Paola Agosti di donna in donna
Una donna incinta, nuda, siede sul letto. Rivolge un sorriso complice e sereno al bambino dentro di lei, con una mano accarezza la pancia, mentre l’altra la sostiene dolcemente dal basso. In questo gesto semplice e potente c’è tutto il senso dell’attesa, della trasformazione, della vita che sta per nascere. È l’idea che percorre il volume Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi, 2024), con le fotografie di Paola Agosti e il commento di Benedetta Tobagi. Noi non eravamo artisti, noi eravamo dei reporter, eravamo dei testimoni del nostro tempo, l’arte c’entrava relativamente poco, noi facevamo quel lavoro per vivere, afferma la fotografa con asciutta schiettezza.

Eppure in “quel lavoro” c’è qualcosa che si spinge oltre la semplice testimonianza. Come la donna incinta accarezza il futuro che porta in sé, lo sguardo della Agosti dà vita a qualcosa che sta nascendo, un mondo femminile che si svela, si afferma e reclama il proprio spazio. Donne tra loro differenti, legate dalla forza con cui hanno cercato un destino diverso, dal coraggio con cui hanno sfidato le regole di un mondo che le voleva silenziose, sottomesse, chiuse fra le mura di casa. E grazie a loro, il cammino di chi è venuta dopo si è fatto più libero.
È questa determinazione che lega Paola Agosti alle donne, un filo teso tra lo sguardo e l’azione, tra chi racconta e chi si fa racconto. Determinare non è solo fissare un confine, dare un contorno netto alle cose, ma è anche un atto di volontà, una scelta precisa. Significa tracciare un sentiero là dove sembrava non esserci strada, prendere posizione accanto a chi è stato troppo a lungo escluso dalla narrazione ufficiale. È un gesto che incide, segna e restituisce dignità a chi, altrimenti, resterebbe nell’ombra. La Agosti non si limita a osservare, mette a fuoco. E nel farlo, si schiera.


Sono stata femminista come molte. Mi riconoscevo sicuramente nelle lotte che il movimento portava avanti. Grazie al lavoro mi consideravo una donna emancipata; tra l’altro venivo da una famiglia dove le donne erano tenute in grande considerazione e avevano studiato e lavorato.
Fra le fotografie del suo archivio, ben ventimila dedicate alle donne, ci sono le anziane militanti del Partito comunista, le donne dell’Udi, le avanguardie femministe radicali, le singole attiviste fra cui la linguista Alma Sabatini con un enorme cartello, la scrittrice Dacia Maraini che guida un corteo, la radicale Adele Faccio arrestata durante una conferenza internazionale sul divorzio, Gigliola Pierobon con l’avvocata ed ex partigiana Bianca Guidetti Serra che la difendeva contro l’accusa di aver abortito a diciassette anni.


Se il personale è politico è il principio con cui le femministe mettono in discussione la società, per la Agosti è il filtro da porre sull’obiettivo, la sfumatura che dà una tonalità nuova al reale. La maternità al lavoro, la sessualità femminile, la violenza domestica, non sono semplici questioni private, ma riflettono strutture di potere e disuguaglianze radicate nella società. Compagni nella lotta, padroni nella vita, con questa ambiguità facciamola finita è il pensiero che anima sindacaliste, operaie, casalinghe, impiegate e studentesse, nella manifestazione organizzata a Roma dai metalmeccanici il 2 dicembre 1977.
Grazie al fatto di essere una donna, e di avere una fotocamera, la Agosti viene accolta all’interno dei collettivi e delle manifestazioni con una confidenza che difficilmente sarebbe stata concessa a chi non ne condivideva l’impegno. Le femministe, infatti, erano consapevoli del potere dell’immagine e della necessità di raccontarsi con un proprio sguardo, senza mediazioni esterne che potessero distorcere il loro messaggio. In un contesto in cui i media tradizionali banalizzavano o travisavano le istanze femministe, il lavoro della Agosti era visto come una forma di militanza.

Si aprono le porte dei consultori, quelle delle case dove le donne lavorano a domicilio e accudiscono i figli, quelle di Radio città futura, emittente romana legata alla sinistra extraparlamentare, che all’interno del palinsesto quotidiano concede due ore alle femministe, una delle quali è riservata alla trasmissione Le donne escono dalle cucine.
Si aprono le porte delle redazioni, EFFE, Quotidiano Donna, e poi quelle di Noi Donne, la rivista dell’Udi con cui la Agosti collabora per più di vent’anni. È stato un lavoro molto, molto bello… Ho girato l'Italia, e grazie a Noi donne sono entrata nelle case di chi faceva una vita ben diversa dalle ragazze che sfilavano a Roma nei cortei femministi: le operaie, le mondine, le vecchie partigiane (...), per me rimane una tappa fondamentale della mia vita di fotografa e di donna.
Nel 1976 molte di quelle immagini confluiscono in Riprendiamoci la vita, un libro pubblicato dall’editore Savelli da cui sono germogliati altri progetti, nati quasi per necessità, per il bisogno di continuare a raccontare. Con Firmato Donna, Agosti ha dato un volto a cinquantasei tra le più grandi scrittrici italiane del Novecento, donne che con le parole hanno costruito nuovi spazi di libertà. Con La donna e la macchina (1983), è entrata nelle fabbriche del Nord-Ovest, mostrando le operaie nel loro quotidiano, rivelando la fatica di chi ha avuto un posto nel mondo del lavoro, ma quasi mai nel racconto ufficiale.


Nel 1977 Paola Agosti sente il bisogno di allontanarsi dalla frenesia della vita in città, dai tempi stretti della cronaca, dalla ressa dei fotografi. Chiede a Nuto Revelli, che conosceva sin da bambina perché era stato partigiano con suo padre, di poter ripercorrere con la sua macchina fotografica l’itinerario di Il Mondo dei vinti (1977) e di L’anello forte. La donna: storie di vita contadina (1985). Dai suoi numerosi viaggi nelle Langhe, nascono Immagine del mondo dei vinti (1979) e Il destino era già lì (2015).
Se Riprendiamoci la vita era il grido di battaglia del femminismo, un’esortazione a spezzare vincoli e ridefinire il proprio cammino, Il destino era già lì evoca invece il peso di una storia già scritta, di un futuro tracciato ancor prima che si possa scegliere. Nate in famiglie contadine, spesso numerose, queste donne si trovavano fin da bambine immerse in una realtà di fatica e privazioni, il lavoro nei campi era l’unico orizzonte possibile ed i ruoli erano rigidamente definiti. Fotografarle non significa solo raccontare, ma riconoscere. Significa dare un volto e una voce a chi è stato relegato ai margini della storia, celebrare la forza silenziosa delle donne che, senza dichiararlo apertamente, hanno lottato per procurarsi un frammento di libertà.
Qui la sua determinazione di fotografa è anche un atto di resistenza, un modo per non lasciare che quelle storie svaniscano, una resistenza presente anche nel carattere delle donne ritratte, che con il loro radicamento alla terra e il lavoro manuale raccontano una lotta quotidiana per rimanere ancorate alla propria esistenza. Sui quei visi non c’è traccia di autocommiserazione, mostrare la loro “solitudine” non veicola né rassegnazione né sconfitta, ma la volontà di sancire l’orgoglio umano di essere al mondo. L’anziana donna seduta come su un trono in mezzo alla sua cucina, le contadine, divertite e divertenti, ad onta della fatica e delle dure condizioni di lavoro, mentre giocano con i loro cani, esprimono una condivisione di sentimenti che crea solidarietà.


Riusciamo, oggi, a cogliere fino in fondo il valore che queste foto avevano quando comparvero per la prima volta sulla carta stampata? Allora non erano icone. Lo sono diventate nel tempo, perché hanno saputo parlare, emozionare, raccontare storie in cui un numero incalcolabile di donne si è riconosciuto. Il loro potere non sta solo nell’immagine, ma nel modo in cui sono state vissute, condivise, fatte proprie. Per raccontare davvero qualcosa, bisogna esserci dentro. Non basta osservare, bisogna immergersi, vivere la situazione. Le sue foto sono diventate simboli perché le donne le hanno diffuse, riprodotte, fatte circolare ovunque, manifesti, riviste, volantini, libri. Hanno smesso di essere semplici scatti per trasformarsi in pezzi di vita, tracce di un’esperienza collettiva. Davanti a una fotografia, ognuno di noi deve decidere se ignorarla o lasciarsene attraversare, se renderla parte della propria memoria e delle proprie lotte, se usarla per conoscere, per capire, per agire.
Alla fine del libro le autrici accostano due immagini. Nella prima alcune giovani donne appendono uno striscione con la scritta Le streghe son tornate, nella seconda, un’anziana, sola nella sua cucina, solleva un pentolino da cui si sprigiona un vapore denso. Il confronto svela due modi diversi di esistere, da un lato, giovani donne che gridano per rivendicare il diritto alla parola e all’autodeterminazione, dall’altro, un’anziana che, con un gesto silenzioso ma carico di significato, compie un rito di magia bianca. Le femministe si riappropriano di un passato simbolico attraverso la figura della strega non più vittima della persecuzione patriarcale, l’anziana rivela un sapere prezioso trasmesso di donna in donna; le une rivendicano il diritto a trasformare il proprio destino, l’altra lavora per dissolvere un destino avverso. Due modi diversi di agire, due forme di lotta che sembrano lontane e invece si parlano, le urla delle donne che vogliono cambiare il mondo ed i sussurri di chi lo ha sfidato in silenzio.
In copertina, Vincennes, 28 maggio 1977. Incontro internazionale dei movimenti femministi.
