Il sottomarino dei ricordi di Jón Stefánsson

17 Giugno 2024

“Era mia vita: ed è, né cangia stile, /o mia diletta luna. E pur mi giova / la ricordanza, e il noverar l’etate / del mio dolore. Oh come grato occorre / nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso, / il rimembrar delle passate cose, / ancor che triste, e che l’affanno duri!”.

Era il 1819 quando Giacomo Leopardi componeva questi versi, che facevano parte dei Piccoli idilli. Il titolo originale era La ricordanza, poi mutato in Alla Luna. Metteva a fuoco uno dei temi cari al poeta di Recanati, allora ventunenne: il fatto che la rimembranza, il lasciarsi trasportare dai ricordi, può essere una delle illusioni naturali più intense, dolorose e, al tempo stesso, piene di luce.

Jón Kalman Stefánsson si è sempre spinto un po’ più in là del poeta morto a Napoli il 14 giugno del 1837. Perché lo scrittore islandese è convinto che la scrittura possa rivelarsi la più potente macchina del tempo. Una sorta di cargo spaziale capace di trasportare l’autore e i suoi lettori a valicare il presente, ad andare a ritroso nel passato. Spinti da un carburante speciale: i sentimenti e le esperienze fatte nel corso della propria vita. 

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Stefánsson ama ripetere spesso di credere fermamente nel fatto che mentre leggiamo, scriviamo o ascoltiamo musica, ci sia concesso di entrare in sintonia con l’eternità. Per percepirla nel suo arcano fluire. Fino al punto che il concetto stesso di eternità finisce per diventare un antidoto potente contro la tirannia del tempo, che continua a correre imperterrito verso l’unico appuntamento ineluttabile, quello che temiamo di più: l’arrendersi alla Morte.

Non stupisce, allora, che Stefánsson scriva romanzi per mettere in contatto il lettore con l’eternità. Ciò risulta evidente leggendo la sua trilogia formata da Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo. Ma anche nel dittico formato da I pesci non hanno gambe e Grande come l’universo. O, ancora, in altre opere indimenticabili come Crepitio di stelle e La tua assenza è tenebra.

Figlio di un muratore e di una casalinga, rimasto orfano a sei anni quando sua mamma venne portata via da una crudele malattia, Stefánsson non fa mistero di avere impiegato un bel po’ di tempo per trovare se stesso. E per capire che sarebbero state la letteratura e la scrittura la sua vera strada maestra. Prima, però, doveva passare per alcune tappe obbligate: abbandonati gli studi a quindici anni, gli era indispensabile illudersi che il suo vero desiderio fosse guadagnare da vivere improvvisandosi prima muratore, poi lavorando in un’industria ittica, infine facendosi assumere in un macello.

Più tardi, a riportarlo allo studio, al mondo della cultura, sarebbe stato un programma televisivo. Quello tenuto da Carl Sagan, dove l’astronomo e divulgatore scientifico raccontava i misteri dell’universo. Fino ad allora, il futuro scrittore si era sentito un alieno. E non stenta ad ammettere, ancora oggi, di avere percepito se stesso come un disadattato ovunque si trovasse. “Solo grazie ai programmi di Sagan ho iniziato a pensare di poter diventare un astronomo, di scoprire nuovi universi”.

La vita, in realtà, aveva in serbo ben altri progetti per lui. Perché negli anni successivi, iniziando a scrivere, Stefánsson ha capito che era quella la navicella spaziale giusta per viaggiare lungo la deriva del tempo e nello spazio dei ricordi. E che inventando storie, pagina dopo pagina, avrebbe costruito una sua casa. Un posto dove dentro ogni parola pulsa lo stesso fascino, il medesimo mistero nascosto nelle galassie lontane. Una materia oscura capace di sprigionare luce intensissima.

Dopo aver conquistato la critica e i lettori, dopo aver vinto il Premio Letterario Islandese e essere stato finalista al Man Booker International Prize e al Bottani Lattes Grinzane, da qualche anno lo scrittore di Reykjavik è stato inserito tra i candidati al Nobel della letteratura. Autore anche di raccolte di versi (La prima volta che il dolore mi salvò la vita e Quando i diavoli si svegliano dèi), Stefánsson non si è mai stancato di raccontare il mondo con quel suo sguardo incantato e doloroso, pieno di umanità e di voglia di valicare il confine che separa la realtà dall’immaginazione. Perché se è vero che la vita è una ferita che non si rimargina mai, è altrettanto vero che nell’alternarsi dei giorni solo chi sa fare posto alla libertà di fantasticare può scavare un pertugio alla speranza.

Lo conferma anche il suo romanzo più recente: Il mio sottomarino giallo. Tradotto da Silvia Cosimini per Iperborea (pagg. 413, euro 20), questo libro è forse, tra i suoi tanti, il viaggio più personale, scanzonato eppure intenso, immaginifico e al tempo stesso malinconico, che Stefánsson abbia compiuto imbarcandosi sulla scialuppa di salvataggio della letteratura in oltre trent’anni di attività.

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Nel Sottomarino giallo l’estate si riflette nel verde di un parco di Londra. Un tempo dolce e luminoso che riporta alla memoria del protagonista i giorni più dolorosi della sua infanzia. Perché, a un certo punto, davanti a lui si materializza Paul McCartney. Sì, proprio lui, il leggendario musicista dei Beatles. Uno dei Fab Four che ha fatto sognare, sulle note di canzoni indimenticabili, stuoli di ragazzi sparsi nel mondo.

È a piedi nudi Sir Paul, come nella celebre foto sulle strisce pedonali di Abbey Road. Sta appoggiato a una quercia e parla al telefono. Non fa nulla per attirare l’attenzione. Ma quella epifania così inaspettata, dopo tanto tempo, fa rivivere alla voce narrante del Sottomarino il passato che non ha mai smesso di essere presente dentro di lui. I giorni terribili e senza senso in cui è morta sua mamma. Gli stessi giorni in cui ha iniziato a fare a pugni con Dio. Dopo aver scoperto tutta la violenza e la crudeltà che trasuda dalle pagine della Bibbia. Un Vecchio Testamento pieno di furori divini e ansia di vendetta, così platealmente in contrasto con il messaggio umanissimo di Gesù.

Comincia da lì, da quel parco abitato dall’apparizione di Paul McCartney, una lunga ricerca del tempo perduto. Che passerà attraverso il dolore per la perdita della madre, l’arrivo di una silenziosa e pragmatica matrigna, la scontrosa, enigmatica e alcolica presenza-assenza del padre, lo scioglimento intollerabile di una band come i Beatles, che sembravano avere costruito fondamenta solide sul concetto di amicizia.

Per fare i conti con la vita, e trovare il giusto percorso che lo allontani dal dolore, dalla delusione e dal pensiero della Morte, la voce narrante di Il mio sottomarino giallo dovrà aggrapparsi alla magia potente della scrittura. Dal furore senza nome intriso nel paesaggio dei selvaggi Strandir, nel Nord dell’Islanda, dove fantasia e realtà finiscono per confondersi, il protagonista transiterà al fascino della poesia chiuso nella biblioteca di Keflavik. Imparando a capire i silenzi, a esorcizzare la rabbia e a utilizzare l’immaginazione per desiderare che in un corridoio parallelo al tempo presente i Beatles possano ritrovare la loro antica amicizia. Per rimettersi di nuovo a macinare musica assieme. E che il grande dolore per la perdita della mamma sia condiviso nientemeno che da Gesù. A cui non è mai stato rivelato chi fosse la sua vera madre, rimasta sempre all’ombra della figura di culto (e di comodo) di Maria Vergine.

Del resto, diceva lo svedese Stig Dagerman, morto suicida nel 1954 a trent’anni, ogni scrittore che non teme la frizione evidente tra la poesia e la realtà finisce per forza per “stabilirsi nel bosco dei paradossi”. Solo così, infatti, saprà rispecchiare, dentro il perimetro definito della vita, tutte le possibili visioni che la fantasia fa transitare sullo schermo della sua creatività. Perché in fondo, commentava Italo Calvino nel 1969 in La letteratura come proiezione del desiderio (Per l’anatomia della critica di Northrop Frye), “la letteratura è la tensione verso il nuovo testo apocrifo da ritrovare o da inventare”.

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Ed è proprio distillando dalla sua autobiografia una storia apocrifa, eretica, liberissima, non del tutto immaginaria, ma via via grottesca, pirotecnica, dolorosa, sognante e maledettamente in equilibrio tra realtà e finzione, che Stefánsson ha saputo scrivere un romanzo di avventure, folgoranti scoperte e riflessioni fuori rotta. Accompagnando le parole con la precisione metronomica di tanta musica ascoltata, ricordata, amata appassionatamente: dai Beatles a Johnny Cash, fino ad arrivare a Lana Del Rey.

Dentro la metrica del racconto e dell’ascolto, il dialogo con chi non c’è più diventa una via umanissima per esorcizzare la paura della Morte. Accettando l’idea che al di là delle stelle non c’è nessun paradiso perduto ad aspettarci. Ma ogni volta che si pronuncia il nome di una persona amata, e ormai scomparsa, ogni volta che si ripetono nella memoria le sue parole, si ricordano i sorrisi e le carezze, si evoca la presenza, lei ritornerà a vivere. Valicando lo spazio e gli abissi del tempo, annullando la condanna del silenzio, dell’assenza e dell’oblio.

Spiega Jón Kalman Stefánsson, che è stato ospite del Salone del Libro di Torino: “I ricordi mi hanno salvato, sia come uomo che come scrittore. Mia madre è morta molto giovane, io avevo sei anni allora e ho vissuto la sua improvvisa assenza come una grande ingiustizia. Mi sembrava crudele che se ne dovesse andare una persona buona e così giovane: aveva poco più di 31 anni. Da allora, nella mia testa hanno preso forma delle storie, in cui io continuavo a farla vivere. Senza saperlo, ho iniziato a scrivere i miei primi romanzi.

Non era solo un modo per cercare di guarire dalla malinconia?

Non solo. Avevo la convinzione, molto infantile, di riuscire a cambiare la realtà, i fatti, le regole del mondo. Per sconfiggere la Morte. E, in parte, qualcosa di me è rimasto aggrappato a quel periodo. Non ho mai smesso di credere nel potere dell’invenzione letteraria.

La memoria è diventata il suo antidoto al sortilegio dell’assenza?

I ricordi sono delle armi potenti che ho utilizzato contro la Morte, la dimenticanza e il tempo. Perché penso che se si riesce a scrivere delle storie capaci di nutrirsi di ricordi, allora è possibile ottenere una piccola vittoria sulla terribile condanna dell’oblio.

Il mio Sottomarino giallo è il suo romanzo più personale?

In qualche modo lo è. Anche se tutti i miei libri sono molto personali. Ho utilizzato elementi della mia vita per costruirli. Soprattutto sentimenti, sensazioni, ricordi, pur senza riferirmi mai a qualche episodio preciso. Perché quelli tendo a dimenticarli abbastanza presto. Sono soprattutto le sensazioni che provo a restituire. E che, poi, germinano dentro le mie storie.

C’è tanta musica nei suoi libri, non solo come colonna sonora di sottofondo.

Vengo da una famiglia di musicisti. C’era un cantante di opera lirica tra i parenti di mia madre. E anche se io non ho un talento particolare, di certo la musica fa parte del mio Dna. Mi ha sempre influenzato tantissimo. E non potrei vivere senza. Credo abbia accompagnato tutta la mia produzione narrativa, ma anche la poesia.

I Beatles in modo particolare?

Non c’è dubbio. Ma i Beatles hanno avuto un impatto fortissimo su tutto il mondo. Sono stati capaci di rivoluzionare la musica. Erano avanti anni luce rispetto al loro tempo, sia con la scrittura delle canzoni che con le sessioni di registrazione in studio. Io, poi, sono legato in particolare ai Fab Four. Quando avevo 10 anni ho iniziato a creare delle storie in cui cercavo di farli ritornare insieme. Per me era inaccettabile che la loro bella amicizia, così radicata e creativa, si fosse interrotta all’improvviso. Ancora oggi rappresentano per molte persone un sogno di empatia, di sintonia.

L’incontro-scontro con Dio è presente in tutti i suoi romanzi…      

Il problema di Dio mi affascina da sempre. Come la Bibbia, che ha iniziato a incuriosirmi con le sue storie fin da quando ero bambino. È un libro che ha cambiato il mondo, è impossibile capire quello che siamo senza leggere le pagine dell’Antico Testamento. Nel mio Sottomarino giallo cerco di raccontare questo approccio alla religione molto severo, e anche crudele, con gli occhi di un bambino.

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Un bambino che fugge dalle gabbie del catechismo, delle messe obbligatorie?

Nel Sottomarino, e in altri miei romanzi, ho cercato di far fare a Dio pace con se stesso. A dire il vero, ci aveva provato già Marcione nel primo secolo dopo Cristo. Quando aveva selezionato tutte le parti della Bibbia che gli sembravano non ispirate dalla parola di Dio, togliendole. Era rimasto, così, uno smilzo libro che dimostrava come gran parte delle pagine dell’Antico Testamento fossero lontanissime dall’idea di un Essere perfetto e misericordioso. Perché raccontano un Dio collerico, violento, vendicativo. Io la penso esattamente come lui. Se Dio esiste per davvero, noi lo stiamo ancora cercando.

Purtroppo proprio quelle parole feroci hanno disseminato la Storia di vendette, guerre, persecuzioni.

Infatti, questa è proprio una delle più grandi contraddizioni. Il nucleo fondante della religione dovrebbe essere l’amore. Purtroppo, troppo spesso avviene il contrario. Dicevo prima che il Vecchio Testamento è pieno di crudeltà. Al contrario del messaggio di Gesù. Forse noi umani siamo troppo imperfetti per fare nostre le parole del Cristo, per davvero. Prova ne sia che i potenti del mondo hanno sempre affermato di seguire il suo insegnamento. E invece lo applicano nelle sue forme peggiori.

Dovremmo ripartire da quelle poche pagine di Marcione?

Marcione parlava di un Dio d’amore e di consolazione.  Ma venne presto confutato e, poi, considerato eretico. Anche San Paolo ha lasciato un insegnamento prezioso. Diceva che tutti gli esseri umani sono uguali: bianchi e neri, uomini e donne. Sono parole che dovremmo prendere come base fondante di tutte le religioni. E della nostra società. Però, poi, la realtà si avvicina molto di più alla Fattoria degli animali di George Orwell: tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Quando inizia a scrivere un libro è metodico o anarchico?

All’inizio ho sempre un’idea molto chiara della storia che voglio raccontare. Poi, le mie certezze spariscono nel giro di qualche giorno. Perché è impossibile pianificare la creatività. Inventare una trama, immaginare dei personaggi, significa lasciarsi guidare dall’arte dell’imprevisto. 

E allora?

Quando i miei piani vanno in fumo, dopo aver iniziato a scrivere, provo gioia. Perché è giusto che il romanzo segua una traiettoria del tutto sua. E, quasi sempre, la nuova idea di storia è difforme da quella che io avevo immaginato. 

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