David Lynch oltre la soglia
Un’infanzia fatta di case basse, viali alberati, staccionate, erba verde e cieli senza una nuvola. Un mondo felice, racchiuso in un cortile e protetto da una siepe, meravigliosamente sereno. Insomma, l’America middle class come uno se la immagina: così David Lynch descrive i suoi anni di bambino, trascorsi nel Nord-ovest degli Stati Uniti a seguito del padre, funzionario del Dipartimento dell’Agricoltura. Un’infanzia felice, anzi felicissima, a suo dire. Un sogno forse, o una proiezione. Al suo occhio precoce non sfuggono però le incongruenze tra quell'apparente perfezione e il mondo brulicante di insetti e vermi che pasteggiano nel sottosuolo, teatro mortifero di sopraffazione e violenza. In particolare, è la visione della metropoli ad angosciarlo, riempiendolo di terrore: “A Brooklyn, mio nonno possedeva un palazzo fatto di appartamenti senza cucina”, ricorderà Lynch a Chris Rodley, nel volume Io vedo me stesso (tradotto nel 2016 da Il Saggiatore).“Una donna cuoceva le uova su un ferro da stiro, il che mi diede delle serie preoccupazioni. E ogni sera il nonno svitava l'antenna della macchina in modo che le bande non la rompessero. Sentivo la paura nell'aria. Fu una buona benzina per gli incendi futuri”.
Quello di Lynch – scomparso il 16 gennaio, a pochi giorni dal suo settantanovesimo compleanno, per le conseguenze dell’enfisema polmonare che lo affliggeva da tempo – è un cinema che, travalicando la parola, procede per giustapposizioni e per artifici pittorici: una pittura che si esprime nella durata. Negli anni Sessanta assiste a una mostra di Francis Bacon, che in seguito descriverà come una delle esperienze più potenti della sua vita; al tempo stesso, ama Edward Hopper, e si chiede in che modo degli artisti come questi girerebbero un film. A proposito del legame fra Lynch e il grande pittore americano, nel recente Una lettura perversa del film d’autore (Mimesis, 2020) Slavoj Žižek ha scritto che “la differenza tra lo straniamento dei dipinti di Hopper e quello dei film di Lynch è quella tra modernismo e postmodernismo. Mentre Hopper estrania anche le scene di vita quotidiana, e nei suoi dipinti le persone solitarie che guardano il cielo blu dalla finestra o che se ne stanno sedute in un bar notturno o in un grigio ufficio sono ‘transustanziate’ in raffigurazioni dell'Angst esistenziale moderna, con la loro solitudine e incapacità a comunicare, questa dimensione è totalmente assente in Lynch; nelle sue opere infatti lo straniamento della vita quotidiana rivela una magica capacità di redimere”.
Lynch vede nella pittura una pratica di riflessione, di elaborazione, di trasformazione. Per lui la regia è ovviamente una faccenda di subconscio, il pensiero razionale è quasi un’intromissione, un’interferenza: una boa forse, un appiglio, oppure, al contrario, una zavorra. Il linguaggio cinematografico scorre rendendo palpabile (come può esserlo la nebbia) il mondo interiore, sepolto, impacchettato, inchiavardato a doppia mandata sotto un giardino ben curato. Ecco allora emergere il mondo del sogno, del rimosso. Nella sua opera, titolo dopo titolo, questo scavo diventa sempre più profondo: Velluto blu (1986), Twin Peaks (1990-91), Fuoco cammina con me! (1992), Strade perdute (1997), Mulholland Drive (2001) sono tutti viaggi dentro ai sentimenti che si vorrebbero scacciare, ai traumi violenti impossibili da esprimere con parole, energie che hanno bisogno, per manifestarsi, della forza di una manifestazione estetica (ma anche sonora, talvolta perfino tattile). Fino a INLAND EMPIRE (2006), dove l’immersione nelle sabbie mobili dell’inconscio è compiuta, irrevocabile: il buio della mente inghiotte ogni cosa. Non a caso il film, presentato fuori concorso alla 63ma Mostra del Cinema di Venezia in occasione del Leone d’Oro alla carriera, è stato anche il suo commiato dal grande schermo, un buco nero del cinema da cui è impossibile tornare indietro.
L’ignoto è stato il punto di partenza da cui Lynch attingeva le proprie idee, il luogo dove le faceva germogliare e le coltivava, con la stessa cura che altri dedicano a certe rare orchidee tropicali; ben sapendo, però, che l’ignoto è anche la meta a cui i fiori e le idee fanno ritorno, per marcire ed essere concime per nuovi germogli. Anche per questo i suoi film somigliano a frammenti di sogni. Fammenti soltanto, perché il mondo racchiude troppe storie, troppi enigmi, troppi misteri, impossibile immergersi in ognuno di essi, esistono e accadono molte più cose di quante ne possiamo raccontare. Da qui la natura del suo cinema, che suggerisce, intercetta, spia, striscia tra una stanza e l’altra, sbircia, indaga... e poi basta. Risolve un mistero e ne scopre altri cinque: “Il cinema ha veramente a che fare col voyeurismo”, faceva notare il regista. “Si sta seduti al sicuro, in sala, e la visione possiede una forza potentissima. Vogliamo vedere dei segreti, li vogliamo vedere davvero. Novità. C'è da impazzire, no? E più nuovi e segreti sono gli eventi a cui assistiamo, più abbiamo voglia di starli a guardare".
Nel suo lavoro dietro la macchina da presa, più che un regista cinematografico tout court, Lynch poteva ricordare un pittore (si era formato alla Pennsylvania Academy of Fine Arts), o un compositore. Costruiva i propri film come viaggi, come sinfonie, dapprima accompagnando lo spettatore per mano, attraverso villette a schiera e bucoliche cittadine di montagna, e poi abbandonandolo nell’incertezza, in bel mezzo di un bosco oscuro, oppure nel gelo di un teatrino vuoto. Le sue opere offrono molto allo spettatore (un’estensione di sé stesso, e non è poco), addirittura un eccesso di stimoli; al tempo stesso, gli chiedono sempre di aggiungere qualcosa, oltre a una partecipazione emotiva attiva e profonda.
Malgrado la sua dimensione onirica, enigmatica e spericolata, il cinema di Lynch si distingue per un miracoloso equilibrio tra le parti, tra l’assurdo e il verosimile, tra il detto e il sottaciuto. È un cinema in cui l’oscurità viene sapientemente lavorata, sofisticata: un fotogramma in più o uno in meno, ed ecco che nasce un’emozione, un brivido, un sussulto. Da questo punto di vista, Lynch è stato a suo modo un cineasta dalla sensibilità “classica”, e forse in questa chiave andrebbe letto il suo cammeo-omaggio, nei panni di John Ford, in The Fabelmans (2022), diretto dal coetaneo Steven Spielberg.
Fin dagli esordi, Lynch è stato accompagnato da un'aura di inquietudine, di malessere. Quando nel 1977 esce il suo primo lungometraggio, Eraserhead - La mente che cancella, si diffonde la diceria che un misterioso rumore infrasonico, presente nella colonna sonora del film, possa influenzare il subconscio degli spettatori. Come ha ricordato Y. Konno in un suo contributo apparso nel 1991 in occasione di una retrospettiva dedicata all’artista dal Museo d’Arte contemporanea di Tokyo (Noise Floats, Nights Falls, in David Lynch, Paintings and Drawings), “la gente diceva che, per quanto inaudibile, questo ronzio causava un senso di disagio, persino di nausea […]. Ora si può dire che il primo lungometraggio di Lynch era un'esperienza audiovisiva di tale intensità che la gente doveva inventarsi delle spiegazioni, persino la presenza di suoni inaudibili”.
Con The Elephant Man (1980), prodotto (senza nome nei credits) da Mel Brooks, Lynch fa il suo ingresso nel cinema mainstream e incassa i primi riconoscimenti (una candidatura all’Oscar per la miglior regia e una per la miglior sceneggiatura). Hollywood si è accorta di lui, ma è un trappolone, fatale quasi. Il successivo Dune (1982), adattamento della saga fantascientifica e mistica di Frank Herbert, fortemente voluto da Dino De Laurentiis, è un duro colpo, uno scontro con l’industria destinato a culminare in un clamoroso flop commerciale che rischia di farlo secco una volta per tutte.
Lynch torna quindi alle radici, alla propria infanzia, agli steccati bianchi, all’erba curata e al cielo limpido. Inizia a scavare, tra vermi e orrori, perversioni e orecchie mozzate. Il risultato è Velluto Blu, film a suo modo scandaloso (Gian Luigi Rondi lo rifiuta a Venezia a causa delle numerose scene ritenute “scabrose”) che lo consacra definitivamente come autore di culto, mentre con Isabella Rossellini forma una delle coppie più glamour e anticonformiste del cinema di quegli anni. Il successivo Cuore selvaggio (1990) viene benedetto con la Palma d’Oro a Cannes da una giuria guidata da Bernardo Bertolucci. Da regista di blockbuster, Lynch diventa un cineasta da “Cahiers” (un amore destinato a durare nel tempo: la terza stagione di Twin Peaks viene incoronata dalla rivista francese prima come “miglior film” del 2017 e due anni più tardi come miglior film del decennio).
Dopo aver abbattuto (alla Hitchcock?) lo steccato tra film di cassetta e film “d’autore”, Lynch è pronto ad abbattere quello fra cinema e televisione. Nel 1990 debutta Twin Peaks ed è subito delirio, mania, ossessione (“Chi ha ucciso Laura Palmer?”). Ma il successo “è un diavolo seducente”: se per qualche tempo il volto di Lynch è ovunque (anche sulla copertina di “Time”), la serie viene interrotta dalla ABC a causa del repentino calo di ascolti, nonostante le proteste dei fan. Anche il prequel Fuoco cammina con me! (“Long gone! Like a Turkey in the Corn!”), realizzato per il grande schermo, si rivela un tonfo al botteghino. Lynch non si scompone: non ha mai amato spiegare i propri lavori, ha sempre voluto che fossero le opere stesse a parlare, stimolare, suggerire. Non serve un bugiardino. Kyle MacLachlan, uno dei suoi attori feticcio (Dune, Velluto Blu, Twin Peaks), in una nota commossa d’addio al suo pigmalione e amico ha scritto: “He was not interested in answers because he understood that questions are the drive that make us who we are. They are our breath”.
Sceneggiatore, regista, pittore, musicista (quattro album pubblicati tra il 2001 e il 2018), Lynch ha sempre voluto essere viscerale e al tempo stesso cerebrale. In Velluto blu ha messo in scena il contrasto, paradossale e osceno, tra una superficie idilliaca e un sommerso lato oscuro. In Strade perdute, riflessione postmoderna sul noir classico a partire da un romanzo di Barry Gifford, scava negli anfratti di una vita coniugale frigida e senza passioni, dando forma a un doppio in grado di realizzare le pulsioni indicibili e distruttive (o forse soltanto liberatorie). Almeno in apparenza, le trame non hanno importanza: sono le immagini e il commento sonoro (in genere curato personalmente dal regista) e musicale (affidato alle mani e al talento di Angelo Badalamenti) a farsi carico della narrazione, mentre i piani del racconto – quello razionale della superficie e quello sotterraneo dell'inconscio – si sovrappongono, dando vita a uno spazio nuovo, che ci appare al tempo stesso familiare e respingente. La Loggia nera di Twin Peaks e il club “Silencio” di Mulholland Drive sono manifestazioni di questi luoghi liminali, dimensioni-cerniera tra l’immanente e il trascendente.
L’opera di Lynch parla della nostra vergogna, dei desideri inconfessabili che si celano nelle nostre mutande, nelle nostre mani, nelle nostre bocche. Il suo è un immaginario fatto di caricature, di paradossi, di un’ironia sottile che pervade le esagerazioni, le esclamazioni e i sospiri da amanti d’altri tempi (per esempio, quelli del melò e del musical anni Quaranta e Cinquanta). Un mondo dove il male non è dirompente ma riflessivo, strisciante, incerto ma implacabile; dove il patetico e il sublime si bilanciano miracolosamente, tutto è serissimo, quasi severo, eppure nulla è sacro: “Il cinema tiene insieme tutto: se una sequenza si fa astratta, il film comincia quasi a seguire le regole della musica; e se invece si fa concreta, può assomigliare alle leggi del teatro. Ma il cinema racchiude in sé ancora più possibilità, forse. È un medium magico”.
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