Mitch Epstein. Di chi è la terra?
Le sequoie sono alberi altissimi: più o meno quanto un reattore di raffreddamento nucleare, quasi un centinaio di metri. La natura ci ha offerto il suo esempio di grandezza colossale attraverso un essere vivente capace di vivere millenni, mentre noi le abbiamo proposto il nostro, destinato alla rovina dell’ecosistema.
Sembra essere sempre posto sul piano della sfida il nostro rapporto col mondo incontaminato, e mai su quello della pacifica coesistenza, o della debita riverenza: un voler superare, con mezzi quantomeno dannosi, i talenti innati del creato.
Mentre si guardano le immagini di Mitch Epstein (1952), importante fotografo del Massachusetts, in occasione della mostra Mitch Epstein. American Nature inaugurata alle Gallerie d’Italia di Torino, si vede che il grande formato in cui sono state stampate riesce a malapena a contenere la grandiosa verticalità delle foreste americane, ma sicuramente riesce a suggerire tutto il perfetto nitore dell’estendersi delle loro centinaia di tronchi secolari.
Dei tre lavori esposti, Old Growth è il più recente ed è il primo con cui si viene accolti in mostra: sono immagini che testimoniano la sopravvivenza delle poche aree forestali ancora intatte americane, in cui Epstein cammina fotografando la vegetazione non toccata da mano umana. Dentro le foreste si scopre una cosa importante: ovvero che è impossibile fotografare un albero intero, dalla base alla chioma. Quello che vediamo è l’idea di un’estensione che non sappiamo davvero misurare, ma soltanto immaginare. Per questo motivo, forse, viene spontaneo guardare le immagini di Old Growth a tre metri di distanza, per inquadrare a colpo d’occhio l’intera fotografia: come se si cercasse il proseguimento, il panorama intero da cui quel dettaglio, pur imponente, è stato tratto.
Sono esseri imprendibili con l’occhio umano, e neanche le leggi dell’ottica riescono a mettere l’uomo nelle condizioni di poter comprendere il tutto a cui appartiene la porzione di vita che vediamo.
Old Growth significa “crescita antica”: quella delle foreste, infatti, potremmo dire che è una vita in divenire che trova origine all’inizio dei tempi, di cui nessun altro essere vivente potrà mai dare totale testimonianza. Come i pini bristlecone, in cui convivono ere geologiche diverse, come riporta una didascalia: “mentre i rami e il tronco diventano fossili, un nuovo anello si sviluppa molto lentamente nel terreno dolomitico.” Sono quindi loro, semmai, a poter raccontare davvero la storia delle generazioni, ad averle viste tutte, a sapere la verità dei cambiamenti che noi possiamo solo ricostruire con studi e ipotesi sommarie. D’altronde, quando vediamo il dittico esposto a Gallerie d’Italia che mostra la sezione interna di un grosso tronco, i suoi tantissimi anelli disegnati di anno in anno dalla sua stessa crescita, veniamo a conoscenza che sono, queste, tracce indicative per i geologi per capire l’evoluzione dell’albero e dell’ambiente. Sembra esistere, dunque, un ragionamento sottile alla base del lavoro di Epstein, un gioco di specchi concettuali in cui la fotografia, testimone per eccellenza e traccia dell’attualità in cui vive, registra il messaggio testimoniale nascosto nella sezione interna dell’albero, vera e propria “fotografia” e traccia della sua stessa storia.
American Power è un lavoro invece che Epstein realizzò agli inizi del Duemila, in cui lo scenario si sposta su scorci di vita urbana, invasi dalle tracce grigie e gigantesche delle nostre industrie, dal nostro progresso produttivo. Dietro un campo di football svettano giganti colonne di cemento, sempre mitologicamente avvolte dal grigiore che esse stesse producono. Alzando lo sguardo, le nuvole sarebbero nuvole se non fossero il fumo tossico delle ciminiere; l’orizzonte conserverebbe il nitore delle foreste che abbiamo lasciato nella sala precedente se non fosse invaso da una strana nebbia inquinata e grigia. Nulla è cambiato da ciò che si vede nelle immagini dell’inizio del XX secolo: la rivoluzione industriale aveva già immesso con violenza nel panorama sgombro delle città le sue alte edificazioni di ferro e di cemento; Bill Brandt fotografava in Inghilterra già nel 1937 i bambini che giocavano sotto immense sentinelle aliene fumanti. Camminare sotto questi colossi magri è un’esperienza ben diversa dal camminare sotto gli alberi secolari delle foreste incontaminate: dallo stupore estatico è facile passare alla percezione di una minaccia incombente, di un potenziale pericolo. Sebbene i soggetti industriali siano bene o male sempre collocati sullo sfondo delle immagini di American Power, è come se occupassero tutto lo spazio del paesaggio, a un tempo confinandone e colonizzandone la visione.
In quel periodo, Epstein non documentò soltanto l’ambiente invaso dagli alieni industriali di cemento, ma l’abuso, appunto, di potere che negli Stati Uniti il capitalismo concede di attuare a discapito di comunità intere. Una città fu comprata per 20 milioni di dollari, fatta traslocare in blocco, ridotta a merce di poco conto. Ogni colonizzazione cerca nuovo spazio, e quella industriale non fa eccezione. Su un foglio di giornale Epstein trovò la fotografia di una casa su cui un commerciante aveva scritto “GONE”, ovvero “andata”, demolita, scomparsa dall’ambiente. L’immagine che vediamo in mostra è grande quanto le altre, quasi pare vero il paesaggio stampato, e non riportato da un foglio di giornale: la scritta “GONE” è il segno che cancella ciò che è stato, un gesto facile quanto per l’industria sgomberare il campo per i propri interessi, mentre dietro il tetto già svettano i nuovi arcangeli letali del nostro mondo.
Addio sequoie e pini millenari, sopravvissuti per miracolo fino a noi: a questo punto della mostra sono un ricordo nostalgico, sostituito, proprietà d’altri.
Di chi è la terra? Si domanda infatti Mitch Epstein, provando a rispondere nel lavoro Property Rights, realizzato tra il 2017 e il 2018. Un lavoro che si pone come sintesi dei due postulati iniziali: la natura libera, da una parte, e il colonialismo industriale, dall’altro, producono nella nostra civiltà un’unica tragica conseguenza, ovvero la fame di terra, la presunzione di avere il diritto di toglierla ai legittimi abitanti, divenendone non più ospiti, ma proprietari. L’attenzione di Epstein è stata attratta soprattutto dalle vicende dei nativi americani, notoriamente la comunità più colpita dal colonialismo dei terreni dell’ovest statunitense. Epstein entra nelle case, conosce la gente, si fa raccontare le storie della sottrazione delle terre dei nativi, della profanazione dei luoghi sacri per trasformarli in zone turistiche, dell’inquinamento dell’acqua di cui questi popoli si servivano per vivere. Il monte Rushmore, divenuto famosissimo per le quattro gigantesche teste di Presidenti americani, quello su cui Hitchcock tenne tutti sulle spine alla fine di Intrigo Internazionale, era in origine il monte sacro di una comunità di nativi. Noi stessi non ci accorgiamo neanche delle ipocrisie che siamo riusciti a trasportare nel nostro linguaggio, nel modo in cui chiamiamo le cose. È indicativo, infatti, che il percorso di mostra si apra con impattanti immagini di sequoie e si chiuda sulla sorte dei nativi: il termine “sequoia” deriva dal cognome di un abitante della comunità Cherokee, Sequoiah, vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, che inventò l’alfabeto della lingua del suo popolo affinché si conservasse nel tempo. Di chi è la terra, dunque, di chi le ha dato un nome o di chi la compra?
Il monte Rushmore ora, nelle immagini di Mitch Epstein, appare avvolto da una nebbia che quasi cancella e maschera le teste colossali scolpite nella sua pietra, quasi che la natura stessa voglia celare quella che per lei, che non conosce i nostri storpiati concetti di arte e cultura, né tantomeno i volti dei Presidenti americani, rimane solo una violenta e inutile deturpazione. E ancora, quando il fotografo ci riporta alla vicenda del massacro di Wounded Knee del 1890, in cui un centinaio di nativi disarmati venne brutalmente ucciso dall’esercito americano, comprendiamo la vera portata che si cela dietro la fame insana del colonialismo, il significato della parola proprietà, che non deriva dal nome di nessuno. Per ricordare il dramma di Wounded Knee Mitch Epstein fotografa il cartello rosso a scritte bianche che ne riporta in sintesi la storia. È riassunta in una manciata di parole la vera essenza dei suoi protagonisti: “the ghost dancing warriors”, i guerrieri fantasma danzanti, un’espressione bellissima per disegnare lo spirito di chi, pur vinto, dai colpi delle armi non è stato neppure sfiorato, di chi combatte danzando la civiltà aliena che gli ha portato via terra, acqua, e storia.
“Con gli esseri e con le cose dobbiamo essere come parenti” dice un proverbio Sioux, riportato anche nel libro della celebre mostra “The Family of Man” curata da Edward Steichen nel 1955 al MoMa di New York. Nel cortometraggio Darius Kinsey: Clear Cut proiettato nell’arena di Gallerie d’Italia, Mitch Epstein monta una sequenza di immagini dei primi anni del XX secolo del fotografo Darius Kinsey (1869-1945), che documentò il disboscamento delle foreste americane fotografando, proprio come fossero ritratti di famiglia, i boscaioli insieme agli immensi tronchi e agli attrezzi del lavoro. Più che parenti, però, a ben guardare, i tronchi, quasi sempre presentati con la grande ferita che sta iniziando a reciderne la corteccia, paiono più essere le prede mortificate vicino ai cacciatori, fieri di mostrare anche l’arma con cui hanno catturato l’animale, vero e proprio trofeo da esibire. Come si diceva all’inizio, è quasi sempre l’istinto della sfida e della sopraffazione, e mai quello della parentela auspicata dal proverbio Sioux, a emergere nel contatto tra l’uomo e il mondo che lo ospita. Mitch Epstein ci invita a guardare, prima di toccare, pretendere, demolire, recidere, come fa l’uomo ora piccolissimo di fronte all’immensa sequoia: a farci abitanti e non proprietari.
MITCH EPSTEIN. AMERICAN NATURE
Gallerie d’Italia – Torino, Museo di Intesa Sanpaolo
Dal 17 ottobre 2024 al 2 marzo 2025
Curatore: Brian Wallis
In copertina, Congress Trail, Sequoia National Park, California 2021 © Mitch Epstein.