Henri Cartier-Bresson: viaggi in Italia
Ha poco più di vent’anni Henri Cartier-Bresson, quando all’inizio degli anni Trenta, arriva per la prima volta in Italia in compagnia dell’amico poeta André Pieyre de Mandiargues e della sua compagna, la pittrice Leonor Fini. È un giovane intellettuale che ha iniziato a frequentare da qualche anno il gruppo surrealista parigino e ha da poco deciso di dedicarsi esclusivamente alla fotografia, dopo avere introiettato il bretoniano precetto della “bellezza convulsa”. Sono gli anni di accesi dibattiti artistico-culturali e di lucidi confronti fra intellettuali, prima dell’imminente ascesa degli autoritarismi. Il dialogo sul ruolo, le funzioni e il futuro della fotografia, a un secolo dalla sua invenzione, si fa più articolato. Cartier-Bresson acquista la sua prima Leica, leggera e maneggevole, che diventa da subito il “prolungamento del suo occhio”, lo strumento per “intrappolare la vita”, con il quale si aggira furtivo “per afferrare, in un’unica immagine, l’essenza totale di una situazione mentre si svolge sotto i miei occhi”.
Una serie di viaggi in diversi paesi europei, in Italia il primo di numerosi, sancisce il suo talento. Già in quelle prime immagini risiede, in nuce, gran parte della sua poetica. L’abilità di cogliere un frammento in cui il soggetto appare nel suo aspetto più significativo e nella sua forma più evocatrice – o di riconoscerlo fra diversi già realizzati – diventa la cifra stilistica di tutta una carriera.
Quelle realizzate durante il suo primo viaggio in Italia sono immagini destinate a entrare nella storia della fotografia. Un esempio di quell’armonia di forme, di espressione e di contenuto che le rende allo stesso tempo registrazione di un momento e astrazione temporale.
È in questi anni che prende forma l’ideale del momento decisivo, così come lo teorizzerà nel 1952 nella sua raccolta di fotografie Images à la sauvette. Un ideale solo apparentemente immediato e “naturale”, in realtà più complesso e raffinato rispetto a quanto spesso è stato scritto e interpretato negli anni, e istintivamente adottato da generazioni di fotografi. Nell’idea di momento decisivo bressoniano sfocia, infatti, il prolungato sogno umanistico che vuole che l’uomo sappia padroneggiare le macchine, un sogno che va ben all’indietro rispetto alla breve storia della fotografia e si spinge fino all’originario intento dei prospettici rinascimentali di governare la visione stessa del mondo. Un ideale che nella visione del maestro francese porta dentro di sé anche l’allarmato desiderio surrealista di tendere tranelli alla realtà e di scoprirne i molteplici travestimenti, di presentirne il significato.
Anche per comprendere più a fondo la complessità dell’ideale del momento decisivo alla base della sua poetica, è interessante la mostra “Henri Cartier-Bresson e l’Italia”, allestita fino al 26 gennaio, a Palazzo Roverella a Rovigo, in collaborazione con la Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi, curata da Clément Chéroux, direttore della stessa fondazione, e Walter Guadagnini, direttore di CAMERA Torino, che ripercorre, per la prima volta, in maniera esaustiva e approfondita, il legame che l’autore francese ha avuto con il nostro Paese. 160 fotografie che documentano come l’Italia abbia inciso profondamente nell’immaginario visivo di colui che è stato definito “l’occhio del secolo”.
Ad accompagnare la mostra, l’esaustivo catalogo, pubblicato da Dario Cimorelli Editore: uno strumento prezioso che consente al lettore di ripercorrere cronologicamente le tappe del rapporto stretto e continuativo che ha legato Henri Cartier-Bresson all’Italia, un legame che nasce nel 1932 e termina nel 1973, coprendo l’intero arco della sua carriera di fotoreporter. Il volume riproduce numerosi documenti – giornali, riviste, copertine di libri, lettere –, esposti anche in mostra, che rivelano aspetti, tanto umani quanto artistici, meno noti, e, come scrive nel testo Guadagnini: «Permettono di illuminare ulteriormente un percorso che pure ha già avuto esegesi straordinarie a livello planetario».
A colpire maggiormente della selezione di fotografie, sono forse le prime immagini che Cartier-Bresson ha realizzato in Italia all’inizio degli anni Trenta. Immagini – penso in particolare alla fotografia con il volto dell’uomo coperto da una tenda fluttuante nell’aria, realizzata a Livorno nel 1932 – che rimandano all’estetica surrealista, a quell’assunzione dell’aspetto casuale in chiave di rivelazione delle profondità del reale e della sua possibile interpretazione, che aveva portato pochi anni prima alla scoperta dell’opera di Atget e che seguiva di un paio di decenni la ben più cosciente trasfigurazione dechirichiana del corpo umano in manichino. Ma certo più presaghe del Cartier-Bresson a venire sono le altre immagini, quei paesaggi urbani appena solcati da una presenza, costruiti sulle diagonali e sul cerchio, perennemente in attesa di un evento che si sta per compiere, dove il mondo si fa teatro della rappresentazione dell’agire umano, posto in atto da un flâneur non ancora direttamente coinvolto nel racconto della cronaca e della storia. Come le immagini realizzate nel 1932 a Firenze e a Siena.
Di lì a poco l’interesse del fotografo francese per l’impegno civile diverrà via via più vivo. Conosce in questi anni David Saymour e Robert Capa, con i quali si troverà a testimoniare la Guerra civile spagnola nel 1936. Con loro, insieme a George Rodger e William Vandivert, dieci anni più tardi darà luce all’agenzia cooperativa che rivoluzionerà per sempre il modo di fare giornalismo: Magnum Photos.
Cartier-Bresson ritornerà in Italia negli anni Cinquanta. Questa volta è un autore affermato, ha già alle spalle importanti mostre. Al secondo viaggio, in un vero e proprio Grand Tour, visita l’Abruzzo e la Lucania sulle tracce di Carlo Levi, proseguendo con i servizi per le riviste illustrate dell’epoca, tra cui “Holiday” e “Harper’s Bazaar”, dedicati soprattutto a Roma, Napoli, Venezia, per concludere, nuovamente a Matera, un vero e proprio ritorno sui luoghi frequentati vent’anni prima, in cui è facile leggere l’avanzare della modernità e la persistenza delle identità locali.
Attraverso le sue immagini si può cogliere il mutamento dell’Italia, non solo nei luoghi, ma anche nei volti che il maestro francese ha osservato con il suo sguardo umanista. In Italia incontra alcuni dei nostri più importanti intellettuali, tra cui lo scrittore Carlo Levi, del quale aveva letto Cristo si è fermato a Eboli, ma anche Pasolini, Sciascia e Ezra Pound, a Venezia nel 1971.
Come ha spiegato Clément Cheroux: «Henri Cartier-Bresson è importantissimo per il XX secolo perché incarna il riconoscimento della fotografia come arte. Gli anni tra il 1946 e il 1955 fanno di lui il più grande fotografo del XX secolo. In questa fase c’è la retrospettiva al Moma di New York, nel 1952 viene pubblicato il primo libro, Images à la sauvette, e comincia un’esposizione itinerante da Londra a Firenze e poi in Giappone. Nessun altro fotografo, in quest’epoca, fa un’esposizione internazionale di questo genere. E nel 1955 c’è la mostra al Louvre».
In tempi, come questi che viviamo, di impercettibile ma profonda rimozione di ciò che è accaduto nel passato, soprattutto in fotografia, talvolta anche ad opera di chi quel passato l’ha vissuto e l’ha scritto, la mostra e il libro dedicati a Henri Cartier-Bresson e al suo rapporto con l’Italia, consentono di ripercorrere un segmento fondamentale della storia della fotografia, attraverso le immagini di uno dei protagonisti assoluti della cultura visuale del Novecento, che ha smesso di fotografare negli anni Settanta (è morto nel 2004) intuendo, forse prima di tutti, che un certo tipo di fotografia, che lui stesso aveva contribuito a valorizzare, se non a creare, stava finendo e che un nuovo modo di osservare e di realizzare le immagini si stava affacciando. Dopo di lui il reportage non muore, ma mentre transita dal giornale al libro, termina la sua corsa: sembra ormai avere raggiunto ogni suo scopo di fronte alla storia e rispetto allo sviluppo del suo stesso linguaggio. La complessità e la velocità del mondo richiedono uno sguardo sulle cose che vada oltre l’istante, oltre l’immagine “rapita”. Perché tanti sono i momenti decisivi, non uno solo. Come, in fondo, a ben vedere, ci ha insegnato, con le sue immagini “prese di soppiatto”, Henri Cartier-Bresson.
In copertina, Cartier Bresson, L'Aquila 1951.