Trieste: visita guidata alla città degli scrittori

10 Febbraio 2025

Nessuno poteva immaginare, nel 1921, che James Joyce sarebbe diventato il gran dinamitardo del romanzo del ’900. Quell’ardito equilibrista del linguaggio narrativo camuffato dietro lo sguardo miope, l’affilato profilo del viso, l’andatura indolente da sommo tiratardi. Non certo Ettore Schmitz, lo snobbato scrittore triestino Italo Svevo, che pur aveva apprezzato il Ritratto dell’artista da giovane e i racconti dei Dubliners. Tantomeno i critici, gli studiosi, i lettori stessi, colti di sorpresa un anno dopo dalla forza dirompente dell’Ulisse, pubblicato il 2 febbraio del 1922 da Sylvia Beach. E travolti, nel 1939, dalla spiazzante libertà sintattica e lessicale di Finnegans Wake.

Eppure, che il professor Zois, come lo chiamavano a Trieste, fosse il geniale sabotatore della retorica e del canone letterario, lo si sarebbe potuto intuire andando a sbirciare le lettere che spediva in giro per l’Europa, indirizzandole ad amici e conoscenti.

Una, in particolare, sorprende ancora oggi per il suo assoluto disprezzo della forma, e il sommo divertimento joyciano di improvvisarsi giocoliere di parole. La lettera porta la data del 5 gennaio 1921. Venne scritta in Boulevard Raspail 5, Parigi VII, e indirizzata a Villa Veneziani di Trieste, la casa dove abitava Italo Svevo con la moglie Livia, la figlia Letizia e i suoceri Gioachino Veneziani e Olga Moravia. Villa andata, poi, distrutta in uno dei furiosi bombardamenti del 1945.

Quella lettera è un piccolo gioiello di antistile, capace di sorprendere ancora oggi. Perché rivela che Joyce, quando abitava ancora a Trieste al secondo piano di via Bramante 4, era già arrivato a buon punto nell’architettare la complessa struttura dell’Ulisse. Che allora, in omaggio al dialetto triestino, si intitolava ancora “sua mare grega”. Ovvero, un modo di dire gergale non proprio elegante nei confronti delle madri e del mestiere più antico del mondo.

Dice così: “Caro signor Schmitz c’è a Trieste nel quartiere di mio cognato segnato col numero politico e tavolare di via Sanità 2, e precisamente situato al terzo piano del suddetto immobile nella camera da letto attualmente occupata da mio fratello, a ridosso dell’immobile in parola e prospettante i postriboli di pubblica insicurezza, una mappa di tela cerata legata con un elastico di colore addome di suora di carità, avente le dimensioni approssimative di cm. 95 per cm. 70. In cotesta mappa riposi i segni simbolici dei languidi lampi che talvolta balenarono nell’alma mia. Il peso lordo è stimato a kg. 4.78. Avendo bisogno urgente di quegli appunti per l’ultimazione del mio lavoro letterario intitolato Ulisse ovvero tua mare grega rivolgo cortese istanza a Lei, colendissimo collega, pregandola di farmi sapere se qualcuno della Sua famiglia si propone di recarsi prossimamente a Parigi; nel qual caso sarei gratissimo se la persona di cui sopra vorrebbe avere la squisitezza di portarmi la manna, indicata a tergo”.

Ma non basta. Perché Joyce, che tra osterie e bordelli aveva imparato il dialetto triestino in maniera perfetta, tanto da utilizzarlo poi per inventare funambolici neologismi in Ulisse e Finnegans Wake, si divertiva a proseguire la lettera con una buffa raccomandazione rivolta a chi avrebbe maneggiato il prezioso incartamento. Che, tra l’altro, conteneva una prima versione del capitolo Circe dell’Ulisse: “Ma ocio a no sbregar el lastico, poiché allora nasarà confusion tra le carte”.

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Il finale, poi, è un concentrato del suo allegro infischiarsene delle regole del bon ton: “Saluti cordiali e scusi per il cervelletto esaurito; si diverte un pochino ogni tanto. Mi scriva presto presto. James Joyce”.

L’originale di questo piccolo diamante epistolare lo si può ammirare, adesso, nel nuovo Museo della Letteratura che il Comune di Trieste ha voluto creare in una serie di sale a pianterreno dello storico Palazzo Biserini, in piazza Hortis. Proprio di fronte alla statua di Italo Svevo, lo scrittore che insieme a Luigi Pirandello ha saputo ridisegnare le traiettorie del romanzo italiano all’inizio del ‘900. Pubblicando, a spese proprie, tre romanzi troppo a lungo snobbati dai critici e dai lettori: Una vita, Senilità, e La coscienza di Zeno.

Proprio la fusione tra due piccoli musei già esistenti, dedicati a Svevo e Joyce, ha fatto da trampolino di lancio a questo nuovo progetto. Disegnato e allestito dall’architetto Lorenzo Greppi, LETS, acronimo che sta per Letteratura Trieste, ha potuto contare sull’apporto di idee e di grande competenza di persone attivissime nel panorama culturale triestino; Riccardo Cepach, Cristina Fenu, Laura Pelaschiar, Susan Petri e Manuela Salvadei, direttrice del Servizio Biblioteche.

Sembra facile costruire un museo attorno a chi reinventa la realtà con le parole. Ma come si possono chiudere dentro quattro mura gli scrittori, che fa dell’immaginazione, del liberissimo esercizio di fantasticare, il più affascinante e impalpabile dei mestieri? Semplice, si portano i libri a contatto diretto con i lettori. E ai capolavori che fanno parte, ormai, della storia della letteratura, si affiancano sempre nuovi e diversi progetti narrativi. Per annullare lo scorrere del tempo. Per creare una sintonia fortissima tra i maestri e i loro allievi.

Così, a Trieste, LETS si presenta come un’enorme libreria aperta a tutti. Dove convivono, fianco a fianco, nomi immortali come quelli di Scipio Slataper, Virgilio Giotti, Giani Stuparich, Srečko Kosovel, Anita Pittoni, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Carolus Cergoly, accanto ad altri scrittori che hanno lasciato un segno profondo sulla cultura del ‘900 e di questo primo scorcio di terzo millennio: Claudio Magris, Boris Pahor, Fulvio Tomizza, Stelio Mattioni, Giorgio Pressburger.

Gironzolare per le sale di LETS significa concedersi lunghi momenti di stupore e ammirazione. Perché, in mezzo all’ingente mole di carte e immagini, si può scoprire che Paolo Universo dichiarava candidamente, alla voce professione, di essere un poeta qual era, senza doversi inventare altri mestieri. E che Claudio Magris rivela, con grande orgoglio, di avere scoperto il fascino della letteratura grazie ai romanzi d’avventura di un visionario come Emilio Salgari. Tanto da donare al Museo la sua copia di I misteri della Jungla nera nell’edizione Vallecchi del 1938. Un libro “fatale”, una sorta di “mappa del tesoro”, grazie alla quale ha imparato come “sia la vita a raccontare le storie, che poi passano di bocca in bocca, di libro in libro”.

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Una carta geografica svela una vicenda intima e intensissima che riguarda Fulvio Tomizza. Perché si tratta di una mappa dell’Istria del 1635 che racconta la storia della sua terra d’origine, paesaggio dell’anima di tanti romanzi tomizziani, a cominciare dalla trilogia formata da Materada, La ragazza di Petrovia e Il bosco di acacie. Un territorio non ancora insanguinato dalle terribili violenze del nazi-fascismo prima, e poi dalle persecuzioni dei partigiani di Tito contro gli italiani, che diede vita al doloroso esodo della popolazione da quelle terre.

Accanto alla mappa c’è una fotografia, donata dalla moglie Laura Levi, che mostra lo scrittore mentre si appresta ad appendere la cartina a una parete del suo appartamento triestino, in via Giulia, dopo aver lasciato la sua terra d’origine, anche a causa delle persecuzioni subite dal padre Ferdinando nel 1947.

E se la macchina da scrivere di Boris Pahor racconta le vicende di un uomo libero, sopravvissuto ai lager nazisti raccontati in Necropoli, sempre in rotta di collisione con il Potere, qualunque colore politico avesse, un arazzo con le lettere dell’alfabeto, cucito a mano da Anita Pittoni, testimonia la multiforme creatività di una donna che ha attraversato il ‘900 triestino con genialità e umiltà. Assommando in sé i talenti di scrittrice, editrice, stilista di abiti dal taglio modernissimo, animatrice di un salotto letterario che tenne a battesimo giovani di talento come il critico cinematografico Tullio Kezich e il poeta Claudio Grisancich.

Un pugno di oggetti, poi, racconta quello che è stato il più mesmerico “bracco di libri” della cultura italiana del ‘900: Roberto “Bobi” Bazlen. L’uomo che sapeva innamorarsi di capolavori come L’uomo senza qualità di Robert Musil, facendolo scoprire all’Italia. Ma che riusciva anche a fiutare per primo il talento visionario di un autore come Ray Bradbury, spesso emarginato nel ghetto della letteratura di massa.

Del suo percorso di uomo che affidava la divinazione dei suoi giorni a I Ching, di ispiratore di molte case editrici, tra cui quel gioiello che è Adelphi, rimangono tante carte e pochi oggetti, esposti a Trieste grazie al prestito di Anna Foà, figlia del suo buon amico Luciano. Le ultime, piccole cose che accompagnarono Bobi nell’ultimo viaggio il 27 luglio del 1965: un pacchetto di sigarette, una sveglia portatile in pelle nera con le lancette d’oro, un libretto con gli orari dei treni, una piccola agenda in cui segnava gli appuntamenti. Frammenti di vita di un intellettuale difficile da rinchiudere dentro schemi predefiniti, di un infaticabile lettore che credeva nella grande letteratura come fosse una divinità da amare e venerare. Tanto da accorgersi dell’immenso valore di un illustre sconosciuto come Ettore Schmitz e portarlo a diventare il grande Italo Svevo, senza mai prendersi il merito in prima persona, ma affidandosi al talento e alla sensibilità del poeta-giornalista Eugenio Montale.

Proprio a Bazlen deve il suo ingresso nel catalogo di Adelphi, dopo aver debuttato con i racconti de Il Sosia nel 1962 per Einaudi, un altro triestino: Stelio Mattioni. Lo scrittore che Italo Calvino definiva “misterioso sul serio”, per la sua fascinazione ad attraversare i territori dell’arcano.

Fu proprio Bobi a sottolineare il valore dei suoi romanzi, da Il re ne comanda una a Palla avvelenata. E qui, il Museo LETS riserva una sorpresa: aprendo un cassetto, spuntano i disegni che Vanna Vinci ha creato per la versione a fumetti del Richiamo di Alma, il romanzo che nel 1980 è stato finalista del Campiello.

Molti altri cassetti contengono piccoli gioielli, che vanno a completare l’esposizione. Si rivelano come tessere di un mosaico da comporre seguendo un filo logico del tutto personale. Senza dover seguire rigidi schemi. Del resto, tutto il progetto concede una libertà assoluta nel comporre e scomporre il proprio viaggio letterario.

Ad esempio, a pochi passi dal manoscritto di Il mio Carso di Scipio Slataper, prestito dell’Archivio di Stato di Trieste, si trovano matite e colori che il poeta Virgilio Giotti si divertiva a usare per ritrarre amici e familiari. Poco più in là, spuntano le testimonianze del passaggio per Trieste del grande Henri Beyle, in arte Stendhal, che sulla città ha lasciato note grondanti frustrazione e delusioni. E quella del Premio Nobel per la letteratura Ivo Andrić, che ha legato il suo nome a un libro intriso delle eterne inquietudini balcaniche come Il ponte sulla Drina.

Testimonianze di quanto Trieste sia stata crocevia obbligato per il passaggio di grandi personaggi della cultura. E, in certi casi, anche protagonista di appuntamenti mancati, come nel caso di Franz Kafka, assunto negli uffici praghesi delle Assicurazioni Generali per la somma di 80 corone che pagavano “8-9 ore di interminabile lavoro”. In realtà, l’autore del Processo e della Metamorfosi vide Trieste solo per poche ore nel settembre del 1913, in compagnia dell’amico Max Brod, visto che il suo ventilato trasferimento negli uffici cittadini della compagnia non avvenne mai. Anche a causa delle sue precarie condizioni di salute, che lo portarono a rassegnare le dimissioni il 14 luglio del 1908 con una lettera inviata dall’agenzia di Praga.

LETS intercetta anche la traiettoria delle Elegie Duinesi, raccolta di versi che Rainer Maria Rilke scrisse di getto nel 1912, e poi rifinì nel decennio successivo. A innescare l’ispirazione del poeta boemo fu l’ospitalità ricevuta da una sua grande sostenitrice, la principessa Maria Thurn und Taxis nel castello di Duino, alle porte di Trieste. “È un castello immensamente arroccato sul mare – scriverà a Hedwig Fischer –, che come un promontorio di esistenza umana guarda con alcune finestre su una distesa marina smisuratamente aperta, direttamente sul Tutto, verrebbe da dire”.

È evidente, passeggiando per le sale del Museo, quanto Trieste abbia sempre avuto una scontrosa sintonia con la letteratura, proprio perché gli interessi della borghesia cittadina hanno sempre ruotato attorno ai traffici di merci nel porto e ai numerosi canali di commercio. Molti ignorano, ad esempio, che nel cimitero greco-orientale è sepolto il diplomatico-scrittore francese Paul Morand, autore del Budda vivente, L’arte di morire e La via delle Indie. E che a Trieste tra il 1772 e il 1774, Giacomo Casanova, oltre a collezionare qualche avventura amorosa, si destreggiava a condurre un rischioso, elettrizzante doppio gioco tra l’Impero austroungarico e la Serenissima Repubblica di Venezia. Lasciando dietro a sé un buon numero di cuori infranti, casse di libri e documenti, oltre a certi non trascurabili debiti.

Entrare nel salotto di casa Svevo, ricreato per LETS con tanto di tavolo, sedie e mobili vari, permette ai visitatori di sentirsi proiettati in un’atmosfera che ha il colore del tabacco. E non poteva essere altrimenti, visti i continui richiami alle sue U.S., le eterne Ultime Sigarette di Ettore Schmitz. Da cui mai si sarebbe liberato, nonostante le reiterate promesse fatte alla moglie Livia, agli amici e parenti, oltre che a se stesso. Anche in un curioso giuramento “sulla tazza del cesso”.

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In questo frammento domestico non sono esposte solo prime edizioni dei romanzi, carte autografe, lettere. Ma anche quadri, come il ritratto di Livia Veneziani firmato dal suo fraterno amico Umberto Veruda. Oltre a un disegno che raffigura l’altro grande amore sveviano: Angiolina, che riporta in vita la Giuseppina Zergol trasfigurata nel personaggio femminile di Senilità.

Qua e là spuntano oggetti preziosi, che testimoniano le molte vite di Ettore Schmitz: l’inseparabile “crazzola”. Il suo violino, che si ostinava a suonare sognando di diventare un acclamato concertista. Senza nascondersi che non sarebbe mai andato a di là della modesta soddisfazione di fare il quarto in un quartetto per soli archi, formato con gli amici del “musizieren” a tempo perso.

Non può sfuggire il tono ironico del testamento del 1927. Dove Ettore Schmitz chiedeva ai familiari di non negargli una puntura al cuore, per essere sicuro di non farsi seppellire in uno stato di morte apparente. Si raccomandava, poi, che al funerale non partecipassero né preti né rabbini, visto il suo status di ebreo convertitosi al cattolicesimo per sposare Livia Veneziani. E di convinto non credente.

Le ultime parole chiudevano questo pirotecnico documento con una sintesi perfetta del suo essere nevrotico, eppure sempre capace di guardare con tagliente ironia ai fatti della vita e della morte: “Non saluto nessuno perché spero di rivedere tutti questa sera”.

Non poteva mancare a LETS una sezione dedicata interamente a Umberto Saba, il poeta che collezionò più pseudonimi di tutti: da Umberto da Montereale a Umberto Chopin. Tanto, quasi, da far scordare il suo vero nome e cognome: Umberto Poli.

Nel 1948, Saba decise di scrivere una Storia e cronistoria del Canzoniere firmandola con il nom de plume Giuseppe Carimandrei. Perché, così, gli era possibile costruire un monumento in vita dedicato a se stesso, fatto di studiate parole, sotto mentite spoglie, tanto da trarre in inganno qualcuno di quei critici e studiosi che non si erano peritati di dedicare particolare attenzione al suo capolavoro in versi. Non certo Giacomo Debenedetti, a cui il testo era dedicato: l’unico intellettuale davvero capace di amare e comprendere il valore della poesia sabiana.

Nella sezione dedicata a Saba, oltre a molte lettere, alla sua pipa donata dal poeta al giovane scrittore Sergio Miniussi, a bellissime fotografie, la tecnologia utilizzata in varie parti del Museo permette di interagire con una versione digitale del Canzoniere, realizzata in collaborazione con l’Università Cà Foscari di Venezia.

L’esposizione, poi, interroga il rapporto di Saba con gli artisti del suo tempo. Soprattutto con Vittorio Bolaffio, che gli dedicò un importante ritratto, più volte riprodotto sulla copertina di varie edizioni sabiane.

Joyce non abita le sale del Museo soltanto con le parole, le lettere e i libri. Ma anche in una rivisitazione di alcuni momenti e luoghi del suo lungo soggiorno a Trieste. Così, una accanto all’altra ci sono la panchina dove lasciò ad attenderlo, per molte ore, la giovane Nora Barnacle, dopo il loro arrivo alla stazione il 20 ottobre 1904. La storia racconta che James si assentò per trovare un alloggio, ma riuscì a finire presto nei guai, facendosi trascinare in una furiosa lite di marinai irlandesi ubriachi. Arrestato dalla polizia, trascorse alcune ore in prigione, malgré lui. Recuperando la sventurata compagna appena la mattina successiva.

Di fronte alla panchina, una porta eduardiana si spalanca per raccontare alcuni scorci della sua Dublino. E ancora un po’ più in là, la finestra dell’appartamento al secondo piano di via Bramante 4 testimonia il peregrinare dello scrittore in varie case di Trieste, con moglie e figli al seguito. Aiutato sempre con grande generosità dal fratello Stanislaus, che spesso copriva i suoi ammanchi di denaro scialacquato tra osterie, bettole e bordelli. Primo tra tanti, l’amato, minuscolo Metro Cubo.

A completare il viaggio nel mondo degli scrittori di LETS c’è il Cinematografo delle Storie: una sala video dove si possono vedere i film girati a Trieste, attraverso la forma sintetica del Book-trailer, ma anche i manifesti delle numerose produzioni ispirate a famosi romanzi di autori triestini. Nell’Edicola della Storia, invece, un’ampia selezione di pagine tratte da testate locali e nazionali racconta il tormentato accavallarsi di guerre e pace, di scontri e momenti fulgidi in città. Oltre al suo rapporto con la cultura e la letteratura.

Geniale l’idea di creare una sorta di studio psicanalitico, in omaggio al legame forte tra Trieste e Sigmund Freud, suggellato, per lunghi anni, dalla presenza in città del suo allievo Edoardo Weiss. Nella stanzetta del Dottor S., che esce dritto dritto dalle pagine della Coscienza di Zeno, si può interagire direttamente con un computer per provare il brivido della simulazione di una seduta personalizzata di analisi.

Un Museo degli scrittori è come una sorta di parco giochi per i lettori. Così, LETS ha pensato di creare per loro due postazioni che si affacciano su piazza Hortis. Qui ci si può sedere a sfogliare uno degli oltre duemila volumi in esposizione (ampia la presenza di autori contemporanei: da Paolo Rumiz a Marina Mander, da Diego Marani a Susanna Tamaro, da Pino Roveredo a Marko Kravos, da Mary Barbara Tolusso a Mauro Covacich, da Christian Sinicco a Luigi Nacci). Oppure farsi raccontare il testo preferito ascoltando uno degli audiolibri del progetto LETSlisten. O, ancora, lasciandosi trasportare da uno dei file audio tratti dagli archivi della sede Rai del Friuli Venezia Giulia.

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