, dalla metà degli anni Sessanta, per la formidabile scuola triestina della facoltà di Lettere e Filosofia –, l’album fotografico diventa l’angolo dei Lari e dei Penati del mondo moderno: un angolo portatile e diffondibile a costi ridotti e accessibili”.

Ma l’occhio degli Allievi di Engel si spinge anche molto più in là. E se lo studio riceve il prestigiosissimo incarico di immortalare la principessa Stefania del Belgio a Miramare, consorte di Rudolph, il figlio dell’imperatore Franz Joseph, che verrà trovato morto insieme all’amante Maria Vetsera il 30 gennaio del 1889 nel casino di caccia di Mayerling, molto spesso è lo stesso Giuseppe Wulz a portarsi in studio ballerine, popolani dei rioni triestini, zingari. Un’umanità varia che testimonia quanto il grande sviluppo della Trieste porto dell’Impero austroungarico fosse accompagnato, pure, da altrettanto evidenti situazioni di povertà e di disagio sociale.

L’Allievo di Engel, che ben presto in città impareranno a conoscere come Giuseppe Wulz, inizia presto ad aprirsi alle innovazioni tecnologiche. Usa, ad esempio, un apparecchio fotografico stereoscopico. Soprattutto quando va a inquadrare lo splendore del parco di Miramare, vero e proprio giardino botanico a cielo aperto voluto dall’arciduca Maximilian prima di imbarcarsi per il Messico, dove verrà fucilato il 19 giugno 1867 dai ribelli contrari alla sua nomina a imperatore.

Gli investimenti in nuove diavolerie tecnologiche, Wulz li fa non solo perché è convinto che un buon numero di triestini e forestieri, muniti di visore stereoscopico, o semplicemente curiosi, finiranno per acquistare i suoi scatti. Ma anche perché, così, riesce a catturare l’attenzione di suo figlio Carlo, ragazzo assai dotato per il disegno, che inizierà l’apprendistato nella bottega di famiglia giovanissimo, nel 1889.

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Wanda Wulz, “Autoritratto”, Trieste, 1932, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz.

A Carlo verrà concesso poco più di un decennio per diventare un fotografo fatto e finito. Visto che nel 1904 suo padre Giuseppe scriverà una lettera “alle Autorità competenti” non solo per dilungarsi nel magnificare la bravura del figlio. Ma, soprattutto, per comunicare che a causa delle sue precarie condizioni di salute sarà il ragazzo a gestire, da quel momento, tutte le attività dello studio.

Sono tempi di grande fermento irredentista, quelli. Spesso in città scoppiano tafferugli tra austriacanti e convinti assertori dell’italianità di Trieste. Tanto che lo stesso Consigliere della Imperial Regia Luogotenenza, nel redigere il documento con cui approva la sua gestione dello Studio Wulz, non può tacere che “Carlo è già stato condannato per affari politici”.

A parte piccole risse e scontri a suon di ceffoni con chi continua a inneggiare a Franz Joseph, l’impronta professionale e creativa di Carlo Wulz si fa notare subito. Conosce bene il tedesco, legge libri e riviste pubblicate a Vienna che stanno rivoluzionando l’approccio con la fotografia. Presto, accanto ai paesaggi, che documentano il grande sviluppo demografico di Trieste, popolata adesso da più di 200mila abitanti, e l’incremento ulteriore dei commerci, che rendono il tessuto sociale assai più ricco, si appassiona soprattutto agli studi di nudo.

Le sue modelle si offrono all’obiettivo assumendo pose che ricordano i grandi capolavori pittorici. La carnalità di quelle anonime donne fa compagnia all’attenzione per il corpo degli atleti, pugili, ciclisti, marciatori, ma anche di chi si guadagna da vivere faticando nelle fabbriche.

Non mancano, nella galleria fotografica di Carlo Wulz, le testimonianze di eventi storici che hanno segnato il ‘900. Come l’immagine del passaggio per le vie di Trieste dei feretri dell’arciduca Franz Ferdinand e della consorte Sofia, uccisi dai colpi di pistola sparati a Sarajevo dal giovane poeta Gavrilo Princip, esponente della Mlada Bosna, il 28 giugno del 1914.

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Studio Wulz, Gruppo di ragazzini su un molo, Isola d'Istria, ca. 1900, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz.

Una foto di Carlo Wulz, in particolare, reinventa i canoni della fotografia, ancora influenzata dalla lezione pittorica dell’800. Si intitola “Sphinx”, reca la data del 1920 o giù di lì, porta in primo piano una ragazza dalla bellezza prorompente, coperta solo da uno scialle appoggiato sulla testa, che si offre all’obiettivo nella posa della Grande Sfinge di Giza. La trasforma nel simbolo perturbante, eppure naturalissimo, del richiamo carnale del tanto esorcizzato corpo umano, che non ha nulla a che fare con la volgarità della pornografia.

Ci sono molti ritratti, nella galleria di Carlo Wulz, che documentano i fermenti dell’arte pittorica a Trieste. Accanto alle intense immagini di Arturo Rietti, Eddy Passauro, Augusto Tominz, giganteggia lo scatto che coglie Eugenio Scomparini nello studio mentre sta ultimando un dipinto. Nel gioco di prospettive, l’artista diventa figura del suo stesso lavoro. Come se per un sottile incantesimo la macchina fotografica fosse riuscita ad annullare il confine che separa la tela dalla vita reale.

Non manca mai la Trieste bene, nell’obiettivo di Carlo Wulz. Ma anche una città fatta di gente che vuole dimenticare gli orrori della Grande Guerra e organizza feste danzanti in costume, rendendo omaggio al periodo del Romanticismo o agli sfarzi della Serenissima Repubblica di Venezia. Non compaiono gli scrittori più famosi, nella galleria di ritratti, ma spunta un bambinetto dal broncio contagioso: è Tullio Kezich, figlio dell’avvocato che a Trieste difendeva la povera gente. Di lì a qualche anno diventerà critico cinematografico di “la Repubblica” e del “Corriere della Sera”, amico-biografo di Federico Fellini.

Senza dubbio, le presenze più ipnotiche che abitano le foto di Carlo Wulz sono due ragazze dai capelli scuri, il viso vagamente orientaleggiante, gli occhi sempre puntati dritti in camera. Volti che non si fanno dimenticare. Una si chiama Wanda, l’altra Maria Antonia detta Marion, The Wulz Sisters come le definiranno gli studiosi di lingua inglese.

Saranno loro, le figlie di Carlo, a rivoluzionare il concetto stesso di fotografia. Prima prestandosi a fare da modelle per il padre in una serie di immagini modernissime. Poi assumendosi la responsabilità di gestire lo studio fotografico della famiglia Wulz, con grande coraggio e voglia di innovazione.

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Giuseppe Wulz Ritratto del pittore Augusto Tominz, Trieste, ca. 1875, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz.

Wanda sarà per il padre, di volta in volta, una splendente Cleopatra, in uno scatto che ricorda quello dedicato da Man Ray alla splendida Dora Maar, dove la donna diventa simbolo di una pagana sacralità; una ballerina spagnola; una geisha fasciata dal kimono; una sognante giovane borghese. Marion incarnerà l’essenza stessa del mistero femminile. Entrambi, poi, si presteranno ad assecondare l’inestinguibile voglia di Carlo di sperimentare nuove inquadrature, arditi giochi di luce, preziosi travestimenti, ambigui mascheramenti.

Più tardi, quando Carlo si farà lentamente da parte e morirà nel 1928, saranno proprio Wanda e Marion a reinterpretare con il loro genio, e una fantasia apertissima ad ardite sperimentazioni, la lezione del nonno e del padre. Nel loro gioco di rispecchiamento artistico, che ricorda quello delle surrealiste francesi Claude Cahun e Marcel Moore (pseudonimi scelti da Lucy Schwob e Suzanne Malherbe), si può leggere una sintonia totale sia nella professione che nella vita. Finalizzata a continuare nel gioco affascinante di sovrapposizione di ruoli, di riflessi che si specchiano dentro altri riflessi, un coraggioso percorso di ricerca fotografica.

Stranianti appaiono, ancora oggi, i ritratti di Wanda in tenuta da motociclista realizzati da Marion, dove la sorella-modella emerge come una figura ectoplasmatica da un anonimo fondale. Eleganti e pieni di una candida sensualità sono quelli da femme fatale formato famiglia che Wanda dedica a Marion.

“Quando Wanda e Marion assunsero la direzione dello studio di famiglia nel 1928 – annota Federica Muzzarelli, co-curatrice della mostra –, le donne vivevano ancora in spazi estremamente chiusi e regolamentati”. Le due fotografe triestine decidono così di abbattere quei muri che soffocano la femminilità. Inquadrano corpi di atlete in movimento, come la medaglia d’oro alle Olimpiadi nella scherma Irene Camber; o come la ginnasta Etta Paulin, che trascina in acrobatiche esibizioni davanti all’obiettivo anche le sue giovani allieve. Riproducono, poi, le multiformi sfumature dell’arte di sedurre nei ritratti dedicati alla Signora Bosutti. Si calano loro stesse, Wanda in particolare, ma anche Marion, nei panni di immaginarie danzatrici zingaresche o di mannequin dal fascino ieratico.

Ognuna delle Wulz Sisters sceglierà, per sé, una strada del tutto personale. Anche se poi, all’esterno dello studio, verranno spesso percepite come un’unica persona. Nonostante il fatto che ognuna poteva rivendicare una capacità del tutto personale di guardare il mondo, di leggere la realtà. Proprio per questo, né Wanda né Marion hanno mai rinunciato a essere, al tempo stesso, creatrici, interpreti e modelle nel proprio lavoro.

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Carlo Wulz, Marion e Wanda Wulz, Trieste, 1927, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz.

Wanda saprà imporsi all’attenzione dei Futuristi, fino a realizzare quel capolavoro assoluto di immaginazione e di libertà creativa che è Io+Gatto del 1932. Un’ardita, negromantica sovrapposizione del viso della fotografa con il muso dell’amata micia di casa Mucincina, che riuscì a impressionare anche il profeta del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti.

Memorabile, poi, sarà la sua partecipazione alla Biennale d’arte fotografica del ‘32 a Roma, dove Wanda Wulz presenterà una sorprendente serie di sue creazioni, che ancora oggi non smettono di ammaliare: Colazione futurista, natura morta capace di scardinare le regole della tradizione pittorica; Ritratto, Jazz-band, Esercizio, Wunder bar, dove gli oggetti sembrano in grado di passare attraverso la solidità dei corpi umani. E, naturalmente, la già citata Io+gatto.

Più tardi, Wanda si divertirà a dilatare i confini della fotografia per fare posto alle immaginifiche sperimentazioni tessili che la stilista-scrittrice-editrice triestina Anita Pittoni, nipote dell’esponente socialista Valentino Pittoni, stava realizzando negli anni Trenta. Quegli “straccetti d’arte”, come li chiamava la Pittoni stessa, riusciranno ad attirare l’attenzione delle più innovative firme della moda italiana ed europea dell’epoca.

Marion, da parte sua, non smetterà mai di coltivare il suo sogno pittorico, messo da parte per seguire con grande dedizione l’azienda di famiglia. Eppure, nella mostra di Trieste si possono ammirare un intenso “Autoritratto ideale” e un “Ritratto di Wanda”, dipinti a olio nel 1926, che testimoniano tutto il suo talento.

L’altra sorella Wulz saprà legare il proprio nome anche a una serie di scatti che documentano gli anni terribili del secondo dopoguerra. Immagini realizzate perlopiù dalla terrazza di Palazzo Hierschel, che volevano raccontare con algida precisione la rotta dell’esercito del Terzo Reich, l’arrivo in città dei partigiani di Tito, prima, e delle truppe alleate neozelandesi, poi. Varie fasi, insomma, della “corsa per Trieste”, come l’hanno definita gli storici, che si concluderà con gli accordi di Londra del 1954, assegnando la Venezia Giulia all’Italia e tutti i territori istriani della Zona B alla Jugoslavia.

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Marion Wulz Wanda Wulz, Trieste, ca. 1930, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz

Quel lungo secolo di fotografia e d’arte all’insegna dei Wulz si interromperà con la morte di Wanda il 16 aprile del 1984, e poi con quella di Marion il 3 agosto del 1993. Ma ancora oggi, analizzando da vicino gli originali di questa inimitabile famiglia, gli studiosi rimangono incantati. “Per tutto il Novecento, prima dell’avvento delle tecnologie digitali – spiega Eugenia Di Rocco, restauratrice di fotografia – i negativi su lastra secca venivano modificati con l’uso di vernici, tempere e grafite. Le sorelle Wulz aggiungevano o sottraevano elementi alle loro immagini, applicando sagome ritagliate in carta nera o rossa alle aree che volevano coprire. Inoltre, truccavano, per così dire, i loro soggetti con una vernice preparatoria, utilizzando un impasto colorato grasso o una soluzione trasparente”.

Ma non basta. Nel corso del tempo, Wanda e Marion avevano elaborato altri trucchi, del tutto innovativi: filtri gialli, rossi o arancioni da applicare sulla lastra di vetro dei negativi. Ritocchi fatti sul viso dei soggetti fotografati, con una matita morbida, per eliminare piccoli e grandi difetti. Geniali diavolerie che sapevano migliorare il “positivo” dell’immagine, con interventi in camera oscura capaci di anticipare il moderno fotoritocco digitale.

Wanda e Marion fotografavano, insomma, come se la loro personale macchina del tempo viaggiasse sempre un po’ più veloce del tempo stesso. Puntavano decise verso il futuro. Tanto che noi, ancora oggi, restiamo incantati dai loro visivi giochi di prestigio.

In copertina, Wanda Wulz, “Io + gatto”, Trieste, 1932, Firenze, Archivi Alinari-Archivio Studio Wulz.

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