L’archivio ritrovato di Peggy Kleiber
Forse non sarà il caso di parlare di uno “spirito del tempo” o di qualche particolare vento che spira, sta di fatto che il numero di archivi fotografici riportati alla luce negli ultimi anni supera di molto il numero che normalmente si associa all’idea di coincidenza. Vivian Maier, Paolo di Paolo, Alberto di Lenardo, Nicola Sansone, Giulia Niccolai e Peggy Kleiber sono i nomi più importanti e conosciuti di un fenomeno che, probabilmente, è molto più corposo di quanto appaia proprio per il suo carattere carsico. Sembra quasi che le scoperte accidentali e i ritrovamenti fortuiti di fondi fotografici rispondano ad un preciso bisogno storico e sociale. Il rischio di smarrirsi davanti a orizzonti che si allontanano sempre più e si spalancano su scenari indicibili e impensabili si fa sempre più concreto. L’universo iconico, sottratto alla dimensione analogica, materiale, in ultima analisi umana, sconfina ormai in una massa sterminata e indiscriminata, dove ciascuna immagine è virtualmente priva d’autore, indistinguibile per origine e destinazione. Non è un caso se sempre più spesso, in ambito fotografico, trovano spazio discussioni e riflessioni sulla veridicità e sulla falsificabilità. Se il futuro spaventa e il presente non piace, una buona via d’uscita rimane il passato, complice una demografia appassita e un’intellighenzia a dir poco matura. La fotografia digitale è ormai storia, e alla luce della AI, forse non è nemmeno più tanto contemporanea. In questo contesto, il richiamo alla fotografia “classica”, con le sue fotocamere, pellicole e stampe, è troppo forte per non essere avvertito. Il nostro attuale immaginario, con le realtà accresciute e aggiuntive, con le intelligenze artificiali e gli algoritmi autoconsapevoli, si colloca esattamente all’opposto di una tendenza, che scorre parallela, che invece presuppone il bisogno di qualcosa di “fisico”, qualcosa che si possa toccare. Il bisogno di una “prova”, qualcosa che evochi la verità, pur sapendo, come insegna ironicamente Joan Fontcuberta, che l’inganno è possibile e molto più accattivante di una banale e univoca, quanto presunta, “verità”.
Tanto più gradita è, allora, la sorpresa di un nuovo nome, legato, però, alla tradizione fotografica predigitale. È in questa temperie che si deve collocare la scoperta della fotografa Peggy Kleiber e del suo inedito archivio. Peggy Kleiber (1940-2015), è stata una donna culturalmente emancipata e economicamente indipendente, cresciuta in una famiglia numerosa a Moutier in Svizzera, con una grande passione per la fotografia. Con la sua Leica M3, agile quanto costoso strumento di ricerca e di espressione, ha attraversato almeno quattro decenni di storia, raccontando con una lunga sequenza di scatti - se ne contano quindicimila - e senza per questo farne una professione, la sua vita privata, i luoghi visitati, le atmosfere nelle quali si è ritrovata immersa.
Di questa congerie di scatti, la mostra Peggy Kleiber. Tutti i giorni della vita (fotografie 1959-1992), in corso al Museo di Roma in Trastevere, a cura di Arianna Catania e Lorenzo Pallini, ne espone giusto l’uno per cento, 150, ripartiti in due sezioni che si riferiscono una alla famiglia, l’altra ai viaggi in Italia.
La mostra si apre con stralci di album di famiglia, alcune stampe vintage dell’Autrice ed un video (https://vimeo.com/827441121) breve e commovente, imbastito con vecchi filmati Super8. Il titolo è una sorta di contenitore aperto ad ogni sentire fotografico e, come si vedrà, riflette perfettamente il tenore delle opere esposte.
In apertura, è da rimarcare un autoritratto del 1960-61, nel quale, programmaticamente, metà del volto è occupata dalle mani che reggono la Leica, mentre l’occhio sinistro è sostituito dal mirino. Il suo volto molto giovane, la foto risale al 1960-1961, quando la Kleiber aveva vent’anni, sembra suggerire la forma di una profezia auto avverante. Lo sfondo nero ha qualcosa di solenne e al tempo stesso funebre, come se fosse una tabula rasa da colmare e allo stesso tempo il brodo primordiale da cui emergere. L’autoritratto con fotocamera, specialmente femminile, è, del resto, un’esperienza abbastanza frequente, la si può quasi considerare un rito iniziatico.
La sezione sulla famiglia, quasi tutta ambientata in Svizzera, copre un arco di tempo piuttosto ampio, ma si concentra soprattutto sui decenni Sessanta e Settanta. Cercare un solo filo tematico o un unico mood ispiratore è impresa ardua: i giorni della vita offrono spunti e pretesti sempre diversi, affrontati con spirito e modi altrettanto diversi. Come in un diario, la Kleiber annota i momenti degni di essere ricordati, un taccuino d’appunti presi con la fotocamera, per non dimenticare i luoghi visitati ed i volti delle persone incontrate. Non si tratta di una realtà che va colta sul fatto, di un attimo che subito svanisce, di un evento irripetibile, ma di qualcosa che si protrae nel tempo, e si conserva proprio come tra le pagine di un diario.
Non c’è una netta prevalenza tra esterni e interni, non affiora una predilezione tra il ritratto e la scena d’insieme, panorami e primi piani, per vecchi o neonati, spose e ragazzi, istantanee in movimento e scatti in posa: l’unica costante sembra l’alea. Quando la Kleiber scatta una foto, non considera il possibile risultato finale e, soprattutto, non si chiede quale possa esserne la funzione o la destinazione: semplicemente si immerge totalmente nella situazione poiché ne è già parte. La qualità che le si richiede, che è quella che ancora oggi riusciamo a percepire, è l’affettività. Nelle foto di famiglia non vi è mai un intento celebrativo, anche quando si ha a che fare con un matrimonio. C’è la poetica delle piccole cose: l’abbraccio, il momento della pappa, il nonno che allatta il bebè con il biberon. Un lessico famigliare visivo, fatto di ricordi che si dipanano in una lunga sequenza che lega la vita di ognuno alla vita di tutti, insieme al desiderio di salvare nel ricordo ciò che altrimenti andrebbe fatalmente perduto, come infatti è accaduto con la scoperta di questo archivio. Quando la sorella di Peggy ha rivenuto le due valigie, non poteva certo supporre che là dentro ci fosse un così vasto deposito di ricordi di storie e di persone che lei stessa faticava a ricordare; da lì l’idea di allestire un progetto di ricerca e di portare alla luce un monumento alla memoria che fosse anche un omaggio alla sorella scomparsa.
Se non è possibile inquadrare cartesianamente i soggetti fotografici della Kleiber, altrettanto fallimentari sarebbero i tentativi di ascriverla ad un qualche genere o movimento stilistico. La frammentarietà e l’occasionalità dei suoi scatti rappresentano impedimenti davvero grandi, anche se, ragionevolmente, i corsi alla Hamburger Fotoschule seguiti da una ventenne, ancorché dotata, non avranno mai potuto sortire gli effetti di una maturità acquisita con un lungo apprendistato o la frequentazione di affermati professionisti.
La seconda sezione, un po’ più nutrita di quella sulla famiglia, si riferisce ad alcuni viaggi in Italia, soprattutto a Roma e in Sicilia. A dispetto di un corpus così ampio, la selezione riguarda quasi esclusivamente gli anni Sessanta. Nella trentina di scatti “romani” si avverte immediatamente una cesura rispetto agli scatti in famiglia, più che di famiglia. Qui l’elemento umano tende a rarefarsi, ma non a scomparire. La Kleiber non cerca, ovviamente, “la cartolina”, o il dettaglio monumentale e neppure, come i tempi potrebbero pure suggerire (il neorealismo non è passato invano), la denuncia sociale con un approccio diretto allo squallore delle periferie. Si nota il tentativo di fondere, più che di accostare, la figura umana e la struttura architettonica fino a costruire un paesaggio capace di esprimerli entrambi, in modo omogeneo ed equilibrato. Accade in particolare nella foto scattata in Piazza del Campidoglio, dove la fragilità dell’uomo su una scala a pioli, convive con la maestosa e muscolare figura del Nilo e con la monumentale scala michelangiolesca.
Ci riesce ancora nella foto del 1964 a Piazza Vittorio o in quella del 1965 a santa Maria Maggiore, nelle quali l’apparente staticità umana dialoga con il movimento barocco delle colonne e della facciata. Anche l’inquadratura denuncia una più matura consapevolezza e sembra sobbarcarsi di una responsabilità maggiore: il dialogo tra ombre nella foto di due donne del 1963 e la sciabolata di luce in Denise, pure del 1963, scattata in Umbria, sono esempi ben riusciti e di sicura efficacia emotiva. Il passaggio dello Stretto segna anche qualche significativa mutazione nella fotografia. In una Sicilia che, a ragione, si percepisce vasta e varia come un Paese a sé stante, Peggy non ci mostra Palermo la capitale, i templi ed i teatri di Agrigento, Siracusa, Taormina o sua maestà l’Etna, ma piccole cittadine come Aci Trezza, Capo d’Orlando, Partinico. Il motivo lo racconta il curatore, dicendo che a Capo d’Orlando abita una carissima amica che la Kleiber aveva conosciuto quando viveva in Svizzera. E l’amicizia, probabilmente, è ancora il motivo dell’incontro tra Peggy e Danilo Dolci a Partinico, se è vero che si erano già conosciuti in Svizzera. In una foto si vede chiaramente, in primo piano, Danilo Dolci con alcuni suoi collaboratori, mentre, sullo sfondo, un gruppo di braccianti lavora alla ricostruzione di una trazzera. Dovrebbe trattarsi del famoso sciopero alla rovescia attuato da Dolci e compagni nel febbraio del ’56, con la sua coda di arresti, repressione e processi, che portò nuovamente alla ribalta la questione, mai risolta, del lavoro e della terra in Sicilia. La Kleiber non cerca, quindi, uno spicchio del Grand Tour, la mitica Land, wo die Zitronen blühn, ma i luoghi dove ritrovare e rivedere facce care a famigliari. Peggy insegue sentimenti e non itinerari tracciati: è questo l’elemento che tiene assieme il suo modo di fotografare. Sul piano tecnico, invece, esiste una netta cesura tra le foto di famiglia e le foto scattate di viaggio, ma, a ben vedere ne esiste un’altra, altrettanto netta, tra le foto “romane” e quelle “siciliane”.
Quasi assenti in quelle scattate nella capitale, le persone acquistano corpo e dimensione in quelle dell’Isola. È evidente che nella mentalità di una ragazza svizzera colta, aspirante fotografa, esiste un’idea ben precisa di cosa sia la cultura e cosa sia la natura. Se Roma, indubbiamente, rappresenta il vertice ineguagliabile della classicità, e quindi della Cultura, dove l’elemento umano può, e anzi deve, essere diluito nel paesaggio urbano, dall’altra parte, a contraltare, emerge un Sud mitico, selvatico perché non del tutto affrancatosi dallo stato di natura, l’habitat ideale per figure magnetiche, forti e primordiali in cui si rispecchiano liberamente le forze non ancora costrette dai vincoli della civiltà. A queste forze, probabilmente, la giovane Peggy Kleiber si sente più vicina, ai moti dell’animo. Per questo, da un piccolo borgo nel cuore della Svizzera, da dove in un’ora di macchina può facilmente andare in Francia o in Germania, sceglie l’Italia. Ma l’avventura dell’esplorazione dell’archivio è appena iniziata.
Peggy Kleiber. Tutti i giorni della vita (fotografie 1959-1992), in corso al Museo di Roma in Trastevere, a cura di Arianna Catania e Lorenzo Pallini, fino al 15 ottobre 2023.
Il video, Peggy Kleiber. Tutti i giorni della vita, è a cura di Lorenzo Pallini.
In copertina, Fotografia di Peggy Kleiber, Autoritratto.