Ivo Saglietti, un uomo fra gli uomini
È un giovane Ivo Saglietti che ci accoglie all’inizio della mostra, una gigantografia del suo volto posta all’inizio di un lungo corridoio. Ha i capelli neri, la barba incolta e indossa un maglione a collo alto, simile a quello di Ernest Hemingway nella fotografia di Yousuf Karsh, appesa alle sue spalle. Metà del suo viso è in ombra, e nell’altra, sfiorata da un fascio di luce, si scorge un’espressione seria e malinconica. Non è un semplice ritratto, ma il ritratto della sua poetica, eco delle parole di Robert Frank, il nero e il bianco, che sono i colori della speranza e della disperazione, da sempre sono i colori della mia vita. Osservando le immagini del libro Minamata di Eugene Smith, dedicato alle vittime di avvelenamento da mercurio in un villaggio di pescatori in Giappone, si rende conto per la prima volta che la fotografia è un potente mezzo per raccontare storie.
A questa visione si ispira una delle fotografie più celebri di Saglietti, una dottoressa cubana bacia un bambino ucraino, ammalatosi a causa del disastro di Chernobyl. Con un gesto affettuoso tiene la piccola testa glabra fra le mani e avvicina le labbra alla guancia. La luce illumina l’esile corpo e lo rende quasi evanescente. C’è una vicinanza commovente tra la donna, il bambino e il fotografo. Ogni scatto è un avvicinarsi al soggetto con premura, a distanza di un bacio, con la delicatezza di chi si accinge a curare un ferito, a vegliare un morto. A Srebrenica avviene la stessa epifania. In un lungo capannone dove sono radunate le bare con i resti dei bosniaci musulmani massacrati nel 1995, due donne si sono accucciate vicino alla bara del figlio, la sfiorano quasi a volerlo trattenere, mentre appaiono immerse in un luminoso silenzio.
C’è qualcosa di materno nello sguardo di Saglietti, avvolge, trattiene, allontana dall’oblio. Le mani della dottoressa cubana assumono altre forme, in una lunga scia di gesti: le mani dei manifestanti contro la dittatura in Cile, quelle delle madri che lavano i figli sotto la doccia in un centro della Chiesa ad Haiti, le mani tenute dietro la nuca dai prigionieri in Perù, quelle intrecciate di un kosovaro ferito dai serbi durante la fuga, le impronte sulla parete di una capanna alla periferia di Kampala, quelle di una madre che abbraccia la tomba del figlio ucciso dai serbi di Mladic, e molte altre.
Mani che toccano, e immagini toccanti, come quelle realizzate ad Haiti, dove una massa di disperati si scaglia sui rifiuti scaricati dalle forze armate americane, la bocca dell’Occidente che vomita i suoi resti al resto del mondo, mentre le schiene degli haitiani chine sui rifiuti, ci ricordano che dignità e rispetto sono imprescindibili. Si può essere poveri al punto di non avere un giaciglio su cui riposare; si può essere costretti ai lavori più pesanti e più umili, ma mai può venir meno il diritto al rispetto, per il fatto stesso di esistere. Saglietti ci insegna che fotografare è credere al cambiamento, tanto riguardo alla trasformazione individuale, quanto alla dimensione collettiva, e il fotografo è parte del cambiamento.
Cresciuto in una famiglia operaia, dove il lavoro è coscienza politica del proprio ruolo, fotografare vuol dire decidere da che parte stare, per cosa lottare, a chi dare visibilità. Significa lasciare un segno tangibile del proprio passaggio in questo mondo attraverso il proprio lavoro. Un uomo in cammino dice giustamente il titolo della mostra, che però non calpesta nessuna terra, ma si muove con passo leggero, in punta di piedi, in modo sempre rispettoso, mai invadente, mai violento.
Ho sempre evitato di mostrare in eccesso i cadaveri, e, purtroppo ne avrei sempre avuti in abbondanza. Mi è capitato di scartare fotografie che al momento dello scatto mi erano parse buone, ma che una volta sul provino a contatto ho giudicato offensive, oserei dire pornografiche.
Il manganello bianco, appeso alla cintura di un poliziotto di spalle fa capire immediatamente la violenza di una dittatura. Il fotografo è incredibilmente vicino, potrebbe sfiorare il militare, e quell’asta bianca, così simile alle colonne dell’edificio dove si tiene la cerimonia, è simbolicamente la colonna portante del regime. Saglietti non mostra solo le mani che "fanno il bene" ma anche quelle con i machete, i fucili, le fruste. Un civile dal volto incappucciato, alla guida di un piccolo esercito addestrato a combattere contro Sendero Luminoso, sorregge un machete che taglia diagonalmente il fotogramma, esprimendo il potere intimidatorio e la violenza spietata del conflitto tra senderisti e militari. Il fotografo lo ritrae frontalmente, senza reticenze, un faccia a faccia con la maschera anonima del potere. Un guardiano a cavallo sorveglia i lavoratori haitiani impegnati nella raccolta della canna da zucchero. In primo piano si notano le mani che trattengono le redini e alla cintura il manico di un bastone. I raccoglitori non hanno un volto, ma solo la forza delle loro braccia, condannati al silenzio di un’afflizione di cui parte integrante è l'incapacità di essere detta da chi la soffre.
Per Saglietti la prossimità ai soggetti è immergersi nei loro mondi. Informare significa testimoniare il vero, ma anche prendere posizione per quello che si afferma, il reportage è una scelta di partecipazione politica.
Nel suo libro Lo sguardo inquieto. Un fotografo in cammino (Postcart, 2021) ha donato al lettore, insieme a un pezzo della sua storia, anche un pezzo di Storia: le guerre di liberazione e le repressioni nelle dittature militari del Centro America, la tratta degli schiavi dal Benin alle piantagioni di canna da zucchero della Repubblica Dominicana e di Haiti, le guerre nel Medio Oriente e nei Balcani, le malattie che devastano i paesi del Terzo mondo, le migrazioni.
La distanza di sicurezza è azzerata. Saglietti si trova in mezzo agli scontri, accanto alle madri, sui barconi dei migranti insieme ai soccorritori. A Lampedusa si lascia commuovere dai corpi ammassati, i volti disperati, i rari sorrisi di chi sta fuggendo dalla guerra, dalla fame e dalle pulizie etniche.
Si tratta di una fotografia “toccante” persino negli aspetti tecnici, la scelta dell’analogico è un procedimento decisamente manuale, ho bisogno di avere della “materia” da maneggiare: il provino a contatto, il negativo con gli odori del trattamento chimico, il lentino per esaminare i singoli fotogrammi, la matita grassa per riquadrare gli scatti scelti. L’idea di cura è una scelta etica ed estetica, il numero “finito” di scatti possibili con un rullino obbliga a pensare, a meditare maggiormente su ogni singolo scatto, sull’accuratezza dell’inquadratura. Tutto ci appare nitido, sfondo e primo piano dialogano fra di loro, la profondità di campo è anche profondità della dimensione umana, è restituire all’individuo la pienezza dell’esistenza.
Chi osserva la mostra, sta dentro il suo sguardo, osserva i suoi volti e gli occhi che si moltiplicano sui lasciapassare, una mappa fatta di dolore e di speranza, un viaggio lungo più di trent’anni nei posti peggiori della Terra.
Al lato estremo del corridoio campeggia il ritratto di un Saglietti anziano, la malinconia si è trasformata in serena consapevolezza. In mezzo, come una linea del tempo, spina dorsale di un intenso lavoro di fotoreporter, si è dipanata la sua vita.
Ivo Saglietti. Un fotografo in cammino, a cura di Federico Montaldo e Giovanni Battista Martini e fino al 31/12/2024, Palazzo Grillo, Genova.
In copertina, Ivo Saglietti, Una dottoressa cubana in un gesto di tenerezza verso un piccolo ucraino malato a causa del disastro di Chernobyl, Cuba, 1993, Courtesy archivio Saglietti.