Penelope, un ritratto di donna
Il canto sale, si gonfia. L’aedo narra il ritorno degli Achei dalla guerra di Troia, mentre i pretendenti siedono davanti a lui in silenzio nella casa del re assente, sazi e intenti, in ascolto della cetra. Telemaco è tra loro, li tiene a bada. Musica rosa, poi nera, poi viola. Musica verde. L’accordo si alza e sbatte sul soffitto, due, tre volte, s’infrange, esplode e si frantuma in grida d’uccelli ed è allora che in cima alla scala appare per la prima volta Penelope (I, 330). La melodia è arrivata fin dentro le sue stanze e ora implora l’aedo di intonare un canto diverso: questo è straziante, le ricorda il suo lutto; Ulisse manca da molti anni, eppure il dolore non si attenua.
Mentre scende la scalinata, resa ancora più bella dalla tristezza, la “divina tra le donne” è coperta da un velo e tuttavia totalmente esposta allo sguardo dei pretendenti, al giudizio recondito del figlio, alle leggi sociali. È anche esposta alla gloria di Ulisse, che si “estende per l’Ellade e fin dentro la terra di Argo”. La gloria sopraggiunge da altrove, come qualità pesante donata dagli dèi: lui la porta, lei ne condivide l’onere. La gloria è un bagliore, “la diffusione di una sovrabbondanza, l’esuberanza, la profusione di un’ampiezza” (Jean-Luc Nancy, Ingloriosa Gloria); esiste solo per mezzo della parola di chi la celebra, come il canto epico dell’aedo Femio. Ma anche Penelope, con il corpo dolorante di nostalgia e con suoi lamenti, incarna il possibile manifestarsi di Ulisse, ne riverbera il nome. Per questo, oltre che della casa, è guardiana della sua gloria.
All’esposizione violenta al mondo e alla politica, si contrappone un ripiegamento pudico del personaggio, che si ritira nelle stanze della parte più intima della casa e lì piange, ricorda, prega. “Quando nessuno vede, si può essere sé stessi” (Michail Bulgakov, La guardia bianca), e infatti nei momenti in cui rimane sola, Penelope vive tutte le sfumature della sua femminilità. Si abbandona a letto per far passare le mezze ore, rifiuta il cibo, non tocca il vino (IV, 788), si sfinisce di pianto augurandosi la morte, finché Atena le getta il sonno sopra le ciglia (I, 364, IV 793 e XVI, 451), dolce anestetico per dimenticare la realtà. E proprio in questa oscillazione tra interno ed esterno, tra presenza pubblica e vita privata, tra mégaron (la sala principale al piano terra) e oikos (la parte interna dell’abitazione), si esprime la doppiezza di Penelope, personaggio dotato di una ricca articolazione e di un proprio statuto psicologico. C’è in lei – in ciascuno di noi – una sottile ambivalenza, che si svela soprattutto sulle soglie: quella fisica della sua stanza e quella simbolica del passaggio tra il sonno e la veglia.
“Ma la sua mente ad altro pensa” (II, 92; XIII 381; XVIII 283): forse proprio per il non-detto portato dal personaggio, nei secoli il mito di Penelope è stato via via reinterpretato, facendo prevalere un tratto o l’altro a seconda dell’epoca e dei valori culturali di riferimento. Moglie fedele o infedele, donna abbandonata e poi ancora casta figurina morale in due dimensioni, incarnazione del matrimonio borghese, finanche icona femminista; sono molti i racconti che affiancano i poemi omerici nonché le reincarnazioni letterarie in cui lei stessa prende la parola e presenta la sua versione, come nei romanzi Penelope, di Silvana La Spina, Itaca per sempre, di Luigi Malerba e, più recentemente, Il canto di Penelope, di Margaret Atwood.
Mentre Ulisse vagabonda per terre sconosciute “come acqua gettata di scoglio in scoglio per anni e anni giù nell’ignoto” (Friedrich Hölderlin, Hyperion (1797-1799), Zweites Buch), Penelope si muove in uno spazio limitato, dalla sala al pianterreno alle camere, dal letto alla soglia di pietra. Un’ambientazione circoscritta che assomiglia a un piétiner sur place. Personaggio-perno, agisce attraverso la sua fissità e diventare – invecchiare – è il suo unico movimento. Tuttavia, le dure regole del tempo sono più ingenue di quanto non appaia e Penelope pare governarle. Mantiene la posizione, sta dentro allo struggimento, resiste, si fa macerare dalla nostalgia, ma ostinata, resta. Aspetta un uomo irreale. Aspetta un ricordo; lui ora chi è? Non sa se il marito sia vivo o morto e quanto sia cambiato. Il dramma di una felicità rimandata di continuo.
“L’attesa è un incantesimo” e, barthesianamente, aspettare significa amare. Farsi tormentare dall’immaginazione, onda e risacca, speranza e sconforto. La mancanza dell’uomo è un cupo vibrare del corpo, una nota di fondo lunga l’intero giorno, ogni giorno. “Lei ha una voglia da donna. Di cosa? Ma del Tutto, del Grande Tutto universale” (Jules Michelet, La strega). E lui non è lì a guardarla. Il pianto nato morto le scalda gli zigomi. Una trafittura. Altrove, ma dove? Con chi, sotto quale luce. “Se lui tornasse, e si prendesse cura della mia vita” (XXIII, 254). Sa bene che “in preda a sciocchi timori, puoi essere preso dall’amore per una straniera” (Ovidio, Heroides): il veleno di immagini verdi, neri, viola si diffonde lungo le braccia, lungo le gambe. Nel logorio di questi pensieri si gioca la partita tra colpa e assoluzione. In fondo, non ha scelto lui di andare, è il capriccio degli dèi immortali. Sicura? Lui avrebbe comunque scelto di andare. Andare per andare, continuamente, per quella o quello, oltre, chissà come, avanti, e poi dove? senza motivo, sempre in esilio, ancora più in là, un miglio, due, tre miglia più in là, quasi a sfiorarla – quella cosa dura così poco - ma cosa? Eternamente ritornare.
C’è un’ora verso sera, giusto prima che sia sera, in cui va meglio. L’animo si placa, ma il sollievo dura poco: sa quanto l’indomani sia lontano. Ogni notte, una nuova Trauernacht. Anche gli angoli bui della stanza mandano lamenti, mentre Penelope sogna di avere accanto nel letto un uomo a lui somigliante (XX, 90). Vent’anni di sonni cattivi; immagini allucinate di oche per la casa che beccano il grano e un’aquila che a tutte spezza il collo, lasciandole a terra (XIX, 535).
Quando “Aurora dalle dita di rosa” la scuote, è il momento erotico del risveglio, nel quale la luce da fuori raggiunge il suo piede e il lino scivola sulla pelle. Un istante di libertà, nel silenzio degli oggetti, in cui la vita è possibile per come appare. E allora nasce “un’euforia nel mezzo dell’infelicità”; sente il desiderio di mostrarsi agli uomini, si fa bella, deterge il corpo e ravviva le guance di unguento, ride senza ragione davanti allo specchio (XVIII, 164).
Subito prova vergogna. Chiama a sé le ancelle e si copre il viso col velo; torna in sé. Dà consigli alla sua immagine riflessa: sii all’altezza della maschera che indossi. Mantieni una postura elegante. Se stai male, non farlo sapere a nessuno.
Qui la fedeltà, più che una categoria morale, è uno strumento di esercizio del potere. Penelope non può sottrarsi alle leggi della sua epoca; è soggetta al padre, poi al marito, infine al figlio, in uno schema classicamente patriarcale. Nonostante ciò, riesce ritagliarsi uno spazio di libera iniziativa e per questo, oltre che “saggia”, le viene attribuito l’epiteto di “astuta”; come per Ulisse, “l’astuzia come mezzo di uno scambio dove tutto avviene secondo le regole, dove il contratto è rispettato e la controparte tuttavia ingannata” (M. Horkheimer, T. W. Adorno Dialettica dell'illuminismo).
Tenere sospeso il tempo è la formula del suo potere. Regno vacante, in potenza. Finché lei aspetta, fedele per scelta, il suo nome è pronunciato in qualità di regina. Seduce, elude, prolunga la domanda: chi sarà il prescelto? I pretendenti le offrono orecchini simili a more, collane, un peplo ricamato. Lei ammicca, accetta i doni, “tutti illude, promette a ognuno, e manda messaggi: ma la sua mente ad altro pensa” (XIII, 380). Lei stessa avanza loro delle richieste con deliberata volontà di ingannarli (XVIII, 275); oppure mette in atto espedienti degni del marito (II, 105).
Quando ha bisogno di sentire la sua mancanza, va a sedersi davanti al grande telaio. Fare e disfare, disfare e fare: l’inganno diventa preghiera, come il rosario sgranato nelle mani delle vedove che riparte da dove si chiude e mai si risolve. Alzare il liccio, far passare il filo di trama, avvicinare il pettine, ancora e ancora; un’oasi meditativa dove le emozioni vengono messe a tema.
Nel ritmo impartito dal gesto, Penelope rende produttivo il desiderio. Tenere lo sguardo fisso la linea del tessuto avanza; assolutamente non pensare a lui, a nulla, essere nulla, bianco sudario, bianco vuoto. La tela è una soglia tra immaginario e simbolico, uno spazio e un tempo interiorizzati; è “l’unica via che conosce per coniugare passato e presente, per accordare la memoria alla progettualità̀, l’irruzione degli eventi ai suoi ritmi temporali, alla sua storia personale” (Laura Faranda, Dimore del corpo).
Gli uomini credono che stare al telaio sia cosa innocente. Si sbagliano. Pur sotto lo sguardo che controlla e la vuole presente, Penelope è altrove, diviene impercepibile. Non è la sola, le donne lo fanno di continuo. Così come la tessitura, altre mansioni storicamente femminili confinano nella ripetizione e ricreano una dimensione uterina piena di mistero che sfocia in atto di liberazione, di ingresso nel cosmo. Mani intente a filare, al ricamo o al lavoro a maglia; che intrecciano cesti, sbucciano, tagliano, piegano.
Raffaella della Olga batte sui tasti della macchina da scrivere, ossessivamente. Digita lettere, simboli, segni, il foglio si riempie di pattern ricorsivi. “C’è del resto un rapporto etimologico tra textum, il testo, e texere, il tessere. Il filo o il nastro inchiostratore scorrono su due supporti che lasciano una traccia, e poi ci sono il suono, il tratteggio, le linee delle cuciture” (da una intervista del 2018).
Mentre lavora al telaio, Penelope protegge i tre modi del mistero, ovvero la struttura portante del potere.
Tessere e insieme cantare: una liturgia che connette al mysterium, l’oscuro inconoscibile. Al di qua della tela la nostra finitudine; al di là, altezze e profondità del volere divino e della dimensione inafferrabile della natura. La stanza di Penelope è un’arca sigillata, il luogo arcanum dove custodisce i propri pensieri, “molte cose meditando nel cuore” (I, 427) ed è questa la funzione politica del mistero: la regina di Itaca, sempre informata di ciò che accade all’esterno, trama in silenzio. Un luogo separato, ovvero secretum; la camera si trova al piano rialzato della casa e Penelope è lì dentro. Irraggiungibile, inosservabile. I pretendenti banchettano nella sala principale, sanno che qualcosa accade di sopra, si chiedono cosa? E nella possibilità che il segreto sia rivelato a uno e non ad altri, proprio in questa tensione, si configura il potere del mistero.
Vent’anni: la quercia che non superava il muretto ora è alta quasi trenta metri. Penelope ha dovuto difendersi dai complotti di chi voleva sostituirsi al comando, dalle malelingue e dai cattivi consigli, dai tradimenti delle serve; e anche dai suoi propri sentimenti, che altrimenti l’avrebbero uccisa. Per tutto questo e per l’amore, per il rimpianto del tempo rovinato, il cuore le si è indurito.
Un giorno Euriclea le dice Ulisse è in casa. In casa. E vogliono che lei creda, che sia felice da subito, che faccia domande. “Madre mia, madre snaturata, dall’animo scontroso perché ti tieni lontana, così, da mio padre, perché non ti siedi vicino, per parlare con lui” (XXIII, 99). Non è così che funziona. È troppo da dire tutto in una volta. Forse, dopo averlo tanto voluto, ora non vuole più che sia tornato; forse si era abituata alla sua condizione. Il dolore, dopotutto, conteneva un piacere, mentre ora cosa l’aspetta?
Lui è lì, in casa. “Il corpo è una grande ragione” (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra) e lentamente qualcosa si scioglie nelle ginocchia, nel petto. Penelope sorride, Penelope piange, ma non lo stesso pianto di prima, mentre questo desiderio tenace gioca la partita contro l’ultimo grande nemico: il suo soddisfacimento.
Atena lo sa, corre in aiuto e concede una notte più lunga, cosicché “Loro due, poi che ebbero goduto il piacere di amore, godevano dei loro racconti” (XXIII, 300). Per questo, più che di fedeltà, Penelope è maestra di desiderio, il quale si perpetua nel ripetersi della sua narrazione.
'Penelope', di Domenico Beccafumi. 1514. Seminario patriarcale, Venezia.
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Anche nello spettacolo P COME PENELOPE, una produzione della Fondazione TRG di Torino e di Accademia Perduta Romagna Teatri La nostra P, bloccata in questo spazio, itera il suo fare e disfare la scena - come la Penelope omerica faceva e disfaceva la tela – raccontandosi, ricostruendo il suo passato e immaginando il suo futuro.
FONDAZIONE TRG di Torino: www.casateatroragazzi.it