Giorgio Messori tra Morandi e Ghirri
«C’è sempre una memoria depositata sulle cose, nell’interno di una casa o fra i muri e gli edifici di città. C’è sempre una memoria e un pensiero che porta lontano a immaginare lungo i solchi della terra o nell’orizzonte del mare, in una sfumatura del cielo. Di questo parlano le fotografie di Ghirri. Può essere anche la percezione di un solo momento, ma sarà un momento che basterà a se stesso. E sarà un viaggio che ci porta molto lontano, perché in quello stesso momento sarà come aver visto tutto il mondo». Così scriveva, nel 1992, Giorgio Messori – maestro in ombra della nostra letteratura – nel bellissimo testo “Fin dove può arrivare l’infinito?”, ricordando a pochi mesi dalla morte l’amico Luigi Ghirri, con il quale aveva condiviso progetti, libri e molti “viaggi immobili”, come li definivano entrambi. Tra questi viaggi c’è senz’altro quello che li ha visti uniti nel progetto fotografico su uno dei loro pittori più amati: Giorgio Morandi, un lavoro oggi riconosciuto tra i più importanti e l’ultimo realizzato in vita da Ghirri.
Nel 1990, infatti, Messori viene invitato dall’amico fotografo a visitare gli atelier del grande artista a Bologna e a Grizzana. Stimolato dal dialogo con Ghirri e dal suo modo di lavorare – quindi di guardare, vedere, fotografare – Messori scrive un testo su Morandi, Il pianeta sul tavolo, il racconto di un avvicinamento all’opera e alla poetica del pittore bolognese, che ora dà il titolo a un piccolo ma prezioso volume, edito da Casagrande, con sette immagini di Luigi Ghirri. Il libro raccoglie anche il testo “Le mattine del mondo”, scritto quindici anni dopo, quando lo stesso Messori torna a raccontare di quelle visite, spostando il punto focale della sua attenzione dall’arte del pittore a quella del fotografo.

Leggendo queste pagine, che ora formano un ideale dittico, in bilico tra saggio narrativo e racconto, viene prima di tutto alla luce come l’arte sia stata per Giorgio Messori un ponte che ricongiunge l’uomo con il mondo, così come lo è stata la scrittura. Uno sguardo-scrittura, il suo – sulla scia di Italo Calvino, ma anche dell’amato Leopardi – che accumula parole nelle quali i paesaggi interiori s’immergono in quelli esterni, così come in fondo avviene anche per Luigi Ghirri, le cui immagini sono soglie che rendono possibile un contatto tra il mondo di fuori e il mondo dentro di noi, luoghi nei quali possiamo affacciarci per riuscire a vedere meglio.
“Il pianeta sul tavolo” inizia con la descrizione di una fotografia fatta da Ugo Mulas a Giorgio Morandi. Nell’immagine il pittore è ritratto di profilo con gli occhiali sollevati sulla fronte e l’aria di qualcuno che sta osservando o ascoltando qualcosa, cioè in un atteggiamento attento, ricettivo, senza alcunché di attivo, creativo. Messori sottolinea come non ci sia nulla che faccia presumere un’esposizione di sé, narcisistica o provocatoria, scorgendo piuttosto una disposizione mentale che la riservatezza della persona conferma con coerenza. «Le sue opere – scrive Messori, traendone una lezione di stile e di vita – esprimono, infatti, la volontà di un artista che sceglie l’esercizio costante del lavoro per entrare nell’intima realtà delle cose. Il silenzio, di cui Morandi ha voluto circondare la sua vita, è quello di uno sguardo contemplativo che testimonia l’apparizione stessa del mondo, il suo costituirsi in uno spazio visibile che si forma davanti agli occhi». «I quadri di Morandi – continua – non rappresentano tanto degli oggetti quanto l’atto di contemplarli».
Ecco, il tema dello sguardo, della contemplazione, e dunque del tempo, come capacità di accrescere le nostre facoltà sensoriali, è il filo rosso che unisce entrambi i testi. «Nella cosiddetta civiltà dell’immagine […] – spiega lo scrittore emiliano – accade spesso che si moltiplichino soltanto le cartoline che ci separano dal mondo e ostruiscono lo sguardo, impedendoci di guardare le cose e di abitare lo spazio in cui viviamo. L’insistenza dello sguardo, quando si fa contemplazione di niente, cioè quando rimuove quel diaframma di cartoline, di immagini stereotipate che si frappongono tra noi e le cose, può mettere nella condizione d’incorporare un paesaggio, o cogliere una particolare intensità luminosa che rivela l’enigma dell’essere stesso delle cose e del loro reciproco rapportarsi nello spazio. Giorgio Morandi ha dedicato l’intera vita a sondare la profondità di questo enigma».

Lo stesso enigma che, a ben vedere, è stato il tarlo magnifico dell’opera di Luigi Ghirri, per il quale vedere diventa un solo gesto con il fotografare. La fotografia dunque come area di accesso alla percezione del reale. Contemplare per Ghirri significa, infatti, recuperare una lunga durata dello sguardo, lontano dall’abusata idea dell’istante irripetibile di bressoniana memoria e, in questa dimensione, scoprire spazi quasi sospesi, durate quasi inattingibili. Guardare dunque alla fotografia come a un modo di relazionarsi con l’altro. Costante in Ghirri è la nostalgia per quell’omino sul ciglio del burrone, in uno stato di continua contemplazione del mondo, misura dello spazio e rassicurante, seppure ignoto, compagno di viaggio del fotografo, sempre presente nelle tante fotografie di paesaggio viste negli atlanti. In un passaggio significativo, Messori ricorda Luigi, che «andava in giro a fotografare il mondo come se fosse un album da sfogliare. E così è riuscito a farmi capire, meglio di tutti, che dal mondo è anche stupido difendersi. Tanto non siamo che passanti, siamo stranieri anche alla strada che percorriamo ogni giorno». E ancora sull’ideale dialogo tra il fotografo e il pittore: «La sintonia con l’oggetto, che hanno sempre cercato Ghirri e Morandi, la si ottiene in un movimento verso l’altro quando questo movimento conserva la forza del desiderio inesauribile, inappagabile in quanto fuori da qualsiasi volontà di possesso. E questo movimento, ce lo ha insegnato benissimo Morandi, non deve essere affatto confuso con la mobilità, spesso anzi il movimento verso l’altro è favorito proprio dall’immobilità dell’estasi contemplativa».
Leggendo le pagine di questo volume è di qualche significato il dialogo che si stabilisce, in modo naturale, tra immagine pittorica, fotografia e scrittura. Questo grazie alla prosa illuminante e persuasiva di Giorgio Messori, che sembra accompagnare il lettore con la sua stessa voce, piana e profonda, una voce che viene da lontano e che fa entrare in un tempo lungo, sospeso, fatto di quella stessa materia di cui sono fatti i dipinti di Morandi e le fotografie di Ghirri.

Anche in questi testi che ci fanno abitare “il pianeta sul tavolo”, come in quelli nei quali Messori racconta i suoi tanti viaggi realmente percorsi nel mondo (pensiamo al bellissimo volume Viaggio in un paesaggio terrestre (Diabasis, 2006), realizzato con l’amico fotografo Vittore Fossati), ritroviamo una serie di esplorazioni intimamente connesse a una sempre rinnovata attesa dell’incontro e della scoperta, così che proprio la forma diaristica diventa sguardo su paesaggi interiori ed esterni e l’abitare le immagini diventa abitare, tramite la scrittura, gli spazi della mente. Come scrive Gino Ruozzi nella postfazione: «Di Giorgio, a Luigi piaceva «il suo modo candido di guardare le cose». […] Per Luigi lo sguardo di Giorgio era il migliore e il più sintonico per descrivere con le parole quello che lui sentiva, fermava e inventava con le immagini fotografiche».
Queste pagine, dove lo sguardo dell’autore si fonde con quello dei due grandi artisti, ci rivelano la sensibilità unica di Giorgio Messori: saper proseguire con la sua scrittura il discorso dell’altro, per restituircelo più vero. Solo i maestri vi riescono.
In copertina, Ghirri -Grizzana Studio Morandi.
