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Occhio rotondo 47. Occhio

19 Gennaio 2025

Lì dentro c’è un occhio che ci guarda. Difficile dire a chi appartenga, anche se c’è il fondato sospetto che sia un occhio infantile. Un anno prima, nel 1960, Vivian Maier, di mestiere Nanny, aveva scattato un’altra foto, questa volta in bianco e nero, con un occhio di bambino che traguarda attraverso un quadrato: è sdraiato sotto un lettino da giardino ricoperto di strisce elastiche intrecciate. Entrambe le fotografie si trovano esposte nella mostra allestita al Belvedere della Reggia di Monza: Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier (fino al 21 aprile). La seconda foto, scattata a Chicago, non è meno coinvolgente dell’altra. Forse anche di più. Il corpo non si vede, s’intuisce solo, e il ragazzino è sdraiato in orizzontale. Proprio questa posizione ha qualcosa d’incongruo: l’occhio ti guarda e non ti guarda. Forse ha paura, e in qualche modo ti fa paura. Un occhio staccato dal corpo, un occhio singolo, è quello di Polifemo, qualcosa di mostruoso per noi, abituati come siamo alla testa con due occhi. L’intensità di quell’occhio solo, scollegato dal viso è inquietante. 

Ci sono nella mostra, e nel libro che l’accompagna, Vivian Maier (a cura di Anne Morin, Thames & Hudson), almeno quattro immagini simili: occhi di bambini che ti guardano attraverso dei buchi. Tutto questo fa pensare che si tratti anche del punto di vista di Vivian Maier, o meglio, della sua stessa postura nel mondo: lo guarda attraverso il monocolo della propria macchina fotografica. Il suo è uno sguardo ingenuo, alla lettera: “nato libero”, come indica l’origine della parola. Uno sguardo “indigeno”, come si diceva prima che la parola assumesse un significato decisamente negativo. Vivian Maier è diventata una leggenda per la storia del ritrovamento avventuroso dei suoi 150.000 scatti (si veda Anne Morin, Vivian Maier e John Maloof, Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, entrambi da Contrasto), e poi per il fatto di non aver mai esposto le sue immagini, di non aver dato seguito professionale, o commerciale, alla sua passione fotografica. Forse è proprio per questo che il suo è uno sguardo innocente, candido, uno sguardo che sembrerebbe inaccessibile alla maggior parte dei fotografi. L’innocenza, si dice, non sembrerebbe possibile per un occhio che guarda dentro l’obiettivo della macchina. E invece nel suo caso è proprio così. 

È la sua estraneità a ogni intento artistico o estetico a renderla così straordinaria. Non che la sua non sia arte, o che le sue immagini non abbiano un valore estetico. Ce l’hanno, ma non è per questo che ha fotografato, o almeno non per essere riconosciuta come artista. Siamo in presenza di un’artista senza spettatori. Possibile? Difficile, ma possibile. Fotografava per sé, come è stato detto da tanti, fotografava non solo perché voleva vedere, ma perché le serviva, per sé stessa, non per gli altri. Così si spiega – ma questa sarebbe già un’ulteriore questione – la sua passione per l’autoritratto. Voleva guardare guardarsi. Un occhio innocente, si potrebbe dire, che sarebbe rimasto allo stato edenico, se non fosse stato che il destino le ha fatto incontrare, in modo differito naturalmente, John Maloof che ha scoperto, come si sa, migliaia suoi scatti, in bianco e nero e a colori, filmini, registrazioni audio e altro ancora. È diventata un’artista dopo: per noi, non per lei. Lei era solo un occhio, quello che si vede ritratto in queste fotografie. La cosa che più impressiona nei libri postumi, e nelle mostre che sono stati allestite dopo la sua morte, è il bisogno degli studiosi e degli editori di catalogare i suoi sguardi per soggetti, per temi, il bisogno di classificare, e così dare una forma al suo stesso sguardo. Ce l’ha ovviamente, ma il suo è uno sguardo infantile, alla ricerca di ciò che di volta in volta la colpisce, la attrae, la incuriosisce, l’appassiona.

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Foto di Vivian Maier, ©️ Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY.

Fotografa con insistenza alcuni soggetti, ma non con sistematicità. L’insistenza è altra cosa dal costruire un soggettario in modo deliberato. Resta una meravigliosa dilettante; alla lettera: prova piacere a guardare con la sua macchina fotografica, a trattenere con la pellicola il suo stesso sguardo, così da poterlo riguardare: questo è evidentemente un doppio piacere. La macchina fotografica, secondo John Berger, è una scatola magica, poiché è in grado di trasportare “apparenze”. In questo modo produce quel piacere, e evidentemente Vivian lo ritrova nel momento in cui sviluppa le proprie fotografie – anche questo dello sviluppo è un altro gioco, o almeno parte del gioco maggiore prodotto dall’occhio, e conservato grazie allo scatto. Lei per prima, lei come unica. Ma non è nell’unicità che consiste la sua forma o ragione, che dir si voglia, bensì nella ripetizione dello sguardo e nel contempo nell’unicità che ogni sguardo possiede, anche quando si ripete. È il piacere della ripetizione, come si sa, quello dei bambini. Possiede la loro insistenza, quella degli “indigeni”, che sarebbero poi quelli che sono “nati dentro”, dentro quel “luogo”: gli “autoctoni”. 

La sua terra d’origine è un paese unico che coincide con la sua stessa persona. L’artisticità, che ora le riconosciamo, al di là della leggenda che ne trasmette la fama, consiste proprio in questa originalità. È diventata artista nonostante lei stessa, e perciò conserva quella naïveté che è una delle possibili scaturigini dell’artisticità. Sono tutti sguardi i suoi, il prodotto di quegli occhi che lei fotografa, per moltiplicare il gioco del vedere. Un gioco a perdere, in realtà, che noi, accumulatori d’immagini, nostre e altrui, abbiamo invece trasformato in un gioco a rendere – il denaro prodotto dal suo gioco è roba nostra. Era più giusto che il suo gioco finisse con lei o continuasse con noi, con i nostri sguardi? Arduo arrivare a una conclusione. Non ci resta che guardare quello che ha guardato: sguardi di sguardi. Questo è in effetti il senso stesso della fotografia.

La foto in copertina è di Vivian Maier, ©️ Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY.

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