Luigi Ghirri tra antropologia e metafisica

2 Ottobre 2024

Capri, 1982. È l’immagine che appare sulla copertina del libro, edito da MACK, pubblicato in occasione della mostra “Luigi Ghirri. Viaggi. Fotografie 1970-1991”, al MASI di Lugano, fino al 26 gennaio 2025.

È un’immagine tra le più note del fotografo, presente anche in “Viaggio in Italia”. Una fotografia tipicamente “ghirriana”: la presenza di pochi elementi (una ringhiera, un cannocchiale, i faraglioni), l’assenza di figure umane, un’atmosfera sospesa, dove qualcosa è sempre sul punto di accadere, l’ambiguo rapporto tra vero e rappresentazione del vero. Potrebbe essere l’immagine di un cartellone pubblicitario, di un dépliant per vacanze, di una cartolina, di quelle che allora si usavano inviare dai luoghi di vacanza. Ma in fin dei conti questi aspetti poco contano. 

Se osservata con attenzione questa fotografia ha qualcosa in più, persino qualcosa di sottilmente sovversivo, dietro l’apparente immagine turistica simbolica. E tutto sta in un dettaglio, che a uno sguardo superficiale potrebbe sfuggire: la posizione del cannocchiale. Questo strumento, come tanti se ne trovano nei luoghi turistici, non è infatti puntato sui faraglioni, ma sull’orizzonte, oltre la linea del mare, verso l’infinito, come se Ghirri volesse spostare altrove l’attenzione dello spettatore che sarebbe portato, istintivamente, a osservare i due grandi corpi rocciosi; lo induce, invece, con un sottilissimo scarto visivo, ad alzare lo sguardo, a osservare oltre, persino aldilà della linea che separa il mare dal cielo. In questo modo Ghirri spinge l’osservatore ad andare oltre una visione stereotipata, cartolinesca, appunto. 

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Questa immagine potrebbe essere la trasposizione fotografica dell’“Infinito” di Leopardi. Nella poesia del genio marchigiano, l’infinito viene detto tramite continue comparazioni tra il vicino e il lontano, tra ciò che ci è prossimo, che appartiene al finito, alla finitudine della condizione umana e ciò che è distante, che sta all’infinito, e che appartiene all’orizzonte dell’incommensurabile. La parola leopardiana agisce quasi come lo zoom di una camera, mettendo così a fuoco il tema della soglia, la dialettica limitato-illimitato, conosciuto-sconosciuto. Allo stesso modo Ghirri, con il mezzo della fotografia, curando la distanza di ripresa fa in modo che la ringhiera indichi la prossimità del finito, la linea che separa la terra dal mare, mentre il cannocchiale, con un effetto di trompe l’oeil, punta oltre la linea dell’orizzonte che separa il mare dal cielo. Ghirri sostituisce la siepe leopardiana con una ringhiera che appunto ci suggerisce – visivamente – l’alternanza tra il questo e il quello, tra ciò che sembra poter appartenere al vicino, alla nostra possibilità di conoscenza sensibile e ciò che invece rimarrà sempre lontano – allontanato all’infinito – su un vago orizzonte.

Lo stesso Luigi Ghirri, in relazione alla tecnica fotografica, ha evocato un concetto molto caro a Leopardi definendola: «Un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi».

Intorno al concetto di infinito, che nella visione di Ghirri include in sé anche quello di indefinito, dunque la dialettica (ancora una volta leopardiana) di vicinanza e lontananza, ruota il tema del viaggio, che a ben vedere attraversa come un filo rosso tutta la fotografia del maestro emiliano, e che la mostra di Lugano – ottimamente curata da James Lingwood (oggi tra i più acuti conoscitori e curatori dell’opera ghirriana) – indaga proponendo un’accurata selezione di 140 immagini, perlopiù stampe vintage, realizzate tra il 1970 e il 1991, provenienti dagli eredi del fotografo e dallo CSAC di Parma. 

La retrospettiva svizzera, con un allestimento non rigido che lascia allo spettatore una grande libertà di movimento e di immaginazione all’interno degli spazi e delle varie sezioni, ricostruisce perfettamente l’idea che Ghirri aveva del concetto di viaggio: non un semplice spostamento fisico all’interno del paesaggio, piuttosto «un gesto che si compie per conoscere, riconoscere, scoprire». D’altronde per lui la fotografia «non è pura duplicazione o cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari».

Ghirri, proprio lui, pensa al viaggio come fatto mentale, alla carta geografica come luogo delle evocazioni di nomi mitici. Il viaggio potrebbe allora essere quello dentro una stanza, quello di Proust per intendersi, e lo farà Ghirri, appunto scattando foto di interni, dorsi dei suoi libri e degli spazi della loro memoria, come vediamo nelle immagini esposte in mostra nella sezione “Viaggi in casa”. Ancora, un viaggio potrebbe essere quello, senza però memoria, fra le nuvole di un cielo ripreso ogni giorno dell’anno; e viaggio ancora potrebbe essere dentro i paesaggi riprodotti in scala come nell’omonima serie realizzata in più riprese nel parco a tema Italia in Miniatura a Viserba (Rimini); oppure dentro le luci eccessive di una spiaggia dove non accade nulla, come nelle immagini di calma silenziosa al Lido di Spina, con uno scivolo o una giostra vuoti su una spiaggia deserta.

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Ghirri costruisce questo suo modo di raccontare che è un viaggio non nei luoghi ma nella consapevolezza, e insieme, di fatto, addestra gli altri a un nuovo modo di pensare lo spazio che ci circonda, luogo dei non accadimenti, luogo dove figure e cose s’intrecciano a oggetti talmente banali e ovvi che nessuno ormai si rende conto della loro esistenza. Scopre quelle esistenze, scopre il nuovo dentro lo spazio del quotidiano e scopre quindi anche la funzione della fotografia. Non contraddizione, non conflitto, ma uno sguardo attento, ironico, sempre partecipe alle cose del mondo, pronto alla stupefazione, alla meraviglia della scoperta.

Il concetto di viaggio viene dunque liberato dalla tradizionale e, potremmo dire, conformistica tendenza a cercare il diverso e il rischioso per essere consegnato a una quotidianità ricca di situazioni “banali”, che banali non sono. Il viaggio – come bene viene messo in evidenza nella mostra e nel volume –, non è volto a raggiungere luoghi lontani ed esotici, né a elaborare forme di fotografia sensazionali, programmaticamente originali, volutamente creative. Le immagini di Ghirri sono mappe che aiutano a navigare il mondo, per evocare il titolo di un’altra importante esposizione del 2019, al Jeu de Paume di Parigi: “The Map and the Territory” (catalogo edito da MACK), curata dallo stesso Lingwood, che sottolinea: «Ciò che è decisivo in Ghirri non è un momento nel tempo, ma la sua distillazione».

Non è un caso che la prima ricerca importante l’abbia fatta osservando le mappe di un atlante. Luigi Ghirri ha sempre amato le carte geografiche e gli atlanti per il loro significato totale, originario, concettuale e anche infantile: essi sono presenze importanti in moltissime sue fotografie. Nel testo che accompagna una sua ricerca chiave del 1973 dal titolo Atlante (della quale la mostra svizzera propone una significativa selezione) scrive: «L’atlante è il libro, il luogo in cui tutti i segni della terra, da quelli naturali a quelli culturali, sono convenzionalmente rappresentati: monti, laghi, piramidi, oceani, città, villaggi, stelle, isole. In questa totalità di scrittura e descrizione noi troviamo il posto dove abitiamo, dove vorremmo andare, il percorso da seguire. Il viaggio sulla carta geografica, peraltro caro a molti scrittori, penso sia uno dei gesti mentali più naturali in tutti noi, fin dall’infanzia».

La mostra al MASI cade in coincidenza del quarantennale di Viaggio in Italia, ideato dallo stesso Ghirri, qui nel duplice ruolo di regista e protagonista. Un progetto che ha marchiato a fuoco una stagione decisiva della fotografia italiana ed europea celebrando un connubio riuscito solo a pochi: quello tra antropologia e metafisica. I venti autori coinvolti, concentrandosi sulla rappresentazione di luoghi marginali, si sono interrogati sulla frattura fra l’uomo contemporaneo e il mondo da lui stesso creato. Qui il legame profondo fra paesaggio e viaggio (fra attraversamento fisico del paesaggio, percorso mentale del viaggio e ricerca di una nuova progettualità della fotografia) si presenta in modo totale. 

D’altronde, il viaggio prima di uno spostamento fisico, ci suggerisce Ghirri anche con queste opere selezionate per la mostra elvetica, è una condizione mentale che appartiene all’immaginazione. «Il solo viaggio possibile – ha scritto profeticamente – sembra essere oramai all’interno dei segni, delle immagini».

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