Umberto Fiori, poesia e photomatic

7 Marzo 2023

Nel 1972 Franco Vaccari presenta alla Biennale di Venezia l’opera dal titolo Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, destinata a marcare indelebilmente l’arte contemporanea degli ultimi decenni. Si tratta di un’installazione semplicissima nei suoi elementi ed estremamente sofisticata nelle implicazioni concettuali. L'artista modenese colloca una Photomatic (o cabina automatica per fototessere) negli spazi espositivi della Biennale ed esorta i visitatori a farsi immortalare dall'obiettivo automatico in una striscia fotografica di quattro fototessere. Alle pareti affigge un invito in quattro lingue: «Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio». L'invito viene accolto entusiasticamente. Durante l'esposizione le pareti si riempiono di migliaia di strip accostate le une alle altre in un variegato catalogo di volti, di smorfie e di espressioni. Ogni singolo scatto interagisce organicamente con l'insieme di cui è parte e realizza nel complesso un variopinto mosaico di tasselli narrativi ed emozionali. Questa Esposizione in tempo reale, spiegherà l’artista, aveva, tra gli altri, l’obiettivo di ridefinire il rapporto tra l’esperienza individuale e lo spazio collettivo.

Negli stessi anni in cui Vaccari lavora a questa installazione utilizzando le cabine per fototessere (introdotte in Italia nel 1962), oggetti oggi quasi fuori dal tempo, Umberto Fiori inizia a scattare e a raccogliere i propri autoritratti realizzati con queste macchine che di volta in volta trova sotto i portici delle città o negli angoli di qualche stazione ferroviaria. Questa raccolta stravagante, accumulata nell’arco di quasi cinquant’anni, diventa una vera e propria collezione, intorno alla quale Umberto Fiori, voce lirica tra le più autorevoli della nostra lingua, ha costruito il suo ultimo libro in versi: Autoritratto automatico, da poco uscito per Garzanti.

Se nell’opera di Vaccari l’intenzione era mettere in secondo piano l’individualità dell’artista lasciando che fossero gli spettatori a diventare autori, l’“operazione” di Fiori (come lui stesso la definisce), all’opposto, diventa una riflessione anche filosofica sui temi della conoscenza individuale e dell’identità. «La mia era un’indagine senza pretese – spiega l’autore –, un divertimento (la parola ricorreva e ancora ricorre sulle pareti delle cabine telefoniche). Quello che cercavo con tanta insistenza – più o meno consapevolmente – era la mia faccia, aldilà delle sue contingenti e provvisorie epifanie. Nonostante la santità e la maestà del Soggetto collettivo, io restavo io. Si trattava di scoprire come si mostrasse, che cosa manifestasse quell’impresentabile, inafferrabile prima persona singolare».

Seppure da una prospettiva certamente non teorica e con un linguaggio diverso, questo libro di Fiori tocca indirettamente alcune riflessioni intorno all’immagine fotografica che hanno caratterizzato la ricerca di Vaccari: la fotografia come frammento di storia e società, il suo rapporto pregnante con il concetto di tempo, il suo farsi tecnico in relazione alla nozione di autore e di casualità. C’è poi un altro elemento che sembra unire i due autori: quello che Vaccari ha definito “inconscio tecnologico”, ovvero un allargamento della definizione benjaminiana di “inconscio ottico” (la natura che parla alla macchina fotografica non è la stessa che parla all’occhio umano), che individua, spostando l’accento dall’uomo allo strumento, un’autonoma capacità dell’immagine di organizzarsi indipendentemente dall’intervento del soggetto.

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Franco Vaccari, Esposizione in tempo reale n. 4.

Fiori sembra traslare questo concetto anche in poesia, che qui pare usare a sua volta come uno strumento fotografico e alla quale, partendo da quei ritratti automatici scattati nel tempo, egli affida la ricostruzione del proprio volto, della propria storia personale. Così come avveniva nel precedente libro Il Conoscente – un’opera tra le più originali e potenti della nostra letteratura degli ultimi anni –, dove l’autore disegnava una “falsa autobiografia”, attraverso un dialogo tra il protagonista che portava il suo stesso nome e l’ambiguo antagonista chiamato “il Conoscente”. Dunque stretta è la connessione tra questi ultimi libri di Fiori, che costituiscono l’uno quasi il completamento dell’altro, un viaggio che è scavo, nella profondità della superficie, «verso la faccia», come dice il titolo della prima sezione del volume edito da Garzanti. Il bellissimo Colloquio fra il Ritratto e un giovane Visitatore – quasi una moderna operetta leopardiana (si percepisce qualche eco del Dialogo della Moda e della Morte) – sembra richiamare Il Conoscente; anche qui ritroviamo l’incontro dialettico tra due soggetti, dove non è difficile distinguere la stessa voce dell’autore che da uomo maturo dialoga con il sé più giovane mentre osserva i propri autoritratti realizzati nel tempo, rievocando incontri, mode, luoghi, stagioni passate eppure fissate in quelle immagini.

Con questa sua ultima prova Fiori è come se volesse ripercorrere la propria vita ma guardandola dall’esterno, quasi da spettatore o da osservatore delle immagini di sé accumulate negli anni. «È ferma la pupilla, sempre uguale/ in fondo alla finestra che ti riflette,/ ma non è cieca. Il suo sguardo è lo sguardo/ della cernia/ nel buio di un fondale.// Non c’è nessuno, oltre te,/ nell’antro della Sibilla».

La cabina automatica per fototessere suggerisce a Fiori associazioni e analogie, diventando di volta in volta «un mezzanino», «una capanna» accesa nella notte, «un seggio» elettorale, perfino «un gabinetto» o una lapide «che in quei due metri cubi di cabina fissa e vetrifica nasi e guance».

Le piccole immagini che la macchina automatica ha prodotto diventano tessere del più ampio mosaico che è il tempo della propria vita, anche se, come precisa l’autore, non si tratta di un’autobiografia per immagini. «Passano gli anni (tanti: quasi cinquanta)/ nel chiuso di questa scatola./ La faccia – sempre la stessa – posa per posa/ perde smalto, si appanna./ Soltanto il fondalino/ – in bianco e nero, o a colori – rimane uguale… Soltanto ogni tanto la storia fa capolino/ nel chiaro del rettangolo: una pistola/ marziana, un pacchetto di Alfa,/ un mandolino, due fucili Garand».

Come spiega lo stesso Fiori, l’autoritratto automatico è, per certi versi, anche una foto di gruppo. Scrive nella nota introduttiva: «L’autoritratto automatico – lo sappiamo – è anche una pratica di gruppo. Non ho i dati per dirlo, ma penso che il fotodivertimento (fotofun), goliardico o sentimentale che sia, tenda a prevalere sulla funzione puramente tecnico-pratica (foto-tessera). Le macchinette sembrano fatte apposta per diventare un teatrino, una cabina telefonica affollata, una capannuccia amorosa… Nella cabina con me entrano soprattutto i miei fratelli, le donne che ho amato, i miei figli, amici, compagni di avventure musicali, ma a volte anche semplici conoscenti, e persone di cui a stento ricordo il nome. Tutto un po’ a caso, senza un vero progetto».

In Autoritratto automatico ritroviamo tutti gli elementi che da sempre contraddistinguono la cifra della sua poesia, tra le più riconoscibili del nostro panorama e che molta eco ha sulle nuove generazioni di poeti: le immagini icastiche («Il sole cala, dietro le robinie»), i paradossi logici («L’ispirazione/ io non so cosa sia») e le metafore taglienti come sentenze definitive («Questo, cercavo: l’aria di famiglia/ che corre tra me e me»). Spesso le accelerazioni di senso danno a questi versi un taglio decisamente epigrammatico. Ma rispetto alla tradizione dell’epigramma manca in Fiori qualsiasi vocazione moralistica. Piuttosto le sue clausole ci aprono scenari di commossa perplessità, come in questo mannello di splendidi versi: «Ero preso. Non c’erano più scelte,/ giudizi, volontà.// Ero un peso. Tu eri/ la gravità».

Ancora una volta Umberto Fiori ci consegna un libro imprevedibile, pieno di guizzi e di intuizioni, capace di farci riflettere sul carattere mutevole ed effimero dell’essere umano, offrendo indirettamente anche una meditazione sulla fotografia: oggi l’arte più massificata e più soggetta alle minacce dell’impostura.

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