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Chromoterapia: lo stordimento dei colori

26 Marzo 2025

Il divanetto del centro benessere è verde pastello. Comodo. L’opuscolo fucsia spiega che la cromoterapia è una disciplina olistica, si serve dei colori per il trattamento di specifici disturbi, combatte l'ansia, abbassa la pressione sanguigna, influisce sul sistema metabolico e sull’equilibrio; se indirizzato con un puntatore sulla parte dolente, il fascio luminoso blu verde arancione allevierebbe persino le sofferenze. Sappiamo benissimo che tutto ciò è privo di qualsivoglia fondamento scientifico, ma d’altro canto il colore agisce sull’emotività – giallo/gioia; rosso/rabbia; azzurro/tristezza –, a questo possiamo credere, male non fa, e poi la noia, la noia, e allora perché no, scegliamo dal listino dei servizi trenta minuti di respirazione del colore, a seguire una sessione di cromopuntura. La ragazza ci offre del tè in una piccola coppetta, il plin! della transazione andata a buon fine, mi raccomando ci segua sui social; usciamo dalla porta a vetri del centro wellness con la cromodieta personalizzata in base alle esigenze dell’organismo.

La terapia del colore, così come altre pratiche da first world, è un potente analgesico. Ma una volta terminato l’effetto, cosa resta? Se lo chiede – e ce lo chiede – la mostra Chromotherapia. La fotografia a colori che rende felici, (Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, a cura di Maurizio Cattelan e Sam Stourdzé, fino al 9 giugno). E l’aggettivo “felici” del sottotitolo, pronunciato sollevando appena un lato della bocca in un mezzo sorriso, suona amarissimo: felici?

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Copertina del catalogo © Walter Chandoha.

Ad avvertirci è l’adorabile gattino su sfondo rosa che appare sulla affiche e sul catalogo. Attenzione: in queste sale tutto è normale ed eccessivo, irreale e reale. È uno yo-yo che sale e scende tra l’ironia e la denuncia, la leggerezza e la disillusione.

Tale ambivalenza è dovuta proprio al colore che essendo scelto, manipolato o sottratto, ha a che fare con la falsificazione, ovvero con un atto creativo. In bianco e nero le cose sono davvero ciò che sono, essenza disvelata. Ma di fronte ad automobili blu elettrico e a capelli giallo limone l’intelletto deve rimanere vigile, come in quelle conversazioni in cui non sappiamo se l’altro dice sul serio o ci sta prendendo in giro.

Più che un display di belle fotografie, quella di Villa Medici è un’indagine sul medium fotografico e sulla potenza del colore. Le immagini vibrano: l’intento è colpire, attrarre, scuotere, sconcertare. Per il visitatore, a dispetto dell’atmosfera giocosa e disimpegnata dell’allestimento, l’esperienza è – per fortuna – tutt’altro che cromoterapica. Se ne esce iperstimolati e anche un po’ storditi, con la vaga malinconia di quando, alla fine dalla festa, ci si sente un po’ ridicoli nell’abito di paillettes.

Il percorso dell’esposizione si sviluppa in sette sezioni (femme fatale, glossy, foodorama, etc) ognuna pensata come un diverso punto di ingresso tematico. Per alcuni artisti si tratta di mettere in luce le contraddizioni sotterranee della nostra società; per altri, di ribaltare gli stereotipi sui generi e sui ruoli; ancora, di un gioco a rincorrersi tra surrealismo, pop, glamour fino a sconfinare nel Kitsch.

Il punto di partenza: nel 1907 i fratelli Lumière inventano autocromia ma si tratta di un procedimento ancora costoso e complesso. Poi, nel 1935 Kodak (“You press the button, we do the rest”) lancia Kodachrome e arriva il successo di massa. La fotografia a colori resa accessibile rivoluziona lo sguardo e spinge da subito molti fotografi a sperimentarne le possibilità. Tra questi, nella prima sala della mostra troviamo Madame Yevonde, che negli anni ’30 fa posare donne dell'élite londinese nelle vesti di personaggi mitologici, ricreando set immaginifici; nasce Goddesses, una serie fotografica che unisce l’esplorazione della sessualità (talvolta con inversioni dei ruoli di genere) alla fantasia e all’ironia.

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Lady Dorothy Warrender as Ceres (1935), Yevonde. © National Portrait Gallery, London.

Senza l’arancione, esisterebbe l’arancia? Talvolta il colore fa l’oggetto, il rosso rende labbra le labbra. Sono le foto di Erwin Blumenfeld, tedesco fuggito in Francia all’avvento del nazismo e poi emigrato in America nei primi anni Quaranta. Influenzata dal surrealismo, la sua fotografia esalta l’ambiguità, la fusione di oggettivo e immaginario, dove spesso si insinua un’oscillazione erotica: bocche perfette su una pelle lattiginosa. L’ambiguità tra donna e manichino non è risolvibile in un senso o nell’altro. Tutto è possibile: invito, attesa, ossessione.

D’altra parte, il rapporto intimo tra colore e fotografia di moda è noto e non stupisce la scelta di inserire in mostra gli scatti di Guy Bourdin che dal 1955 al 1990 lavora per Vogue France, Harper’s Bazaar, Yves Saint Laurent, Chanel e Versace. Una modella è distesa a terra, nuda. A fianco, una vasca di plastica, tre pesci rossi, una scarpa dimenticata: è lo stile subito riconoscibile delle sue composizioni enigmatiche e di grande impatto, spesso giocate in quella zona tra realtà e messa in scena in cui il sonno assomiglia alla morte.

“Dovremmo cominciare accettando come un dato di fatto che il colore è la qualità più potente di qualsiasi immagine. È più forte del disegno e della forma, più forte anche del contenuto e della composizione”, scrive nel 1969 Andreas Feininger in The color photo book. E infatti, il potere del colore ci fa avvicinare all’immagine di una donna che si copre gli occhi con le mani. Solo a un secondo sguardo realizziamo che è impossibile, contiamo, ci sono ventotto unghie laccate di rosso, è assurdo, perverso…

Exhibition view. Sulla parete di sinistra, Guy Bourdin Vogue Paris, Maggio 1970 © The Guy Bourdin Estate 2025. Sulla parete di destra, le foto di HIRO.
Exhibition view. Sulla parete di sinistra, Guy Bourdin Vogue Paris, Maggio 1970 © The Guy Bourdin Estate 2025. Sulla parete di destra, le foto di HIRO.

Le foto di Bourdin dialogano con quelle di Hiro (fotografo di moda nippo-americano allievo di Richard Avedon) sulla parete opposta: corrispondenza immediata con l’unghia rossa di un piede, che ripreso in primissimo piano diventa una gigantesca massa astratta. Una formica-Sisifo ha raggiunto la punta del dito, ha conquistato la cima, trionfa. A fianco, un altro piede-sasso è adagiato su una spiaggia di ciottoli porosi; sopra il tallone cammina una tarantola, il tempo si allarga, qualcosa incombe, la vita di tutti è appesa all’inconsapevolezza; salvi, finché il piede non si accorgerà dell’insetto e l’insetto non saprà del piede.

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HIRO Foot Series 6, New York, 1982 © Estate of Y. Hiro Wakabayashi.

Alcuni dei fotografi in mostra replicano l’uso del colore della grafica pubblicitaria (loghi, insegne fluorescenti, poster commerciali) poi ripreso ed estremizzato dalla pop art e dai suoi derivati per alludere ai caratteri della società del consumo. Martin Parr mette così insieme un inventario composto da decine di immagini di junk food: patatine fritte, uova, salse, hot dogs, torte, muffins coperti di zucchero dai colori fluo. In questo vortice di cibi artificiali un bambino afferra una ciambella con entrambe le mani sporche, un secondo morso lo farà vomitare e noi avvertiamo la nausea del mondo indigeribile, grasso, unto e malsano in cui viviamo.

Le immagini, il colore: dati che il nostro cervello deve processare non solo con l’occhio bensì – come voleva la teoria dell’Einfühlung, o “empatia”, che a inizio Novecento aveva stabilito un’equivalenza tra colori, suoni e stati d’animo – attraverso l’intero sistema percettivo con un’interazione emotiva e sinestetica.

“Vediamo” anche con il corpo, dunque, e da certe rappresentazioni della realtà riaffiora qualcosa di familiare, una sensazione dimenticata, il ricordo di un sogno a colori. Senza preavviso: la macchia ocra in quella foto assomiglia a una guancia cadente, qualcosa di perturbante ci viene incontro, ci colpisce senza palesarsi del tutto.

Accade così con le foto di Arnold Odermatt che in più di quarant’anni di servizio in qualità di fotografo di polizia ha documentato in bianco e nero incidenti stradali, registrando prove per cause giudiziarie e richieste di risarcimento. Ma una volta esauriti i doveri d’ufficio, le pratiche di soccorso e il dramma umano, Odermatt scattava anche qualche foto per sé. Nei fanali ripresi in primo piano, fusi per il calore di un incendio, il colore liquefatto delle plastiche è carne, sono volti sfigurati, viscere fuoriuscite. Corrispondenze inconsce con i nostri incubi profondi.

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Arnold Odermatt, Hergiswil, 1982 © Urs Odermatt, Windisch, Galerie Springer Berlin.

Così come il travestimento, il colore è un’enclave di libertà, in cui si può mostrare il proprio desiderio senza contraffazioni. Secondo questa chiave di lettura, gioco, trasgressione ed eccesso caratterizzano l’ultima sezione della mostra, in cui si trova l’estetica camp del duo Pierre et Gilles, i lavori di Ruth Ginika Ossai che inserisce elementi dell’identità culturale e delle tradizioni fotografiche nigeriane in scenari contemporanei iper-artificiali, oppure ancora le immagini irriverenti della fotografa spagnola Ouka Leele (testimone della movida, la nuova sensibilità culturale nata dopo la morte di Franco), che parlano di rinascite e liberazione dei corpi con la fine della dittatura.

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Ouka Leele, Escuela de romanos, 1980 © ADAGP, Paris.

Colore colore colore: per una mostra in cui si rischia l’information overload, diversamente da come ci si aspetterebbe, la scelta curatoriale è di non informare. Niente cartellini sotto alle opere, “pannelli” di sala scarni e poco leggibili; anche il libro che accompagna la mostra è quasi privo di testi. Il visitatore è lasciato da solo davanti alle fotografie, l’immagine si prende tutto lo spazio, fisico e mentale, grandi wallpaper occupano intere pareti. L’intento è chiaro: l’allestimento riproduce in grande scala il format della rivista Toiletpaper – che diventa così il filo conduttore della mostra – ideato proprio da Cattelan e Pierpaolo Ferrari.

Poche parole, totale immersione.

Ma è pur sempre una parola a chiamare un colore. Da piccoli impariamo a dire “giallo come”, “rosso come” l’anguria la mela la cresta del gallo, come una maglietta appesa al filo, come una teiera una cartella un paio di stivaletti rossi, come la sirena della polizia e la macchinina più veloce. Definendo il colore con una specifica parola e non con un’altra, diamo forma a ciò che vediamo attraverso il linguaggio. Per questo, la scelta di proiettare in un ambiente laterale il cortometraggio di Abbas Kiarostami (Les couleurs, Iran, 1976, 16 min) che spiega i colori ai bambini è suggestiva e poeticissima.

Prima di uscire, riattraversiamo la seconda sala, Raining cats and dogs, con le foto di Walter Chandoha. Rosa, azzurro – questi gattini ci inteneriscono, si sorride – verde, blu –, è inevitabile sentire la loro morbidezza. Poi un pensiero ci attraversa: fuori, i colori del mondo stingono sempre più in nero.

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