Hemon, le storie nella Storia
Castigare il corpo, controllarlo e disciplinarlo, manipolare la sua energia per renderlo docile, ubbidiente e utile. E, poi, fare in modo di utilizzarlo come forza di massa: nelle fabbriche, nei collegi, negli ospedali. Soprattutto, come perfetta arma collettiva da utilizzare in azioni di contrasto poliziesco. Come strumento potente di repressione. O, ancora meglio, come risorsa a basso costo da schierare in sempre nuove operazioni belliche. È stata questa una delle evoluzioni più evidenti della pratica di Sorvegliare e punire analizzata da Michel Foucault nel suo saggio sulla Nascita della prigione, pubblicato da Editions Gallimard nel 1975, e poi tradotto l’anno successivo da Alcesti Tarchetti per Einaudi.
Il filosofo francese di Poitiers sottolineava quanto geniale e perversa fosse stata, nel fluire del tempo, la graduale mutazione del sorvegliare e punire ideata dal Potere. Con l’intento preciso di addolcire via via, una soltanto apparentemente, il controllo del corpo. Nel preciso istante in cui aveva deciso di archiviare la roboante ed eccessiva operazione di “ortopedia sociale”, che tendeva a spettacolarizzare la pena erigendo patiboli e roghi, spezzando i corpi dei prigionieri con strumenti di tortura e catene, la borghesia s’era inventata un più gentile ed efficace processo di rieducazione. Un sistema di correzione del pensiero, insomma, attraverso il controllo del corpo, che si rivelerà ancora più tenebroso. Perché prevedeva che il percorso di rieducazione passasse per le celle delle prigioni, le aule delle scuole e dei collegi, le stanze degli ospedali, soprattutto quelli psichiatrici.
Ma, da sempre, lo strumento più efficace per irregimentare, sconciare, deprimere e annichilire le potenzialità del corpo, è rappresentato dalla messa in scena della guerra. Ammantata, un tempo, dal falso mito di essere l’igiene del mondo, decantata dai futuristi (Filippo Tommaso Marinetti esaltava “il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”), e oggi sempre più spesso mascherata da unico baluardo possibile contro la tracotanza dei poteri forti. Contro la violenza di regimi dittatoriali difficili da scalzare con una robusta resistenza interna.
Conflitti lunghissimi, non bisogna mai dimenticarlo, che hanno lasciato sui campi di battaglia, e nelle città devastate dai bombardamenti, quasi 18 milioni di morti nella Prima guerra mondiale e oltre 60 nella Seconda. Senza contare le vittime di tutte le battaglie che si sono succedute dagli anni Cinquanta fino a oggi. E che ancora imperversano.
Sono sempre stati i corpi l’ingrediente primario di queste immense centrifughe programmate per frantumare ogni resistenza umana. Incubi potenti capaci di spazzare via i sogni più belli di chi si è trovato a vivere il secolo breve. Di chi ha cullato l’illusione di attraversare il ‘900 come se la vita fosse una giostra capace di far girare i giorni attorno alle avventure elettrizzanti, agli incontri inaspettati.
E invece? Basta immergersi nel nuovo romanzo di Aleksandar Hemon. In quel libro mondo, in quel gioiello di storie che attraversano la Storia. In quell’inno alla ribellione dei corpi che è Il mondo è tutto ciò che contiene, splendidamente tradotto da Maurizia Balmelli per Crocetti Editore e pubblicato in Mediterranea (pagg. 363, euro 20). La stessa collana dove, nel 2022, era già apparso il doppio testo dello scrittore nato e cresciuto a Sarajevo, che dal 1992 vive negli Stati Uniti: I miei genitori-Tutto questo non ti appartiene.
“Mio nonno usava dire che nessuno vive una vita intera senza attraversare almeno una guerra”: Aleksandar Hemon, questa lezione non l’ha mai scordata. Come non si è mai dimenticato di attraversare, con i suoi libri, le storie di personaggi che, proprio a causa dei conflitti bellici, si ritrovano all’improvviso nel ruolo di esuli. Di sradicati dal proprio mondo. Di Nowhere man, persone private di un’identità definita, come nel suo omonimo romanzo tradotto da Angela Tranfo nel 2004 per Einaudi, in cui il protagonista Jozef Pronek doveva ripensare completamente la propria esistenza. Visto che, durante quella che sembrava essere per lui una breve permanenza a Chicago, nel suo Paese aveva preso forma una delle più violente guerre del Ventesimo secolo. Impedendogli di ritornare a casa. Di rivedere la propria città, gli amici, la famiglia. Esattamente come è toccato a Aleksandar Hemon, corpo sradicato dalla terra madre malgré lui.
La stessa storia attraversa la vita di Rafael Pinto, protagonista di Il mondo è tutto ciò che contiene. Quando parte da Sarajevo e raggiunge l’Austria per studiare all’università, la sua valigia è piena di illusioni. Nella Vienna libertina e sorprendente di inizio ‘900 può sognare gli incontri più emozionanti, lui che preferisce gli uomini. E una goccia di laudano lasciata cadere su una zolletta di zucchero lo aiuta spesso a ingentilire la realtà. Espandendo i confini del quotidiano vivere verso un paradiso artificiale dove tutto è possibile. Anche che un “kulu alegri”, così lo definiscono le parole della sua lingua ladina/giudesma, possa vivere i suoi amori senza più nascondersi. Senza vergognarsi di essere diverso dalla maggioranza. Perché “se un uomo è amato dal suo prossimo, egli è amato da Dio”.
E quando Rafael ritorna nella sua Sarajevo (“Una città dove Dio ti augurava la buonanotte, e il giorno dopo non si faceva più vedere”), e trascorre le giornate a preparare intrugli medicamentosi dietro il bancone della farmacia ereditata dal padre, sembra davvero per un attimo che i sogni viennesi possano diventare realtà in quell’angolo di Bosnia. Tanto che il tempo decelera, fino quasi a fermarsi, come in un ralenti cinematografico, nel preciso istante in cui, nell’Apotheke di Pinto, entra il Rittmeister che accompagna in visita alla città l’arciduca Franz Fedinand d’Austria-Este, legittimo erede al trono austroungarico e ispettore generale delle forze armate imperiali.
“Posso chiederle un bicchier d’acqua?”, domanda il militare, mentre trangugia la polvere preparata apposta per placare la sua emicrania. E il farmacista, intento a versargli con grande premura un bicchiere di Rosenwasser, decide di mettere da parte la sua ritrosia. “Prima che abbia il tempo di prendere una decisione, Pinto si alza sulle punte dei piedi e bacia il Rittmeister precisamente sul confine tra i baffi e il labbro”.
Ma non ci sarà tempo per dare un seguito alla storia. Perché è il 28 giugno del 1914: alle 10.30 precise del mattino il giovane poeta Gavrilo Princip, confuso in mezzo alla folla, sparerà alcuni colpi di pistola addosso all’Arciduca e alla moglie Sofia. Dopo pochi minuti, Franz Ferdinand morirà continuando a sussurrare: “Non è niente, non è niente”.
Confusi in mezzo alla gente, altri attivisti del gruppo Mlada Bosna e gli ultranazionalisti della Crna ruka, la Mano nera, cominceranno a festeggiare pensando che la Bosnia sarebbe finalmente riuscita a liberarsi dal giogo degli Asburgo, entrando a fare parte del Regno di Serbia. Anche perché “rej muertu gera no fazi”, sostenevano i sefarditi di Sarajevo. Un re morto non potrà mai fare la guerra.
Era solo una sciocca illusione. Esattamente un mese dopo, il 28 luglio 1914, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. E accese la miccia che fece, poi, deflagrare un conflitto infinito. Tra gli attentatori avrebbe potuto esserci anche Ivo Andrić, l’autore del Ponte sulla Drina, il futuro Premio Nobel per la letteratura 1961, che faceva parte del gruppo della Giovane Bosnia. Ed era già entrato più volte in collisione con la polizia austriaca, Ma non venne inserito nel gruppo di dieci potenziali attentatori dell’organizzazione-rivoluzionaria, anche perché allora studiava all’Università di Cracovia.
Ad agosto comunque, appena rientrato in Bosnia, Andrić fu arrestato per “attività anti statale”. Malato di turbercolosi, passò il periodo di detenzione prima a Spalato, poi a Sebenico e a Fiume. Soltanto il 20 marzo del 1915 lo rilasciarono dal carcere di Maribor per mancanza di prove del suo coinvolgimento nell’uccisione di Franz Ferdinand. Anche se lui non ha mai negato l’amicizia profonda che lo legava a Gavrilo Princip.
Il poeta con la pistola, additato al mondo intero come detonatore del conflitto, sarebbe morto di lì a qualche anno di tubercolosi: il 28 aprile del 1918 nel terribile carcere di Terezin. Sette mesi prima che terminasse “l’inutile strage”, come la definì Papa Benedetto XV, della Prima guerra mondiale.
Ed è proprio in quel maledetto 28 giugno che i sogni di Rafael Pinto appassiscono. Perché, in seguito alla crisi di Sarajevo, inizia per lui un pellegrinaggio infinito dentro il maelstrom del ‘900, che lo porterà ad attraversare non solo gli anni terribili della Grande Guerra. Ma lo spingerà in fondo alle trincee imbevute di sangue umano e riempite di cataste di cadaveri, nei palazzi dove si architetta la rivoluzione bolscevica e si dà corpo alla caccia all’uomo che non si adegua all’ideologia comunista.
Davanti agli occhi del protagonista si compie lo sfacelo del modello Mitteleuropa. Ossia, come scriveva Claudio Magris nel suo libro d’esordio intitolato Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna (Einaudi 1963), prende forma la rovina di una civiltà come quella degli Asburgo che aveva cercato “di ridurre la pluralità del reale a un’unità, il caos del mondo a un ordine, la frammentaria accidentalità dell’esistenza a un’essenza, le contraddizioni storico-politiche a un’armonia capace di comporle se non di risolverle”.
Dentro le trincee, che brulicano di soldati sconciati, piagati, disumanizzati, in quella “grande eskuridad” lunga oltre cinque anni, sarà proprio con la rivolta del proprio corpo che Pinto troverà il modo per ribellarsi alla follia della guerra. Resisterà mentalmente al disumano tributo di vittime, che il Potere pretende di immolare sull’altare di nuovi equilibri politici in Europa, grazie all’incontro con un cencioso militare, in tutto uguale a lui. Il riconoscere in Osman, il Bel Bosniaco, l’incarnazione del desiderio, della gentilezza e dell’empatia, sarà la via di fuga per scolorare l’orrore tutto attorno alla loro storia.
La saliva dei loro baci farà dimenticare l’odore del sangue, lo sperma degli amplessi riuscirà a cancellare il puzzo dei camminamenti pieni di corpi esanimi. Le carezze e i gesti gentili ripareranno le ferite sanguinanti della brutalità guerresca. Dal momento che “tutto nel mondo esiste per un motivo, anche se quel motivo non sempre lo conosciamo”.
Assieme ai gesti, all’odore, al calore e alla vicinanza del corpo amato di Osman, prenderanno forma le parole. Storie narrate come fossero favole per adulti, mentre rimbomba il suono sordo delle armi, e stridulo si fa il richiamo d’aiuto di chi ormai ha chiuso i conti con la vita. “Il mondo è un universo di storie che possono solo continuare a iniziare e mai finire”.
Hemon, quelle storie, le annoda alternando la lingua letteraria alle frasi del ladino/giudesmo, parlato dagli ebrei sefarditi di Sarajevo. In un impasto di parole visionario, attento alle sfumature, capace di trasportare il lettore in un mondo che ha dovuto fare i conti con la brutalità e lo sradicamento. Perché è giusto che la lingua, le lingue si salvino dalla furia cieca del Potere che tutto livella e ingloba, “anche se a parlarle è un uomo solo”.
Trovandosi e perdendosi, Pinto e Osman riusciranno a diventare uno indispensabile all’altro. Valicheranno i limiti fisici dello spazio e quelli evanescenti del tempo. Diventeranno presenze necessarie, imprescindibili, spesso ridotte al sussurro di una voce, al fragile vagolare di un’invisibile vicinanza, facendo impallidire l’invasivo succedersi delle rivolte, delle violenze inaudite. Riducendo al ruolo di comprimari le spie e i rivoluzionari, gli avventurieri e i trafficanti, che intercetteranno dalla Galizia a Taškent, dal Deserto del Taklanakan, da Shangai a Gerusalemme. Fino ad approdare di nuovo in una Sarajevo completamente ridisegnata dalle troppe guerre. Ma sempre fedele alla propria anima meticcia e libertaria.
La vera sorpresa, in questo romanzo da cui tracimano storie e destini, odi e amori, alleanze e tradimenti, usanze perdute e nuove tendenze, è racchiusa nel finale. In una nota in cui Hemon convince il lettore a prepararsi a rinunciare alle proprie certezze. E a credere che lo scrittore stesso, ospite di un festival organizzato a Gerusalemme nel 2001, abbia incontrato per davvero un’anziana signora pronta a squadernare davanti ai suoi occhi l’ingombrante campionario dei propri ricordi. Salvo poi scomparire, come il classico fantasma di un romanzo gotico, al momento di dare sostanza al suo racconto. Senza fissare date, rivelare nomi, circostanziare avvenimenti.
È chiaro, però, che Aleksandar Hemon non si è fermato davanti all’assenza. A lui è bastata quella fugace presenza per avviare la fantasia. La voce di un ricordo (vero, falso, non importa affatto) ha messo in movimento la macchina delle storie. Il mastodontico meccanismo capace di generare un romanzo fluviale, vitalissimo, eppure pieno di tenebra come Il mondo è tutto ciò che contiene.
Non stupisce affatto che, nei dodici anni serviti a Hemon per ultimare questo libro, abbia preso forma un progetto laterale. Un avatar danzante battezzato Cielo Hemon, dietro cui si cela lo scrittore stesso, capace di mescolare ritmi dance e sonorità etniche, che provengono soprattutto dalle musiche di Sarajevo. Questo viaggio tra le note è racchiuso adesso nell’ep “Elsewheres” e in un album, “The Twilight Tapes”, entrambi incisi nel 2023 per la Cielo Records.
Normale, quindi, che i ringraziamenti finali di Il mondo è tutto ciò che contiene si concludano con un eloquente “e adesso, andiamo a ballare”. Perché è evidente che anche nel nostro oscuro presente dev’essere il corpo a trovare la giusta rotta. Per ribellarsi ai sempre nuovi meccanismi di controllo inventati dal Potere. Magari lasciandosi prendere per mano, con grande naturalezza, dalla musica.