Joel Meyerowitz, flâneur a New York
Racconta Joel Meyerowitz che nei primi anni Sessanta, allora giovane direttore artistico di un’agenzia pubblicitaria di New York, gli capitava spesso di guardare fuori dalla finestra del suo ufficio perdendosi a osservare le persone che affollavano la Quinta Strada. Fantasticava che un giorno, dopo la pausa pranzo, non sarebbe più rientrato al lavoro, ma sarebbe rimasto fuori, per strada, il luogo dove la vita e la commedia umana si svolgono in modo inaspettato. Accadde davvero così. Un giorno d’estate del 1962 il suo capo Harry Gordon lo incaricò di seguire un lavoro che il fotografo Robert Frank stava realizzando nei pressi dell’agenzia. Quell’esperienza gli cambiò letteralmente la vita. Fino a quel momento non aveva mai sentito parlare di Robert Frank, ma fu proprio l’incontro con il grande fotografo svizzero a dargli la spinta e il coraggio di lasciare il proprio lavoro per dedicarsi a quello che aveva sempre sognato: vivere la città come un flâneur, osservare le persone, fotografarle nei loro gesti quotidiani e apparentemente banali. Fu proprio il suo capo a regalargli la prima fotocamera, che da quel pomeriggio d’estate non abbandonò più. Questo è l’inizio della storia di uno dei più importanti e influenti artisti-fotografi del dopoguerra e tra i maestri indiscussi della street photography.
Nato nel Bronx nel 1938, figlio di un commerciante di origini ebraiche, Meyerowitz è stato tra i primi sostenitori del colore in fotografia, contribuendo in misura sostanziale – insieme alla grande triade statunitense: William Eggleston, Stephen Shore e Joel Sternfeld – a cambiare l’atteggiamento verso questa tecnica, portandola da una posizione di diffidenza (troppo «quattro stagioni», diceva con una punta di sarcasmo qualche suo collega) a una vera e propria rivelazione. A differenza di qualsiasi predecessore, Meyerowitz nasce con il colore e muove i primi passi nell’universo della fotografia con questo materiale. La dinamica della gestualità e i suoi vividi cromatismi sono i suoi primi soggetti. Nella fase più sperimentale, all’inizio degli anni Settanta, come nella pittura astratta (color field painting), le figure divengono puri supporti dei cromatismi più disparati.
Il lavoro di Meyerowitz ha sfidato l’idea che la fotografia di strada dovesse essere esclusivamente in bianco e nero, apportando una nuova prospettiva alla forma d’arte e ispirando numerosi fotografi a sperimentare con questa tecnica. Cape Light, il suo libro totem pubblicato per la prima volta nel 1978, è considerato un classico della fotografia a colori di paesaggio.
Inaugurata da poche settimane, la Tate Modern di Londra gli dedica un’importante mostra antologica dal titolo: Joel Meyerowitz, 1962-1980, che ripercorre la stagione più felice del maestro americano, attraverso i primi vent’anni della sua fervida attività, con la quale ha reinventato e rinnovato il medium della fotografia.
Partendo dall’osservazione dei luoghi familiari e quotidiani della città, Meyerowitz ha incentrato il proprio lavoro sull’indagine delle “ragioni” della visione, mettendo sempre al centro l’uomo, anche quando la presenza umana non è direttamente rappresentata. «La fotografia – ha detto – è un’arte dell’osservazione. Si tratta di trovare qualcosa di interessante in un luogo ordinario… ho trovato che ha poco a che fare con le cose che vediamo e tutto a che fare con il modo in cui le guardiamo».
Dalle fotografie realizzate negli anni Sessanta nelle strade affollate di New York – insieme all’amico Garry Winogrand – a quelle più meditative riprese nei paesaggi di Cape Cod fino alle agghiaccianti vedute di Ground Zero (Meyerowitz è stato l’unico fotografo ad avervi accesso dopo l’11 settembre), le sue immagini interrogano e si interrogano sul senso stesso del vedere per attraversare la superficie dei fenomeni osservati. La sua fotografia è anche una potente riflessione critica ed esistenziale di un mondo segnato da cambiamenti epocali. Il suo sguardo si concentra su luoghi poco abitati dalla storia, un habitat che è diventato misteriosamente sconosciuto, incomprensibile, spesso foriero di solitudine per l’uomo contemporaneo. E in tutto questo non è estranea la riflessione sul tempo, sulla frammentazione della nostra contemporaneità. Come ha spiegato nel bellissimo libro scritto con il fotografo e storico Lorenzo Braca, The Pleasure of Seeing. Conversations with Joel Meyerowitz on sixty years in the life of photography (Damiani): «Come fotografo, ti rendi conto che ogni momento sta scomparendo come lo vedi; lo senti, forse lo anticipi, perché questo è l’allenamento che si ottiene per le strade – come anticipare ciò che potrebbe accadere, e poi metterti nel flusso in una certa direzione, in modo che possa accadere. Se succede invece qualcos’altro che non potevi anticipare, puoi esserne comunque arricchito. Quello che ho imparato, all’inizio degli anni Sessanta, è che il clic della camera strappa un pezzo di realtà fluida dal flusso e lo salva sulla pellicola. Questo rende la fotografia una forma d’arte estremamente moderna, almeno nella prospettiva del tempo, perché accetta l’idea di frammentazione».
Per Meyerowitz la fotografia non è solo uno strumento per narrare, ma soprattutto per pensare. Importante è stato anche il suo contributo teorico su questo medium, per lunghi anni ha insegnato fotografia a Princeton e a New York. Ha scritto: «Io imparo dalle fotografie. Se da una fotografia non si impara, si può solo approvarla, o dire che è una fotografia ben fatta. Ho bisogno che un’immagine mi dica che c’è qualcosa di più, che aldilà del contenuto c’è un potenziale che ti insegna qualcosa sulla fotografia. Questo mi interessa: imparare il vero linguaggio di questo medium, come esso parla».
Meyerowitz ha descritto la sua fotografia urbana come il jazz, una danza sinuosa ed erotica in cui il fotografo si fa largo con una macchina fotografica a mano. Tuttavia il suo lavoro non è confinabile solo alla pura street photography, con il tempo ha esplorato la fotografia di paesaggio e di architettura, con lunghi viaggi in America e in Europa. Con questa sua esplorazione ha inciso anche sulla fotografia italiana, soprattutto sulla generazione dei cosiddetti “nuovi fotografi di paesaggio”, molti dei quali entrati a far parte dell’esperienza collettiva di Viaggio in Italia, autori che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, per primi nel nostro Paese hanno sperimentato il colore e hanno rivoluzionato il modo di osservare e rappresentare il paesaggio. Tra questi certamente Giovanni Chiaramonte, con il quale ha condiviso una lunga amicizia e soprattutto l’idea di un tempo lungo dentro la fotografia, una visione contemplativa del mondo, partendo dalla riflessione sull’elemento della luce che in entrambi assume un importante valore simbolico. Esattamente dieci anni fa, nel 2013, l’autore milanese ha curato alla Galleria San Fedele la mostra Un sentimento della vita dedicata all’opera del maestro americano. Così scriveva Chiaramonte nel catalogo: «La visione di Meyerowitz sembra ritrovare la visione di Dante che, nel dramma della storia, attraverso la peripezia del suo poema, arriva a trasfigurare ogni lacrima di dolore di fronte alla tragedia umana nell’impensabile consolazione del sorriso che sorprende ogni uomo di fronte all’infinito che si apre nel mondo ad ogni raggio di luce».
Meyerowitz ha sempre sfruttato le potenzialità e l’effetto che le diverse fonti di luce danno alla scena, senza controllare il colore che assume la luce in fotografia. Emblematiche sono le sue vedute notturne in esterni del paesaggio urbano, nelle quali mescola più sorgenti luminose creando delle suggestive combinazioni cromatiche sulla pellicola.
Proprio l’elemento della luce è alla radice del suo profondo legame con l’Italia. Per lunghi anni ha vissuto nella campagna alle porte di Siena e alla Toscana ha dedicato, nel 2003, il libro Tuscany. Inside the Light. «In Toscana – ha scritto – la luce abbraccia tutto, ne sei partecipe. Qui sei dentro la luce, e per questo connesso con tutto ciò che rientra nella sua sfera: la terra, il cielo, la gente. È come se a ciascuno di noi fosse destinato un raggio di luce che ci unisce al tessuto dell’universo, facendoci così sperimentare un profondo senso di appartenenza, non solo all’altro, ma anche alla storia, al presente e alla possibilità di un futuro più luminoso».
Una luce, dunque, che nell’opera di Meyerowitz si fa “luce del vero”, daimon rivelatore del mistero che sta dentro la materia, alfabeto per leggere l’intera sua fotografia.
In copertina, New York City, 1963.