Private. Fotografia femminile a Mantova
Una parete di pietra occupa quasi tutto lo spazio della fotografia, dà l’idea di una massa compatta e solida. Ad un primo sguardo ricorda un torace maschile con i pettorali scolpiti e l’ombelico profondo, poi, osservando meglio, appare un volto dall’espressione corrucciata con gli occhi chiusi e la bocca spalancata, porta d’accesso a un luogo misterioso. Da questa cavità spuntano delle gambe femminili che penzolano nel vuoto. I pantaloni chiari, aderenti, e alla moda, fanno pensare a una turista che è entrata quasi per gioco.
Si tratta di una domus de janas, tomba preistorica scavata nella roccia, che Lisetta Carmi fotografa nella necropoli di Oreharva vicino a Orgosolo. La donna è parte della terra e nello stesso tempo viene partorita, come l’ombelico è la ferita senza cui non si potrebbe nascere, ma ricorda anche la bocca che si apre alla vita ed alla conoscenza. L’attenzione di chi guarda questa fotografia si sposta dalla morte alla nascita, dal dentro al fuori, dal buio alla luce. La caverna, ventre materno entro cui rifugiarsi, e la frattura, ferita nello spazio fisico e simbolico, sono pathosformel in grado di travalicare confini geografici e cronologici, e tornano di frequente nelle immagini della Biennale della fotografia femminile in corso a Mantova. Per questo la fotografia di Lisetta Carmi, all’interno della mostra che apre la manifestazione alla Casa del Mantegna, può fungere da bussola per orientarsi fra le numerose proposte e delineare un sintetico ed ideale percorso.
La biennale si intitola Private. Più che una griglia teorica dai rigidi contorni, è un termine-ombrello sotto cui convivono molti temi fra cui la contrapposizione fra pubblico e privato, la privacy, la censura, la sorveglianza (Esther Hovers, False Positives), la scelta di vivere separati dalla società in caverne e ambienti sotterranei (Tamara Merino, Underland), la privatizzazione delle fonti d’acqua, la reclusione e il carcere (Kiana Hayeri, Where prison is a kind of freedom). Le parentesi chiuse al contrario, entro cui è racchiuso il titolo, evocano la forma a violino dei fianchi femminili, anche se osservando le immagini esposte, non emerge una peculiarità che contraddistingua lo sguardo femminile, lo differenzi e lo valorizzi rispetto a quello maschile.
Solo in un caso il punto di vista femminile spicca con forza. Si tratta della mostra The Lusty Lady Series (1991-1993) di Cammie Toloui. Le fotografie, scattate all'inizio degli anni Novanta, risalgono a quando la Toloui studiava fotogiornalismo e aveva bisogno di lavorare per mantenersi. Dopo aver parlato con alcuni amici che lavoravano in un peep-show, il Lusty Lady Theatre di San Francisco, si reca ad un’audizione e viene assunta come spogliarellista per alcune sere a settimana. E quando Ken Kobre, il suo insegnante di fotogiornalismo, propone agli studenti di documentare le proprie vite per una settimana, la Toloui decide di fotografare i clienti che si recano al Lusty Lady. Molti uomini accettano di lasciarsi ritrarre, di esporsi, di mettersi a nudo. I ruoli si invertono. I clienti mostrano i loro Private Pleasures, proprio come si chiamava l’area riservata in cui si pagava per assistere a performance erotiche su richiesta, eseguite dietro a un vetro. Un uomo, elegantemente vestito, tiene in mano il pene e si copre il viso per pudore, un altro indossa biancheria femminile mentre si masturba, un altro mostra l’ano premendolo contro il vetro come fosse il suo vero volto. Anche Cammie Toloui si ritrae. Il suo corpo è seminudo, ma certamente non denudato ad uso e consumo dello spettatore.
È al contempo soggetto e oggetto della propria rappresentazione, il contrario dell’esibirsi passivamente. “I loro soldi gli davano il diritto di guardarmi: la macchina fotografica che avevo in mano mi dava il potere di guardare loro”. Il punctum è la macchina fotografica, metafora dello sguardo su di sé e sul mondo, del rifiuto di essere puro oggetto, del voler rivendicare la propria scelta. La parrucca dalla folta chioma che usa durante gli spettacoli per mascherare il taglio di capelli punk, la trasforma in una Maria Maddalena che si pone di fronte al maschio eccitato in modo voyeuristico, come verso una forma di sessualità animalesca che cerca di sfuggire alla pulsione di morte. Il vetro che la separa dal mondo è il distacco che misura la sua emancipazione verso un livello superiore di coscienza. Le fotografie della Toloui sono “separate” dalle altre mostre, come si conviene a ciò che è osceno. Esposte in una galleria privata, si devono osservare voyeuristicamente dal buco della serratura. Perché? Per un eccesso di verità? Cosa accade quando si relegano certe scomode verità nel privato e poi si impongono senza censure sulla scena pubblica? La fotografa non cede al richiamo lascivo o alla furbizia modaiola e un poco sporcacciona di solleticare la pruderie; no, le sue fotografie hanno il coraggio di mettere in scena, compresa sé stessa, ciò che viene considerato inguardabile, che resta fuori campo, che non può apparire.
Dai corpi dei clienti nella caverna del Lusty Lady Theatre, si passa al volto di una giovane donna. La fotografia viene fatta a pezzi e poi ricomposta con del nastro adesivo di stoffa. Tiene in mano una rosa, la annusa, mentre i petali rossi le coprono le labbra. “Quel fiore il cui profumo racchiude la primavera, la speranza, l’amore, la libertà. Come potrebbe quella giovane donna dimenticarne il profumo?”, dice Newsha Tavakolian, la fotoreporter iraniana autrice della fotografia. L’immagine, originariamente scartata, viene esposta insieme ad altre imperfette o danneggiate, poiché la fotografa decide che è giunto il momento di guardare senza censure anche le foto che aveva scattato agli esordi della carriera, “una realtà cruda e grezza da cui non possiamo nasconderci”. Nella foto originale, la pupilla rossa dell’occhio sinistro, il solo che guarda in camera, indica una sorta di strabismo, una scissione, una frattura nella visione. Il rosso della luce riflessa dalla retina richiama la macchia rossa del fiore e la libertà di guardare nel modo in cui si desidera. È il doppio della Tavakolian, del suo sguardo dolente, della sua vulnerabilità orgogliosamente esibita. And they laughed at me (2023), titolo della mostra, smaschera l’atteggiamento arrogante dei politici nei confronti del suo lavoro. Dopo aver documentato la guerra in Iraq, la fotografa sostiene di essere diventata dislessica. “Niente è semplice come appare, lo sfondo è importante quanto ciò che avviene davanti agli occhi”, racconta a Mantova. In mostra si alternano fotografie della sua vita privata, gli amici in gita sul Mar Caspio, il ritratto sfocato che le scatta il padre, i volti delle colleghe; foto realizzate in strada, le auto della polizia, i manifestanti feriti, un gruppo di giovani donne fieramente in posa sotto un cavalcavia. Ed alcune legate al volo e alla leggerezza: centinaia di piccoli insetti contro una finestra cercano di librarsi nello spazio oltre il vetro e le sbarre, un falco, che per molti mesi dopo la morte del padre, si posa sul balcone di casa e una mongolfiera sospesa nel cielo, sotto la quale scrive con un gesso colorato: “Non ero curiosa senza la mia macchina fotografica. (…) Quando ero giovane ho avuto un assaggio di quanto fosse liberatorio”.
Come lo è stato per Daria Addabbo, che nel suo progetto Drought. No water in the Owens valley (2019-in corso), ha documentato la sottrazione dell’acqua nella valle di Owens in California. Qui, cento anni fa, la nascente metropoli di Los Angeles entrò in possesso delle terre e acquisì i diritti per sfruttare l’acqua del fiume Owens, condotta in città tramite un maestoso acquedotto, trasformando gran parte della valle in un deserto. Già negli anni Venti l’impossibilità di praticare l’agricoltura causò la rovina economica della regione, mentre oggi, i venti che scendono dalle montagne sollevano sostanze tossiche che provocano gravi problemi di salute agli abitanti dell’area. Daria Addabbo viaggia nelle terre dell’Ovest americano non come una pioniera, ma come una viandante che raccoglie le voci e i volti del disastro. Non testimonia la prosperità di una utopica valle dell’Eden, ma la sterilità di una terra divenuta arida e secca. Nelle sue fotografie, che ritraggono scene di vita quotidiana, si rivedono i motel desolati di Edward Hopper, si resta intrappolati nel deserto emotivo dei romanzi di Cormac McCarthy, ci si perde nell’atmosfera post apocalittica di Zabriskie Point. La sabbia e la siccità sono ciò che resta dopo che tutto è stato prosciugato. Una “modernità in polvere” fatta da silos vuoti che si ergono come cattedrali nel deserto e da una piscina vuota con il fondo terroso, la cui didascalia è la sintesi di una catastrofe: “la sponda est di ciò che resta del lago Owens. Il lago è stato totalmente prosciugato per la costruzione dell’acquedotto, 1908-1913, che porta l’acqua a Los Angeles”. La crisi idrica è specchio di una crisi culturale, l’american dream si è inaridito, come rinsecchita è la terra che percorre la fotografa. Alessandro Portelli ricorda che in Benito Cereno, Melville parla di acqua come “elemento repubblicano”, una metafora dell'uguaglianza che deriva dalla mobilità sociale. “L’acqua bene naturale scorre effortlessly e non conosce confini”, anche se sembra un’utopia. L’Ovest è nuovamente terreno di saccheggio e la lotta per il possesso della terra e dell'acqua si consuma fra chi può comprare il suolo e chi perde il diritto di usarlo. La siccità fotografata dalla Addabbo, figlia di quella resa celebre da Furore di Steinbeck, è la prova del fallimento di un modello di sviluppo predatorio e violento, i cui effetti sono il cambiamento climatico, la desertificazione, la scomparsa dei ghiacciai, l’effetto serra. Un piccolo dinosauro di plastica, posto vicino ad un idrometro che segna un basso livello d’acqua, suggerisce come nell’arco temporale di una vita sia possibile assistere ai lenti cambiamenti climatici che caratterizzavano le ere geologiche. Le fotografie sono tracce di questo fallimento, detriti che lo sguardo trascina con sé, pietre d’inciampo che denunciano soprusi ed ingiustizie.
La ragazzina che si incammina nel deserto, sfiorando la sabbia con un bastone, ricorda una rabdomante in cerca di un’agognata vena d’acqua, metafora di una linfa vitale che alimenti, oltre alla terra arida anche le speranze delle future generazioni. L’autostrada e l’acquedotto, vie di un progresso irrispettoso e aggressivo, vengono idealmente sostituiti da un solco leggero, una scia da seguire in punta di piedi. Dove ci sta conducendo la ragazzina? Cosa vedranno i suoi occhi al di là dell’orizzonte? Un deserto ancora più assetato o una nuova terra promessa?
Private, Biennale della fotografia femminile a cura di Alessia Locatelli, Mantova fino al 14/4/2024.
In copertina, Daria Addabbo,Drought. No water in the Owens valley, Febbraio 2022.
Mostre principali:
Daria Addabbo, Drought. No water in the Owens Valley, Luisa Dörr, Imilla, Kiana Hayeri, Where prison is a kind of freedom, Esther Hovers, False Positives, Tamara Merino, Underland, Thandiwe Muriu, Camo, Photos2 Solitary, Photo requests from solitary, Claudia Ruiz Gustafson, La ciudad en las nubes, Newsha Tavakolian, And They Laughed At Me, Cammie Toloui, The Lusty Lady Series, e una selezione di foto di Lisetta Carmi.