Speciale
Occhio rotondo 51. Bonsai
Quando nel 1989 Olivo Barbieri si recò in Cina per la prima volta scattò alcune fotografie ai classici pini cinesi formato bonsai. Sono proprio queste immagini ad aprire la mostra Spazi Altri alle Gallerie d’Italia di Torino (a cura di Corrado Benigni, Allemandi). Le due prime foto del catalogo raffigurano queste piante governate secondo il principio aureo del “mondo in piccolo”, come recita la definizione data dal sinologo Rolf A. Stein a un suo libro. Le si vede riprese a Sazhou in due scatti che mostrano una serie di vasi allineati vicino al muro, seguiti poi da altrettanti ritratti di lunghi rami ricurvi che si espandono nello spazio d’un giardino. Una passione, questa del piccolo, che il Celeste Impero ha coltivato per secoli, e che ancora non è tramontata. Poi è accaduto che l’occhio acuto di Barbieri si sia spostato nel corso dei suoi ripetuti viaggi in Cina su altri soggetti, transitando nelle tradizionali case cinesi, negli spazi domestici interni ed esterni, via via sempre più catturato dalle città che andavano sorgendo in apparenza dal nulla.
È una progressione d’edifici che aumentano la loro dimensione nelle strade delle città, e poi delle metropoli, fino a che lo sguardo di Barbieri è stato sempre più attratto dalle megalopoli edificate a partire dal 1998-99. Un dilatarsi di tutto, compresa la superficie delle foto, tanto che per contenerle il catalogo utilizza provvidenziali pagine apribili. La dimensione diventa sempre più mastodontica e l’obiettivo fotografico non riesce più a contenere quello che Olivo Barbieri inquadra. Nella sua introduzione Benigni racconta brevemente questa escalation: il fotografo non riesce più ad avere uno sguardo che tenga insieme tutto, fino a che comprende di avere davanti un modello di città, una forma di espansione che persegue quella di un plastico pensato in piccolo, poi realizzato in grande nella realtà. La cosiddetta realtà, quindi, discende dal modello e s’espande al di là della stessa dimensione umana.
Quello che Barbieri vuol ritrarre con la sua macchina fotografica è diventato inafferrabile, perciò pensa di salire su un elicottero e scattare dall’alto, così da raffigurare la megalopoli che sta osservando. Il risultato è una fotografia intitolata Site-specific_Shangai 04 posta sulla copertina del volume stesso. Al centro di questa immagine c’è un nodo di superstrade che si intrecciano una sopra l’altra, e anche una sotto l’altra. Ricorda il nodo di una cravatta aperto, composto da più lembi di stoffa grigiastra. Se si potessero tirare queste strisce, quale groppo si produrrebbe? Invece tutto sembra scorrere perfettamente lì dentro. Nel centro della fotografia c’è un viluppo che gira su se stesso simile a una specie di fiocco, per cui le case a sinistra e i due grattacieli bianchi a destra sono corollari minori dell’insieme: il nastro di superstrade sembra governare visivamente l’intera fotografia; ricorda quella d’un macchinario da Luna Park. Cosa è successo alle fotografie di Olivo Barbieri? Perché è salito sull’elicottero per scattare? Tutto gli sfuggiva irrimediabilmente.
Per poter dominare l’immagine ha dovuto ridurla, proprio come si fa con i bonsai. Lo spazio lo stava governando: ora governa lui l'immagine. La grandiosità delle città cinesi, che aveva già inquietato e messo a dura prova Gabriele Basilico, ha costretto Barbieri a procedere come i giardinieri del Celeste Impero: potare le radici delle piante durante la crescita, fino a controllarne le dimensioni. Basilico da architetto aveva trovato una soluzione adatta al suo occhio stereometrico, ma aveva in ogni caso faticato a dominare l’esplosione delle città cinesi nella sua enciclopedia del mondo espanso includendo le nuove megalopoli. Olivo Barbieri ha scelto una strada più pragmatica. Troppo grandi le città cinesi? Allora con spirito emiliano, di chi sa come si fa a confezionare un buon abito – per anni Olivo ha lavorato nella pellicceria della madre e della zia – ha scelto la via di un dispositivo visivo, l’altezza, che riconduce parti della megalopoli da milioni e milioni di abitanti alla dimensione d’un bonsai.
Si tratta di “modelli in scala”. Sono così diverse le prime immagini della mostra da questi ritratti visti dall’alto? Non molto. Tuttavia con questa risorsa Barbieri ha cominciato a elidere il confine tra il reale e il virtuale, come scrive giustamente Benigni. Ma non si trattava già d'un confine labile sin dai suoi esordi, quando Olivo aveva scoperto e ritratto il deposito di vecchi flipper abbandonati? Non era già quello, secondo una lezione che è stata anche di Ghirri, un modo per introdurre nella realtà la virtualità dell’immaginazione? E le immagini di Notte (1991) e quelle raccolte sotto il titolo di Illuminazioni artificiali (1995) non erano già così? Cos’era Virtual Truths (2001) se non qualcosa di simile a quello che Barbieri ha poi fatto in Cina nell’ultimo decennio? Un modo per immaginare una realtà più adatta al suo occhio che, se ama gli spazi ampi, se ne sente anche toccato, quasi minacciato, come accade a ogni persona nata e vissuta in pianura. Ci sono in Verso la foce di Gianni Celati una serie di illuminanti osservazioni sullo spazio, su quel vuoto inspiegabile e incomprensibile che accoglie lo sguardo di chi osserva il paesaggio piatto della Pianura Padana. Il vuoto è una ossessione della cultura cinese e di quella giapponese sin dalle loro origini. Olivo Barbieri ha ritrovato nel nuovo Celeste Impero qualcosa di sé e del proprio passato.
In copertina, Site-specific, Shangai 04, © Olivo Barbieri
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