Tina Modotti: la fotografia vivente

8 Novembre 2023

Tina era bella. Indiscutibile: lo si vede nei ritratti di Edward Easton a lei dedicati in cui appare abbandonata, oppure intensa e consapevole, o ancora adagiata in una malinconia sognante mentre guarda la strada dal balcone di una finestra. A confermarlo sono anche i tanti personaggi (scrittori, artisti, politici, rivoluzionari) che ne hanno subito l’influenza e testimoniano di lei un fascino ben oltre l’aspetto. 

Il poeta Germán List Arzubide, esponente dell’estridentismo, un movimento messicano d’avanguardia degli anni Venti, fu tra i primi a riconoscere la sua attività di fotografa. Così ne scrive: «Non la definirei carina, ma bella. I suoi tratti erano molto italiani, voglio dire che c’era sempre una punta di tragico, di drammatico, nella sua espressione». E ancora Rafael Carrillo, membro del partito comunista: «Notai subito il suo grande interesse, la sua sete di sapere. […] Era straordinariamente bella, e tutti gli uomini – io non rappresento un’eccezione – si innamoravano di lei, nonostante non fosse affatto civetta, e non facesse niente per provocare queste reazioni. Aveva solo quella stupenda grazia naturale... La parola “innamorarsi” non è quella giusta; non c’era uno sfondo sessuale. Si sentiva solo il desiderio di starle vicini, di guardarla, di attirare la sua attenzione e di parlare con lei».

Tina. Il suo nome suona veloce e sottile, italiano ma non troppo: Tina affamata d’esperienze, Tina desiderante, pronta a continui slanci, ad affondare le mani nell’impasto dell’esistenza. Arte, amore e politica sono strumenti per afferrare la vita al massimo dell’intensità; sarà attrice teatrale e cinematografica, fotografa, attivista politica, combattente, animatrice del soccorso Rosso internazionale. Ha talento, impara veloce (le lingue, la recitazione, la tecnica fotografica, i modi per mettersi a servizio della causa), sa entrare in rapporto con gli altri, qualità che le consentono di inserirsi da protagonista nei circoli intellettuali, di “divenire nel mezzo” là dove la Storia brulica: Los Angeles, Città del Messico, Berlino, Mosca. La sua figura ricorda Marina Cvetaeva, che negli stessi anni, all’altro capo del mondo scrive: “Io voglio tutto, / con anima di zingaro / tra i canti andarmene brigante / per tutti soffrire al suono di un organo, / amazzone, lanciarmi alle battaglie” (da Poesie, trad. di Pietro Zveteremich). Entrambe sono donne autenticamente libere, tanto nel pensiero quanto nelle relazioni.

Insomma, c’è qualcosa che brilla, in Tina Modotti. Cosa? La mostra in programma a Palazzo Roverella di Rovigo (fino al 28 gennaio 2024; a cura di Riccardo Costantini) risponde: L’opera, con l’intento dichiarato di ribaltare la narrazione usuale incentrata sulla biografia anziché sul risultato artistico. Si tratta di una ricostruzione condivisibile se ammettiamo che tra lei e la sua fotografia non ci sia distanza: Tina è l’opera, l’opera è Tina. D’altra parte, l’impostazione curatoriale ne è un’inconscia conferma, poiché il materiale è organizzato per nuclei tematici (gli inizi, il rapporto col Messico e il folklore, i reportage, i ritratti, la fotografia politica) fatalmente corrispondenti a passaggi cruciali della vita dell’artista (gli uomini, i viaggi e alcuni eventi per lei determinanti), con l’effetto che lo spettatore ha la sensazione di salire insieme a Tina i gradini della sua evoluzione artistica. 

Non deve essere stato facile maneggiare una fotografia vivente; ma l’operazione è riuscita e la mostra offre in effetti uno sguardo completo sull’artista: la qualità dell’allestimento, dei cartelli di sala e del catalogo dedicato (con saggi inediti e la traduzione di contributi già editi), la quantità di documenti a corredo (filmati, riviste, scritti, ritagli di quotidiani) riflettono un grande lavoro di ricerca, svolto in collaborazione con Cinemazero, culminato nella mappatura di oltre 500 fotografie attribuibili con certezza a Modotti, molte di più di quelle note finora.

Il primo tempo di questo racconto è dedicato al rapporto di Tina con Edward Weston. Vi sono i ritratti che lei si lascia scattare da lui; le immagini delle feste e dei luoghi condivisi; le foto che lei scatta a lui. Più che la relazione amorosa è interessante la loro reciproca dipendenza. In Messico, Tina rappresenta per lui l’accesso alla parola (Weston non sa lo spagnolo) e la possibilità di destreggiarsi in una società molto diversa da quella americana. Lui, di contro, non solo le insegna a usare la Graflex 4”x5” (macchina che finalmente libera il fotografo dal cavalletto e dal panno nero), ma la mette nelle condizioni di fare arte. Ancora una volta, si conferma quanto sostenuto da Linda Nochlin nel suo Perché non ci sono grandi artiste donne: “si possono in ogni caso rilevare delle caratteristiche comuni tra le artiste: tutte, quasi senza eccezione, erano o figlie di padri artisti o legate a una personalità artistica maschile più forte o dominante, specie tra XIX e XX secolo.” 

D’altra parte, Tina è figlia del suo tempo. Weston in quel momento pratica la cosiddetta straight photography, ovvero una fotografia esatta e a fuoco, “pura” rappresentazione della realtà che ha molti seguaci in America ed Europa negli stessi anni. Tina fa propria questa impostazione e ne manterrà l’assunto concettuale lungo tutta la sua produzione, pur variando tecniche e soggetti: realizzare foto oneste, prive di artifici, essere semplicemente “fotografa”. 

Sono di questa fase i close-up di fiori e piante, le nature morte, le foto di architetture ed elementi dell’ambiente circostante. Immagini che fanno risaltare la bellezza delle strutture, la sinuosità delle linee, sia che si tratti di due calle o di tetti abbacinati di sole. Oggi siamo assuefatti a questo tipo di estetica, ma negli anni Venti questo sguardo incarnava una precisa, radicale scelta modernista in rottura con il pittoricismo delle generazioni precedenti. 

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Stairs, Mexico City, 1924–26, stampa ai sali d’argento.

Un secondo capitolo corrisponde al viaggio che Tina e Weston intraprendono nel 1926 su incarico dell’antropologa Anita Brenner per documentare oggetti folkloristici in diverse regioni del Messico. I due si addentrano nella realtà socioculturale del luogo e raccolgono foto di statuette, cerimonie popolari, maschere e pupazzi; un lavoro a quattro mani che confluirà nel 1929 in un libro celebre: Idol behind altars. Modern Mexican Art and Its Cultural Roots. Oltre ad essere un precoce esempio di etnografia fotografica, le immagini del volume testimoniano il compimento di un nuovo sguardo: Tina è attratta dall’energia della strada, dal magico racchiuso negli oggetti, dall’eccesso della festa. 

Dal 1923 al ’29 la sua produzione artistica si lega a doppio filo con il Messico e la mostra ne raccoglie una parte cospicua. La fotografia diventa per lei strumento di indagine della concreta realtà umana, della condizione sociale e del lavoro. Con personale sensibilità, le immagini rivelano la bellezza selvatica dei volti e la tenacia nella povertà: c’è in esse molto amore per il popolo e la vita di ciascuno. Un uomo che porta un grande carico di fieno sulle spalle sembra l’emblema della fatica accolta in quanto destino ineluttabile. Braccia conserte e busto leggermente piegato in avanti. Resiste. Lo sguardo è rivolto verso il basso mentre pensa, prega, o forse cerca di fare il vuoto nella sua testa per sopportare il peso e le corde che gli segano lo sterno. Un cappello messicano è fissato al covone; sta sopra la sua testa, come un crocifisso appeso alla parete.

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Uomo che porta fieno, Messico, 1927-1929.

Mani segnate, piedi luridi, gente distesa sulla strada: per Tina il corpo è denuncia politica. Un grido, le sette bare allineate di campesinos uccisi dai reazionari. Dietro, le famiglie sono una barricata. Tengono la posa di un ritratto di gruppo, guardano in camera e accettano di sospendere il dolore per il tempo dello scatto, perché la foto testimonierà l’ingiustizia di cui sono stati vittime i loro familiari.

L’interesse di Tina per l’umano è ribadito dalla sezione con le foto scattate durante il suo viaggio in solitaria nell’Istmo di Theuantepec. Resta abbagliata dalla fierezza delle donne tehuane che lavorano e prendono decisioni, godendo di libertà maggiori rispetto ad altri luoghi grazie a una società di stampo matriarcale. Da questa esperienza usciranno molti dei suoi scatti più famosi, tra tutti l’icona della ragazza che porta un cesto sulla testa, consapevole della sua bellezza e del suo ruolo nel mondo.

L’attenzione che Tina Modotti dedica alle donne fa di lei una femminista? Si sarebbe tentati di seguire l’interpretazione di Federica Muzzarelli che, nel suo contributo al catalogo scrive: “è femminista nel senso più pieno e aggiornato della parola, quello che ci permette di guardare alle fotografie verificando se siano state capaci di introdurre punti di vista nuovi, di suggerire immaginari trasgressivi, di proporre una visione differente e uno sguardo non omologato”. E ancora, “è l’attenzione focalizzata ai corpi, ai gesti, e alle persone, ai volti, all’umanità quello che sostanzia il suo essere stata una fotografa femminista”. Tuttavia, questa lettura mi pare ben poco avvalorata dalle immagini (militanza politica e denuncia sociale non sono in Modotti specificamente for feminism) e più che altro funzionale al dibattito suscitato da gender e feminist studies. D’altro canto, quali sono (se esistono) i tratti specifici di uno sguardo femminile che consentono l’attribuzione a priori di un’immagine a una donna? Non saranno invece quelli evocati da Muzzarelli caratteri comuni a tanta fotografia e cinema coevi (Walker Evans e Sergei Eizenštejn, su tutti), esaltati certo da un temperamento originale ma non per questo “di genere”?

Al centro del percorso espositivo si trova una “mostra nella mostra”, con la ricostruzione nella forma più completa mai realizzata (41 scatti dei 57/60 originali) della personale del 1929 presso l’Università Nazionale del Messico. La mostra rappresentò il pieno riconoscimento della fotografa e delle sue idee, espresse nell’introduzione a mo’ di manifesto di poetica. L’unica fotografia possibile per Tina è quella che si pone come mezzo per registrare il presente. Antiestetica e oggettiva. Senza pretese. Perché ogni qual volta la fotografia ricorre a imitazioni artistiche, rivela “una specie di complesso di inferiorità” dando l’impressione che “l’autore quasi si vergogni di fotografare la realtà”. 

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Campesinos che leggono El Machete, Messico 1929.

Il percorso della mostra di Rovigo prosegue con una selezione di ritratti che Tina scatta ad amici, colleghi artisti e che dimostra la varietà dei suoi contatti intellettuali, oltre a rievocare il fervore culturale dell’epoca. Da Majakovskij a Eizenštejn, Freeman, Vidali, Charlot, Beals e molti altri; sono immagini in cui la fotografa si concede una certa libertà, riuscendo, seppur nella linearità della composizione, ad aprire uno spiraglio sulla personalità del soggetto.

La fotografia di Tina evolve insieme al suo crescente impegno politico. Si iscrive al partito comunista messicano nel 1927 e da questo momento in poi porta avanti un’arte esplicitamente impegnata, conservando tuttavia una qualità estetica genuina e un intento documentaristico. Sono frequenti le fotografie delle masse di manifestanti, dei simboli rivoluzionari, dei partecipanti al dibattito, immagini che compaiono sui giornali, primo fra tutti “El machete”, ma anche la rivista tedesca “Aiz”, e il magazine “New Masses”. 

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Donna con bandiera, Messico, 1928 ca.

Nel 1930 Tina raggiunge Berlino, espulsa dal Messico con la falsa accusa di avere avuto un ruolo nell’attentato contro il presidente Rubio. In Germania le viene proposto di lavorare come fotogiornalista, ma non riesce ad adattarsi ai nuovi formati e alla velocità che si stanno imponendo in Europa, con le Leica compatte capaci di 36 pose a rullino contro il caricamento singolo della Graflex. Di fatto, la sua carriera fotografica è conclusa. Lascia Berlino per Mosca, in seguito si reca a Parigi, di nuovo a Mosca, poi in Spagna durante la guerra civile, infine torna in Messico, dove morirà nel 1942 a soli 46 anni.

Al di là della biografia e della sua stessa opera, quali sono i motivi del fascino che Tina Modotti continua a emanare? Forse proprio il suo essere in perenne conflitto tra arte e vita, tra impegno e passione? In una lettera a Weston del 1925 –vale la pena citare per intero il passaggio – scrive: “E parlando di ‘me stessa’: io non posso – come tu una volta mi hai proposto – ‘risolvere il problema della vita col perdermi nel problema dell’arte’. Non solo io non passo farlo ma sento che il problema della vita ostacola il mio problema dell’arte. Ma cos’è ‘il mio problema della vita’? È principalmente uno sforzo per distaccarmi dalla vita e riuscire a dedicarmi completamente all’arte. E qui io so che tu risponderai: ‘L’arte non può esistere senza la vita’. Sì, lo ammetto, ma ci deve essere un giusto equilibrio tra i due elementi mentre nel mio caso la vita lotta continuamente per predominare e l’arte ne soffre. Per arte intendo una creazione di qualsiasi tipo. Potresti dirmi che siccome in me l’elemento della vita è più forte di quello dell’arte dovrei semplicemente rassegnarmi e trarne il meglio. Ma non posso accettare la vita così com’è – è troppo caotica – troppo inconscia – da qui deriva il mio resisterle – la mia guerra con essa – sono sempre in lotta per plasmare la mia vita secondo il mio temperamento e i miei bisogni – in altre parole metto troppa arte nella mia vita – troppa energia – e di conseguenza non mi resta molto da dare all’arte.” In fondo, nonostante la sua fama, meritata, Tina non è sicura di poter essere l’artista che desidera essere: la passione per il reale, per la vita al presente, è in lei troppo forte. L’arte non ne può essere che un riflesso, fascinoso ma insufficiente.

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