La passione di Benedetta

23 Marzo 2023

Con tutta calma, è arrivato nelle sale italiane Benedetta, l’ultimo film di Paul Verhoeven, uno dei pochi registi investiti contemporaneamente, secondo la nota partizione arbasiniana, sia del titolo di “venerato maestro” che di quello di “solito stronzo”. Presentata in Concorso a Cannes nel 2021, la pellicola mette in scena la storia (vera) di Benedetta Carlini, monaca che ha infiammato la provincia italiana nei primi decenni del Seicento. 

Benedetta meriterebbe una recensione goduriosa e sporcacciona, forsanche irrispettosa, nello stile di “Dagospia”. Non per liquidarlo, ma per prenderne momentaneamente le distanze. Showgirls (1995) insegna del resto che è meglio non essere critici frettolosi: da campione di Razzie, il film è ora giustamente riconosciuto come cult postmoderno. Dovremmo quindi forse già iniziare a chiederci con che occhi vedremo Benedetta tra 15 o 25 anni, al di là della primissima impressione, che è quella di un brutto Zeffirelli, condito di anticlericalismo e nudi femminili?

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Virginie Efira con Paul Verhoeven sul set.

Nel filone “donne in clausura”, Verhoeven è peraltro in ottima compagnia, tra Madre Giovanna degli Angeli di Jerzy Kawalerowicz (1961, recentemente riscoperto e ridistribuito da MUBI), I Diavoli di Ken Russell (1971), Narciso Nero (1947) di Powell & Pressburger e L’indiscreto fascino del peccato (1983) di Pedro Almodóvar. Quello di Benedetta non deve però essere visto solo come dramma pruriginoso sulla fede o pretesto per un processo alla morale cattolica; quanto piuttosto come un discorso, tanto articolato quanto semplice nella sua linearità, sulle contraddizioni dei sistemi culturali.

Pescia, inizio del XVII secolo: impazzano la Controriforma e la peste. Entrata sedicenne nel Convento della Madre di Dio, a soli trent’anni Benedetta Carlini (Virginie Efira) viene nominata badessa. Ha visioni mistiche, che si intensificano nel momento in cui stringe una relazione sentimentale con la consorella Bartolomea (Daphné Patakia). Se le autorità ecclesiastiche avevano chiuso un occhio sulla vivace spiritualità della giovane, non possono fare altrettanto davanti al conclamato lesbismo. A raccontarne la storia è stata la studiosa Judith C. Brown nel suo saggio Atti impuri Vita di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento, che è servito a Verhoeven come testo di riferimento. Attorno a questo nucleo costruisce il suo film in sospeso tra critica a un sistema repressivo e show off di carni, provocazioni e contraddizioni del mondo religioso, in un tempo in cui la fede e la spiritualità sembrano essere gli ultimi dei problemi.


L’anziana badessa (Charlotte Rampling) è dipinta come una commerciante avida e scaltra: la famiglia di Benedetta, per farla entrare in convento, deve sganciare denaro sonante. Più avanti, quando Benedetta cerca di convincere la badessa ad accogliere una povera ragazza in fuga dal padre manesco, la donna ribatte: «È un convento, non è un luogo di carità». Tra le frizioni che il film mette in scena, centrale è appunto il rapporto tra la badessa e Benedetta, che in pochi anni arriva a spodestarla. Uno scontro al femminile, tra la nuova venuta e la decana, che fa di Benedetta una vera e propria versione di Showgirls con le tonache. Il carburante del dramma è, ovviamente, la proibizione: laddove non esiste proibizione non esiste perversione. La religione è quindi il catalizzatore di perversioni per antonomasia: «Il tuo peggior nemico è il corpo», dice la badessa alla giovanissima Benedetta; e sottolinea ancora: «L’intelligenza può essere pericolosa». In un mondo in cui la regola è sopprimere, germina quindi la trasgressione, tema da sempre caro al regista di Basic Instinct e Il quarto uomo.  

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Charlotte Rampling.

Spazio chiuso, il convento fa parte di quei luoghi che più si prestano ad essere analizzati come “sistemi”. In questo spazio sacro, secondo il modello e i meccanismi individuati da Lotman sull’articolazione degli spazi e il loro significato, si innestano una serie di meccanismi che esasperano il narcisismo dell’outsider Benedetta. La quale, per riscattare la sua posizione di semplice novizia all’ombra di un sistema che non soltanto non la valorizza ma addirittura la mortifica, inizia a farsi portatrice di segni miracolosi (le stigmate). Ma la badessa non si fa ingannare, probabilmente perché, col cinismo che la contraddistingue, è semplicemente totalmente priva di fede. Mancano i segni della corona di spine, sentenzia. Arrivano anche quelli: in maniera sospetta, certo, ma un miracolo è un miracolo, e negare anche solo la possibilità di una sua “plausibile” manifestazione può essere pericoloso per il sistema di valori attorno a cui è costruito lo spazio (fisico, ma soprattutto morale) del convento. Bisogna accettare Benedetta come miracolata: «A quanto pare questo convento allarga gli orizzonti del possibile», sottolinea un messo (Lambert Wilson) chiamato a indagare sulle manifestazioni miracolose; ma indagare troppo sembra inopportuno, meglio accettare tacitamente la situazione per darle meno rilievo possibile – perché appunto, sopprimere corrisponde a esasperare. 

Non saranno quindi i finti miracoli a mettere nei guai Benedetta che, impegnata a pregare con fervore di fronte alla congrega, nell’intimità della propria cella si lascia andare a ben altri tipi di estasi. Sorta di Catherine Tramell dell’Agnello di Dio, Benedetta mette pubblicamente in scena gli insegnamenti della sua arcinemica («La sofferenza è l’unico modo di arrivare a Cristo»), mentre dietro le quinte rivela la sua natura umana, carnale e libera. Ambiguità, dubbio e lussuria animano questo affresco di suore che godono in nome di Gesù, all’occorrenza aiutandosi con un dildo ricavato (ebbene sì!) da una statuetta della Vergine Maria. 

Ma non è solo l’occhio del Signore ad essere vigile, e Benedetta finisce a processo, rischiando il rogo non tanto in quanto truffatrice blasfema, ma in quanto lesbica. A Verhoeven preme soprattutto sottolineare come il sesso, per le donne, costituisca (allora come oggi) una colpa ben più grave dell’inganno; e di come i sistemi di valori possano essere manipolati a piacimento, in modo da perpetuare meccanismi consolidati di auto-preservazione. Garry Wills ha ricordato come la religione, con i suoi rituali codificati, possa essere un mezzo di seduzione, «una combinazione tra la rigidissima educazione sessuale della Chiesa (per esempio, la masturbazione è un peccato mortale che, se non confessato, può condanna una persona all'inferno) e una guida che può liberare la persona da un insegnamento inesplicabilmente oscuro grazie a eccezioni inesplicabilmente sacre. [Il predatore] usa la religione per sancire ciò che intende fare, anche definendo il sesso come parte del suo ministero sacerdotale». Se Benedetta usa la religione per conquistare la propria libertà sessuale, i suoi detrattori usano il sesso per inquisirla e renderla innocua.  

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Virginie Efira e Daphné Patakia.

L’amore lesbico come perno per scardinare un sistema ha una lunga storia alle spalle. Vale la pena citare un altro caso cinematografico: Quelle due (The Children's Hour, 1961) di William Wyler, adattamento per il grande schermo di un dramma teatrale del 1934, La calunnia di Lillian Hellman, con Audrey Hepburn e Shirley MacLaine (Wyler ne aveva girata una prima versione nel 1936, rivista e corretta in modo da trasformarla in un più convenzionale triangolo eterosessuale). Due insegnanti, Karen e Martha, che dirigono una scuola femminile privata nel New England, vengono calunniate come presunte lesbiche da Mary, un’allieva in cerca di vendetta. Vittime della riprovazione generale, le due sono costrette a chiudere la scuola, mentre Martha si rende conto di essersi realmente innamorata di Karen. Incapace di accettarlo, si toglie la vita impiccandosi in camera sua. 

«La storia ruota attorno all'osservatrice malvagia che, con la sua bugia, senza volerlo realizza il desiderio inconscio degli adulti», spiega Slavoj Žižek nel suo Il sesso e l'assoluto. «Il paradosso, naturalmente, è che prima dell'accusa mossa da Mary, Martha non era consapevole dei suoi desideri lesbici – è soltanto questa accusa proveniente dall'esterno a renderla consapevole di una parte rinnegata di sé. [...] Il “dramma delle false apparenze” viene così ricondotto alla verità: la “visione piacevolmente aberrante” dell'osservatrice malvagia esternalizza l'aspetto rimosso del soggetto falsamente accusato».

Rispetto alla protagonista del film di Wyler, Benedetta è consapevole e padrona della propria sessualità, in una maniera che potremmo definire “moderna”; mentre l’accusa che le viene rivolta contro dalla sua osservatrice malvagia, la badessa, è reale – per quanto sull’effettiva autenticità delle visioni della protagonista, portate in scena con brutti effetti CGI, Verhoeven si mantenga ambiguo: astuta simulatrice o vittima di una psicosi? 

In ogni caso, Benedetta si trova a dover negare la verità unicamente di fronte alla comunità, non certo a sé stessa. E se Martha, nel film del 1961, decideva alla fine di suicidarsi, incapace com’era di trovare un modo per superare il confine sociale o per ripristinare l’ordine precostituito, la parabola di Benedetta la riporta al punto di partenza. Dopo essere scampata al processo e al rogo, fugge con Bartolomea nella campagna, lontano da una Pescia ormai raggiunta dalla peste. Le due sono nude, sole e libere. Potrebbero ricominciare da capo, una rinascita utopica al di fuori del sistema-mondo che le ha processate e emarginate. Ma in Benedetta è più forte il richiamo di quell’ordine che aveva voluto mettere a soqquadro: fa ritorno in convento e lì vivrà nell’ombra fino alla morte. 

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TAGGED: Paul Verhoeven

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