La Cina di Olivo Barbieri
Credo che la frase “Io sono in Cina” possa suonare, se ce la si ripete mentalmente qualche volta, a qualcosa di simile a: “Io sono su Marte”. La Cina ci è arrivata sotto molte forme, in parte la conosciamo attraverso il cinema, la cucina, la conoscenza storica e politica; abbiamo questa singolare familiarità con un mondo che, di fatto, come qualsiasi altro, non potremo mai conoscere davvero. Il retaggio storico millenario si fonde, e sempre di più negli ultimi decenni, con un’accelerazione verso la modernità tecnica e industriale, in un sincretismo e metamorfosi continui, spaesanti, talvolta internamente conflittuali.
Si dice infatti che chi torna nel proprio paese, in Cina, dopo qualche anno, di fatto non lo riconoscerà più: strade, negozi, architettura, saranno irrimediabilmente cambiati. Sarà un altro posto, a cui chi torna non è mai davvero appartenuto.
Nella mostra Olivo Barbieri. Spazi Altri (nuovo capitolo del progetto “La Grande Fotografia Italiana” a cura di Roberto Koch) inaugurata nella sede torinese di Gallerie d’Italia e curata da Corrado Benigni, il noto fotografo emiliano racconta la Cina attraverso gli ultimi tre decenni, dal 1989 a oggi.

Partecipiamo a una fascinazione, a ciò che entra negli occhi meravigliati del fotografo-visitatore: se gli ambienti interni sono governati da un minimalismo che comunque riesce a essere caotico, nei cavi dei televisori, nelle stoffe appese o lasciate sul tavolo, dando al clima delle scene quello di una naturale trasandatezza artigiana, le strade ci appaiono in un simile caos, sebbene votato al riempimento. I ponteggi, il traffico, le stesse macerie di edifici in via di demolizione lasciano presagire l’atmosfera generale di rinnovo costante, di mutazione e movimento. Scrive Corrado Benigni nel testo che accompagna il catalogo edito da Allemandi: “[...] quell’asse materiale e simbolico della Cina contemporanea che va da Pechino a Shanghai si fa corposo luogo deputato del cambiamento, del passaggio da un’epoca all’altra, da un secolo all’altro.”
Una specie di “volontà di futuro” sembra pervadere l’approccio urbanistico della Cina. Olivo Barbieri inizia la propria scoperta prendendo appunti, redigendo piccole note alla visione:
“Appunti di viaggio in Cina” (1989) sono le immagini in formato panorama che raccontano principalmente i luoghi e la loro luce, già così diversa; le figure mosse negli interni dei ristoranti e dei negozi, il cielo notturno sull’architettura di un luogo che tenta di parlarci in segni che proprio non riusciamo a comprendere. Anche i nostri santi, sebbene riposti su un altare, dietro i garbugli dei fili del ventilatore si adattano a stento alle cappelle scarne in cui sono riposti.
La grande quadreria degli “Appunti” di Barbieri sembra voler creare una provocazione verso l’iconoclastia che spoglia le pareti di ogni luogo in cui ci troviamo a entrare con lui; e apprendiamo dunque che la Cina alla fine degli anni Ottanta appare già completa di alcune delle sue più affascinanti contraddizioni. Come l’omino arrampicato senza protezioni su un ponteggio di legno che sta lavorando per costruire ciò che oggi potrebbe essere un grattacielo o un hotel di lusso.

Naturalmente, Olivo Barbieri ha dei predecessori: in Cina troviamo Gae Aulenti negli anni Settanta, Andrea Cavazzuti nei primi anni Ottanta; Susan Sontag ripercorre nel racconto “Progetto per un viaggio in Cina” il proprio sogno infantile di costruire un tunnel che la porti in questo Paese lontano. Ma se l’attenzione viene, nel caso di Aulenti, riposta sullo studio architettonico delle città che visita e, nel caso di Cavazzuti, su quello antropologico e sociale, Barbieri traccia col colore il dispiegarsi di entrambi. L’uomo si coglie spontaneamente sebbene risulti spesso una figura fantasmatica: rendere nitide le persone vorrebbe dire solo aggiungere dei lineamenti precisi a vite che possiamo capire guardando gli ambienti, il luogo dove lavorano, le strade che percorrono. Come per Mario Cresci, il volto può essere illeggibile, mentre a parlare resta il prolungamento della sua identità: la casa, l’arredo, l’architettura, la luce.
Forse a spiazzare di più di queste prime immagini che realizza Barbieri in Cina è l’inversione che creano con lo stile a cui ci ha maggiormente abituati, e con le sue scelte tecniche. Barbieri, infatti, utilizza in larga parte il fuoco selettivo (basculando le standarde del banco ottico) per ottenere un unico punto di messa a fuoco e sfocando tutto il resto, ottenendo il famoso “effetto modellino” dei suoi scatti più noti. E infatti lo ritroviamo, nelle grandi stampe dal 2000 in poi, in cui strade e persone risultano fuori fuoco e un solo dettaglio, magari un semplice nodo di cavi elettrici, perfettamente nitido.

Nelle immagini degli “Appunti” e dei “Paesaggi in miniatura” (1990), la visione stretta e lunga delle stampe di piccole dimensioni contiene un ribaltamento: tutto è a fuoco, mentre talvolta compare qualche dettaglio mosso, che siano le foglie di un albero o le persone in movimento per strada. Il primo approccio di Barbieri è dunque postulare che il mondo che si trova di fronte a lui è fermo e si può vedere tutto, nei minimi dettagli, nitidamente; è il tempo a muoversi e a far muovere ciò che si trova in esso, catturato dalla lunga esposizione dello scatto. Enrico Ghezzi, nel testo che accompagna il libro Olivo Barbieri: Illuminazioni Artificiali (Motta Editore, 1995), l’aveva detto così: “Nulla si muove perché a muoversi è il tempo. [...] sono esse [le “masse inquadrate”, le immagini, ndr] a vibrare dentro il deserto particolare che è il tempo, affollato solo di spettri.”
Appunto: che siano figure mosse o sfocate, l’uomo è un corpo indefinito, e lo è tutto il resto non a fuoco, pezzi interi di edifici, le macerie, le autostrade inanellate.
Questi sono “spazi altri”, al plurale. E non sono “altri spazi”, badiamo bene: se la moltitudine è intrinseca a ogni luogo per le infinite possibilità che esistono per guardarlo, Barbieri in Cina sembra trovare l’apoteosi di questo dato di fatto, nell’intreccio temporale che un singolo scorcio offre. E la Cina non è un’alternativa (non è un “altro spazio”, come dicevamo), bensì il culmine di ciò che possiamo immaginare come altrove, una dimensione che ha trovato nell’unione della storia con la velocità un modo di manifestarsi che anche nei colori risulta inconcepibile. Per questo motivo, forse, Olivo Barbieri opera nelle immagini cronologicamente più vicine a noi alcuni interventi sulla natura stessa della fotografia.

L’ambiente roccioso della montagna Tianmen rivela il negativo di se stesso, invertendo in questo modo in un buco d’ombra totale la luce che emana solitamente dalla bocca rocciosa in cima alla vertiginosa scalinata. La mescolanza cromatica che si vede nel calore giallo e artificiale dei lampioni contro il blu quasi nero della sera vissuta attraverso un’architettura labirintica quasi intossica gli occhi, persi ora nelle dieci stampe del polittico che ce la presentano. Non sappiamo dove siamo. O meglio, la didascalia lo dice: “Shanghai China, 2001”, ma questo in effetti non basta. Ogni luogo sfugge al proprio nome e questo, com’è ovvio, disorienta; qui siamo soli in un reticolo cementificato, lo “spazio altro” che si estende molto al di là della parola scelta per chiamarlo.
I toni saturi e capovolti raccontano della volontà di rivoltare dall’interno la regola stretta della visione più consueta, in favore della scoperta della stessa cosa detta però al contrario. Se quando pronunciamo una parola all’inverso essa perde di significato, nella fotografia la realtà resta riconoscibile – già di per sé un piccolo miracolo – sebbene inizi ad appartenere di colpo a un’altra terra, quasi ad altri occhi.

Olivo Barbieri ci fa perdere dentro un mondo di cui non sappiamo cosa è rimasto e cosa rimarrà; il cui negativo potrebbe non fare in tempo a corrispondere a cosa vediamo in superficie. La Cina è questa parola al contrario che ingloba in sé tutta la Storia, anche già quella futura, e di cui ci sfuggirà sempre qualcosa. Per questo motivo è necessario inventare un linguaggio visivo nuovo per poterla raccontare, per rispondere alla sua chiamata, (“Vieni”), che risuona nella nostra domanda (“Dove sono?”). Uno spaesamento diverso da quello che ci fa perdere, per esempio, nella palude, nel bosco, in mare. Negli scorci in cui ci conduce Barbieri la domanda “Dove sono?” equivale a chiedersi anche, un po’ paradossalmente, “Quando sono?”: il disorientamento spaziale segue ed è il riflesso di uno più profondo, temporale. Le epoche in Cina si sovrastano e accavallano, visibili talvolta in quei residui che non sono stati spazzati via dalle ruspe, dando vita a un concetto ramificato e complesso di contemporaneità multipla. La demolizione degli edifici convive col colossale Buddha di pietra di Taiyuan Shanxi; la riduzione al nulla delle macerie con la resistenza secolare della materia. Così i piccoli movimenti che vediamo nelle prime immagini di Barbieri, degli “Appunti” e dei “Paesaggi”, ci sembrano ora il tentativo istintivo di fermare la manifestazione del tempo nei suoi più piccoli passi, nella sua misura minima. Quasi la volontà di conservare l’idea dell’attimo in una parte di mondo in cui il tempo pare misurarsi solo nelle grandi falcate delle epoche (quelle passate e quelle future che si stanno costruendo), e non nello scuotersi improvviso delle foglie.
OLIVO BARBIERI. SPAZI ALTRI, a cura di Corrado Benigni
Gallerie d’Italia – Torino
Dal 20 febbraio al 7 settembre 2025
In copertina, Harbin, China 2010.
