Kung fu a piazza Vittorio: La città proibita

24 Aprile 2025

1995: in una Cina dove vige una rigida politica figlio unico, Xiao Mei è una figlia secondogenita costretta a vivere nascosta, protetta all’ombra dell’amore dei suoi famigliari. Trent'anni più tardi la ritroviamo a Roma. Non parla una parola d’italiano ma ha una missione: ritrovare l’amata sorella Yun, giunta tempo prima in Italia come tanti suoi connazionali in cerca di fortuna, ma finita in un giro di prostituzione gestito dalla malavita cinese. A complicare le cose, ci si mette anche la malavita nostrana, in una catena di debiti, ritorsioni, patti d’onore e sgarri ai boss. 

Roma è una Babele di volti, di lingue, il male riesce a insinuarsi ovunque, ma Xiao Mei è determinata, scatenata, non ha pietà e ovviamente è una guerriera letale. Ad aiutarla, suo malgrado, c’è un giovanotto, il povero Marcello, cuoco romano che si barcamena nel caos della trattoria di famiglia, il padre è fuggito con l’amante cinese e la madre, abbandonata, non si dà pace…

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Piatto ricco, come di consueto per Gabriele Mainetti. Laddove però con Freaks Out si era schiantato – da una parte per colpa di un’uscita tribolata, funestata delle complicanze logistiche della pandemia, e dall’altra per la tracotanza di un’ambizione fuori misura – con La Città proibita (ri)trova un equilibrio che consolida il status di autore, unico nel suo genere, eccentrico rispetto al panorama italiano.

A voler analizzare i temi di questa avventura “melting pop”, tra Roma e Cina, tra amori di contrabbando e criminali strapazzati, in sospeso fra tradizione e innovazione, il rischio è quello di metterne in risalto i lati più banali, in conformità – va detto – dell’approccio sottilmente didascalico del racconto. Eppure questa Città proibita si presenta anche come una “Città incantata”, una wunderkammer disordinatamente ordinatissima in cui Mainetti con l’energia dell'appassionato, infila tutto ciò che ama di più. L’effetto sorpresa di Lo chiamavano Jeeg Robot non c’è più, né può più esserci; ma il cinema di Mainetti ha mantenuto una grande freschezza e una leggerezza a cui ormai il cinema nostrano sembra essere, più che allergico, impermeabile (c’erano i Manetti Bros., ma dopo la trilogia di Diabolik, con l’ultimo U.S. Palmese sembrano aver cambiato strada).

Gabriele Mainetti costruisce un universo ibrido in cui il kung fu incontra la periferia romana, dando vita a una narrazione che gioca con i codici del genere e li ricontestualizza in chiave locale, il regista trasforma la protagonista in un simbolo postmoderno, un’eroina che attraversa e contamina immaginari lontani. È lei che, irrompendo nella vita del cuoco con gli occhi da cerbiatto, mette in discussione lo status quo delle cose. La cultura pop, nuovamente, non si pone come semplice terreno di intrattenimento, ma come spazio fertile per interrogare i miti contemporanei, le identità culturali e le dinamiche di potere. Se Eco invitava a prendere sul serio, per comprendere la contemporaneità, i fumetti e i romanzi d’appendice, Mainetti fa lo stesso con il cinema di genere.

Una ricetta, questa, che il regista cucina calibrando con attenzione gli ingredienti. A dare sapore c’è tantissimo film di genere (ovviamente); ma se la materia è trattata con spirito ludico, divertito, l’approccio è serissimo, come si confà a ogni gioco, mai noioso: il kung fu di Bruce Lee (L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente, I 3 dell’Operazione Drago), quello di Jimmy Wang Yu (Con una mano ti rompo con due piedi ti spezzo) e Jackie Chan (La mano che uccide, Drunken Master), appaiono filtrati dalla lente dei wuxiapian moderni di Zhang Yimou (omaggiato fin dal titolo, ripreso da quello di un suo film del 2006) e Tsui Hark, sontuosamente coreografati e scenograficamente raffinati; il tutto secondo le ricette, riviste e corrette, del Tarantino di Kill Bill (si passa sempre da lì). Il fondo sugoso, però, è quello della commedia nostrana (Poveri ma belli di Risi, ma anche Scola, sapidissimo): personaggi popolari, sfigati, incastrati in situazioni strampalate, drammatiche, comiche e assurde, eppure sempre in grado di tirar fuori una soluzione creativa. Infine, a mo’ di ingrediente a sorpresa, il Wong Kar Wai di Hong Kong Express e Angeli perduti. Da qui Mainetti trae i cromatismi (la fotografia di Christopher Doyle) e il romanticismo urbano: la scatenata guerriera cinese e il cuoco romano, in sella al vespino in giro per Roma, richiamano sì Audrey Hepburn e Gregory Peck in Vacanze romane, ma anche i protagonisti di Angeli Perduti, avvinghiati sullo sfondo di una città fantasma che scorre veloce.

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Diciamocelo: il rischio di ritrovarsi con un piatto indigesto era altissimo; ma Mainetti riesce nell’impresa con un film sorprendente, a tratti corroborante, pervaso da un misurato equilibrio tra commedia e dramma, violenza e tenerezza, in cui gli omaggi e le citazioni non sovrastano mai la cifra personale di un regista che nelle interviste ama citare Bresson. Il cinema è così: un fiume carsico in cui possono scorrere correnti diversissime tra loro, riaffiorando nei modi e nei luoghi più inaspettati.

A dare forza e corpo a questo suo affresco avventuroso c’è il cast, che conferma l’intuito del regista per le facce giuste e la sua capacità di dirigere gli attori rendendoli credibili anche in situazioni assurde, paradossali. Ci sono i veterani Marco Giallini, Sabrina Ferilli e Luca Zingaretti, ma – come già in Jeeg Robot e in Freaks Out – le sorprese vengono soprattutto dai volti nuovi. Ancora più che in precedenza, in La città proibita Mainetti punta tutto sui quasi esordienti: Xiao Mei è interpretata Yaxi Liu, autentica campionessa di arti marziali (tra le altre cose è stata la controfigura della protagonista nella versione live action del Mulan disneyano); mentre il ruolo di Marcello è affidato a Enrico Borello, già visto in Settembre di Giulia Steigerwalt. Lei non parla una parola d’italiano, lui si esprima in romanesco, a fare da tramite c’è la tecnologia (questa è un'epopea di vendetta e riscatto contemporanea), con il traduttore vocale dello smartphone.

Per il resto, Mainetti fa Mainetti: si ride e si piange (sa anche essere crudele), anche se la mano lunga di una produzione (Netflix) destinata ai mercati internazionali e allo streaming si fa un po’ sentire: la violenza esuberante e cruenta della prima parte si stempera piano piano nella seconda, consegnando un finale che perde quota in termini di pathos e potenza. Forse a causa della ricetta troppo ricca, o forse a causa di una distribuzione poco attenta ed evidentemente già proiettata verso lo streaming, La città proibita sembra però non aver trovato un suo pubblico in sala, attestandosi, a oltre un mese dall’uscita, su un incasso complessivo di “appena” un milione e seicentomila euro.

Umberto Eco scriveva che “il consumo culturale di massa non si esaurisce nella passività: può diventare interpretazione, elaborazione, reinvenzione”. Insomma, ogni opera di cultura popolare che resiste al tempo, lo fa perché sa offrire qualcosa di più di ciò che promette in superficie. Questa “ultima follia” di Mainetti, anche se non mantiene del tutto le promesse, ci regala quel “di più”. E non è poco.

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