John Huston, disperato, caotico, stomp

28 Agosto 2024

Los Angeles. Esterno notte. Nel giardino di una villa, mentre una festa volge al termine, i fari delle prime automobili che stanno uscendo dal giardino illuminano accidentalmente due uomini nascosti tra i cespugli. Non sono colti nel mezzo di una malandrinata romantica, tutt’altro, se le stanno dando – seppur onorevolmente – di santa ragione. Li devono dividere a forza. Uno, Errol Flynn, finisce dritto filato all’ospedale con due costole rotte, l’altro, John Huston, viene tenuto in villa per la notte (in ospedale ci finisce il giorno dopo). Al telefono si promettono di rifarlo, il padre del regista suggerisce perfino di organizzare un incontro pubblico, un evento. Non se ne fa nulla, e i due si ritroveranno parecchi anni dopo in Africa sul set di Le radici del cielo (1957): sarà un disastro. A Huston era piaciuto il romanzo di Romain Gary, Darryl F. Zanuck gli aveva proposto di dirigerlo per il grande schermo. L’idea di tornare in Africa è troppo allettante per rifiutare, ma le riprese sono una calamità dietro l’altra: “La sceneggiatura era scarsa e la malattia dilagava. Già mentre facevo il film mi rendevo conto che non sarebbe uscito niente di buono”, ricorda Huston.

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John Huston.

In occasione di un altro party, per festeggiare la fine delle riprese di Stanotte sorgerà il sole (1949), Jennifer Jones, che nel film interpreta una rivoluzionaria cubana, regala a John Huston una scimmia (in quegli anni a Hollywood andava di moda così). Il regista se la porta a casa, nel nuovissimo appartamento su Sunset Boulevard comprato dall’allora sua terza moglie, Evelyn Keyes (è l’interprete della sorella minore di Rossella O’Hara nel Via col vento di Fleming), stufa di vivere nel ranch che Huston aveva costruito a Tarzana. La donna non ne vuole sapere dell’animale e si trasferisce, sbattendo la porta, al piano di sopra, dove vive Paulette Goddard che le dà asilo per la notte. Nel frattempo, mentre Huston cade addormentato, China (così era stata battezzata la scimmia) devasta il lussuoso appartamento tutto di bianco arredato. Al suo rientro, Evelyn rimane ammutolita, Huston alza le spalle, i due scoppiano a ridere. Poi, quando divorziano, giocandosi con una scommessa anche la preziosa collezione di arte precolombiana, lei lo lascia in mutande. Nel frattempo, lui si è già risposato per la quarta volta.

C’è stata poi quella volta, qualche anno prima, quando si trova a Londra in tempo di guerra, che Huston decide di attraversare mezza città a piedi, di notte, sotto un acquazzone, dopo il coprifuoco e durante un’incursione aerea, pur di far fede a un appuntamento con una ragazza di cui si è invaghito. Riuscirà a giungere all’arrivo, ma un attacco di dissenteria avrà la meglio. 

Sfogliando le pagine dell’autobiografia di John Huston, Un libro aperto (ripubblicata da La Nave di Teseo con una nuova postfazione di Alberto Pezzotta e un titolo italiano più fedele all’originale), viene da pensare che ci sia stato più cinema nella sua vita che non nei suoi film. Dall’avventura di frontiera alla screwball comedy, dal dramma di guerra al dramma amoroso, la sua biografia è attraversata da tutti questi generi e altri ancora. 

Prima di arrivare alla regia, debuttando nel 1941 con Il mistero del falco, Huston le ha provate tutte, imbroccandone poche. Dapprima pugile nel giro dei club, viene folgorato dal Nudo che scende le scale di Duchamp, e decide di studiare pittura sotto la guida di Stanton MacDonald-Wright. Successivamente, in Messico, viene assunto con un incarico onorario nell’esercito: la madre se lo riporta negli Stati Uniti, lui scappa nuovamente in Messico per fuggire da una delusione amorosa, prende le pulci, e infine cambia idea. Raccomandato dalla madre, una cronista del giornale, inizia a lavorare come cronista per il “Daily Graphic”, ma non ne azzecca una (è, per sua ammissione, un giornalista tremendo). Pubblica un racconto, scrive un dramma per marionette che attira l’attenzione di George Gershwin, ma il compositore muore prima di poterlo adattare in un’opera. Intanto scommette: ai dadi, ai cavalli, a carte. Vince. Perde. Vince. E poi perde ancora. Il padre, scalcinato interprete di vaudeville che ha fatto carriera, dal Far West a Broadway e poi al cinema, gli trova qualche ingaggio come attore – un’attività che Huston riprenderà con una certa regolarità a partire dagli anni Sessanta, per Otto Preminger (Il Cardinale), Orson Welles (The Other Side of the Wind), Roman Polański (Chinatown): un modo come un altro per batter cassa, per pagare qualche debito di gioco, per finanziarsi qualche film.

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Huston attore in Chinatown, 1974.

Alla fine degli anni Venti, intanto, Herman Shumlin propone a Huston di dirigere un allestimento teatrale di Grand Hotel, ma dopo averne discusso un po’, non avendo mai diretto nulla prima, rifiuta e suggerisce a Shumlin di firmare lui stesso la regia della pièce: “Cosa che egli fece, e naturalmente fu un gran successo. Sull'onda di Grand Hotel, Herman fu chiamato a Hollywood a produrre e dirigere per Sam Goldwyn […]. Una volta a Hollywood intercedette in mio favore presso Sam Goldwyn, e molto presto ricevetti un'offerta di lavoro per lo studio di Goldwyn come scrittore a contratto. Accettai prontamente e con grandi aspettative”. 

Con Goldwyn però non va in porto nulla, Huston viene quindi chiamato alla Universal dove scrive alcune sceneggiature (La sposa nella tempesta di William Wyler, Il dottor Miracolo di Robert Florey…). Scaduto il contratto con la Universal viene chiamato da Darryl S. Zanuck per il suo nuovissimo studio, la 20th Century Fox (allora Twentieth Century Pictures). Anche qui va buca. Il padre allora lo raccomanda per un posto alla Gaumont British di Londra dove tutti lo odiano: una sua sceneggiatura piace a Hitchcock, ma i dirigenti la bocciano. Huston ormai ha 28 anni e gli ultimi sono stati un disastro. Gli viene in aiuto William Wyler, che lo ospita e gli dà lavoro. Huston viene messo così sotto contratto dalla Warner e scrive le sceneggiature per La figlia del vento con Bette Davis, Il sapore del delitto, Il conquistatore del Messico, Un uomo contro la morte (sceneggiatura che ottiene una nomination agli Oscar), Il sergente York di Hawks, Una pallottola per Roy di Raoul Walsh, che dà una svolta alla carriera di Humphrey Bogart verso la serie A. 

Nel contratto con la Warner, però, stavolta c’è una clausola: l’opzione per un film da regista. Huston decide di portare sullo schermo Il falcone maltese di Dashiell Hammett, ne erano già stati tratti due film, entrambi senza successo: “Soltanto dei film di successo si gira un remake: non ho mai capito perché. Non conosco un caso in cui un rifacimento sia stato altrettanto buono che l'originale. Non esiste una formula che permetta di ricreare l'insieme di elementi che trasformano un film in un successo. Bisognerebbe fare il contrario e dare un'altra possibilità ai film che partivano da un buon soggetto ma che, per ragioni di tempo, luogo o circostanze, non sono venuti come dovevano”. 

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Huston (in piedi a destra) con il padre Walter (seduto) sul set di Il mistero del falco.

E se vogliamo considerare Il mistero del falco come l’inizio della carriera da regista di Huston, questa che la precede è solo una parte dell’antefatto. Nel libro il regista racconta la storia dei nonni e dei genitori, narrazioni che si intrecciano con i miti fondativi degli Stati Uniti: avventure uniche, irripetibili, selvagge e sconsiderate.

“È a Nevada, nel Missouri, che sono nato il 5 agosto del 1906; ma non ci rimasi a lungo. Pochi mesi dopo che mio padre ebbe assunto le sue mansioni di tecnico, in città scoppiò un incendio. Il capo dei pompieri chiese di aumentare la pressione dell'acqua e papà glielo concesse. Pare che non avrebbe dovuto, o forse girò la valvola sbagliata, perché la tubatura principale scoppiò. Tutta la parte della città da un lato della ferrovia fu completamente distrutta dal fuoco. Partimmo precipitosamente – nel cuore della notte, su un carro – e puntammo diritti al confine dello Stato”.

Da Hollywood all’Irlanda, dall’Africa a Puerto Vallarta, dall’Italia al Giappone, la vita del regista – collezionista di arte precolombiana e amante dei cavalli – sembra essere animata da quello stesso spirito indomito e irrequieto, alla ricerca di orizzonti nuovi, più ampi, sempre diversi. Non a caso, seppur tra i meno ricordati, uno dei suoi film meglio accolti dalla critica (allora e oggi) è stato La saggezza nel sangue (lo trovate su Prime Video), tratto dall’omonimo romanzo di Flannery O’Connor, la scrittrice innamorata dei pavoni, una pellicola che delinea la follia – contemporaneamente comica e crudele – dell’orizzonte mitico degli Stati Uniti.

Su Huston pende l’annosa (noiosa) questione sulla sua natura di autore, stimato dai critici francesi di “Positif” (che amavano lui, Aldrich, Wilder) ma non da quelli dei “Cahiers du cinéma” (che invece stravedevano per Hitchcock, Hawks, Fuller). Lui per primo prende le distanze dal mondo autoriale “in purezza”, quello dei Fellini e dei Buñuel: “Bergman ha uno stile inconfondibilmente suo. È un classico esempio di autore cinematografico. Penso che il suo sia il metodo migliore: il regista concepisce l'idea, la mette per iscritto, la traduce in film. [...] Ammiro i registi come Bergman, Fellini, Buñuel: ogni film di questi autori è in qualche modo connesso con la loro vita privata; ma questo non è mai stato il mio metodo. Sono un eclettico. Mi piace attingere a fonti diverse da me stesso; inoltre, non mi considero semplicemente, unicamente e per sempre un regista cinematografico. La regia è qualcosa per cui ho un certo talento, è una professione le cui discipline ho imparato a padroneggiare attraverso gli anni [...]. L'idea di dedicarmi a una sola attività nella vita per me è impensabile. La boxe, la scrittura, la pittura, i cavalli in alcuni periodi della mia vita sono stati importanti né più né meno che la regia dei film”.

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Michael Caine, Christopher Plummer e Sean Connery in un fotogramma di L’uomo che volle farsi re.

Un “semplice” mestierante, dunque? Impossibile. Questa autobiografia aiuta però a capire meglio il tipo di autore che Huston è stato. Parlando del suo lavoro, per alcuni film traspare un affetto sincero (Il tesoro dell’Africa), per alcuni un totale disinteresse (In questa nostra vita). La sua sceneggiatura preferita? Quella di L’Uomo che volle farsi re, da un racconto di Kipling (l’avventura, l’esotico…). Tra i suoi migliori film cita invece L’anima e la carne. Quello che avrebbe voluto rifare? Le radici del cielo. Se ogni autore, per essere tale, ha bisogno di una cifra, di un filo rosso, di un fiume carsico di temi e ossessioni che ne attraversi la filmografia, il cinema di Huston è il cinema dell’energia caotica. Non del disordine né dell’incoerenza (fino all’ultimo è stato un regista solidamente classico), non dell'incostanza, ma dell’avventurosa pulsione del caos.

Come tutti i racconti di sé, anche questo non fa eccezione nelle manchevolezze, nelle omissioni, nelle bugie bianche. È lo stesso autore a dichiararlo: “Naturalmente non ho raccontato tutto. Ho evitato di rivelare qualche piega oscura della mia vita segreta. I miei misfatti non sono sufficientemente ignominiosi da dover essere ostentati. Sono insignificanti. Terribilmente insignificanti. Allo stesso modo, non ho raccontato alcune delle cose più dignitose che ho fatto. Anche queste mancano di vera nobiltà e grandezza”. Eppure quello che ne emerge è un autoritratto onesto, modesto, che si sofferma più sui fallimenti che sugli onori, pronto a mettere in luce i successi altrui invece dei suoi (ricorda la nomination all’Oscar di Deborah Kerr per L’anima e la carne ma non la sua come sceneggiatore, l’Oscar vinto dal padre come miglior attore non protagonista per Il Tesoro della Sierra Madre, ma non i suoi per la regia e la sceneggiatura). Dedica pagine e pagine alla sua passione per gli animali e per la caccia (decide di interpretare Noè nella “sua” Bibbia proprio perché sentiva di essere l’unico in grado di essere sufficientemente in sintonia con lo zoo che era stato allestito sul set), altrettante alla descrizione dettagliata dei pasticci a cui è andato incontro: set esplosivi, infortuni di tutti i generi, suoi e non (Audrey Hepburn che si spezza una vertebra cadendo da cavallo durante le riprese di L’anima e la carne), affari sbagliatissimi (l’abbandono della società con cui produce La Regina d’Africa, che si rivela un successo del quale non vede un soldo), matrimoni andati in malora (cinque in tutto).

C’è spazio anche per il suo rapporto con gli attori, che ha saputo conquistare e ammaestrare. Con Marilyn Monroe e Montgomery Clift va bene al primo giro (Giungla d’asfalto per lei e Gli Spostati per lui), ma il bis (Gli spostati per lei e Freud per lui) si rivela un disastro per entrambi, ormai schiavi delle dipendenze, avvolti da una nebbia impenetrabile, sull’orlo dell’abisso: Huston per loro non lesina parole dure, ma sempre nel solco di una profonda comprensione umana. 

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Katharine Hepburn e Humphrey Bogart in La Regina d'Africa, 1951.

Katharine Hepburn all’inizio lo addita come un super-macho con arie da grand’uomo: “Non riesco proprio a immaginare di essere diretta da lui”. In Africa, uniti dallo spirito per l’avventura, finiranno per andare a caccia assieme (lei non sparerà mai però). “Ho già scritto un libro su La Regina d’Africa, in realtà era su John Huston: pro e contro – scrive l’attrice nel suo memoir di viaggio La regina d’Africa: come sono finita in Africa con Bogart, Bacall e Huston e per poco non ho perso la ragione. – Era un personaggio sorprendente, aveva delle intuizioni improvvise, brillanti; per esempio, mi disse di ispirare la mia interpretazione di Rosie su Eleanor Roosevelt [...]. Aveva capito che stavo recitando in modo troppo serio [...]. Dovevo sorridere. Fu davvero un LAMPO di genio”. 

Anche Paul Newman sulle prime non ne voleva sapere: Huston aveva fatto di tutto per scritturarlo in La Notte dell’Iguana, ma senza spuntarla. Anni dopo ci riprova per un nuovo film, piomba a casa sua e lo convince. “[...] girare L'uomo dai 7 capestri insieme a lui l'anno prima, nel 1972, era stato semplicemente eccezionale. Qualcosa di unico – scrive Paul Newman nella sua autobiografia Vita straordinaria di un uomo ordinario. – Provare con lui era come fare un viaggio di scoperta; aveva grande fiducia negli attori. Per me era veramente stimolante, c'era un sapore diverso, indescrivibile. [...] Credo che Huston non abbia mai pensato che fossi un grande attore, ma un buon attore sì; aveva tanta pazienza. Vicino a lui rimanevo senza parole, forse perché c'era un'aura di aspettativa così tangibile. Era mistico, magico, qualcosa di indefinibile”. 

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