Speciale

Un disegnatore

20 Aprile 2025

Un giorno ho iniziato a disegnare una linea. Ho continuato a tracciarla, portandola in giro per il foglio, – un grande pezzo di carta che occupa, tuttora, quasi tutta la mia scrivania – senza sapere quando avrei finito.

Da quel momento non ho più smesso di tracciarla, solo che non riesco più a ritrovarne la fine, ovvero dov'è che mi interrompo ogni giorno quando, sfinito dalla stanchezza, mi abbandono al sonno. Ormai il foglio è saturo di inchiostro nero, non ci sono quasi più spazi bianchi perché, ogni giorno, come uno spietato cacciatore li vado a cercare e, quando li trovo, ci faccio passare sopra la mia punta.

La penna è finita più e più volte, tanto che ne ho ordinato una scatola, in modo che quando una finisce posso subito sostituirla con una nuova, anche se non tutte vanno come dovrebbero e, mi è capitato, a volte, di trovarne di già scariche.

Il foglio è sempre più consumato, credo che prima o poi sfonderò la sua superficie, non per un gesto metafisico alla Fontana, in modo da aprirlo alla dimensione dell’infinito, ma perché la materia tende a consumarsi quando la si sfrega, e poi, sfinita dall'essere violata, si rompe. Disegnare non è solo lasciare una traccia di inchiostro o di grafite, ma consumare, per sempre, la superficie del foglio (o di ciò che si usa per disegnare). È una pratica non priva di forza e di violenza, e la cellulosa cede facilmente sotto lo sfregare della punta.

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Quello che temevo è poi successo, ma ho continuato a disegnare, tracciando con il nero il tavolo su cui avevo appoggiato il foglio. Non si consumerà dopo pochi giorni come la carta, ma resisterà, credo per anni.

La carta si sta distruggendo, adesso che sono passati diversi giorni da quando ho iniziato (già, ma quanti?). Mi alzo per mangiare, il telefono giace scarico da qualche parte, forse sul divano. Mi faccio portare la spesa a casa, me la lasciano sul pianerottolo, e ai clienti dico, non senza sincerità, che sono molto impegnato con un lavoro monumentale che sto seguendo e che mi prenderà per anni.

Alla seconda settimana sono iniziate ad apparire delle forme dal foglio; erano già apparse, ma mi perdevo in pensieri dei più disparati e il mio agire dei primi giorni era ancora molto meccanico. Fantasticavo, immaginando grandi riconoscimenti, la mia scrivania scarabocchiata e i resti del primo foglio esposti alla Biennale di Venezia. L’opera la vorrei chiamare “La vita com’è”, perché è davvero metafora del nostro affannarci sulla crosta di questa biglia azzurrognola lanciata nello spazio profondo: ne incidiamo la superficie incessantemente, come termiti operose la corteccia, un lavoro instancabile, da fare perché si deve. E così sia.

Ho immaginato un catalogo che spiegasse solo quest’opera, con una mia biografia scarna e una mia foto di quando, esausto, mi ritirerò dal lavoro, godendomi una pensione di riconoscimenti e la villa patrizia sul mare, come un artista famoso.

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Sarò conosciuto come quello che tutta la vita ha scarabocchiato sulla scrivania. 
E nelle interviste dirò, quando mi chiederanno del perché l’ho fatto, che è per mostrare che le nostre vite sono tutte così, a rigare scrivanie, addirittura con minore solerzia e, spesso, con scarso impegno.

Ma so già che non mi capirebbero, che sarei recluso tra gli outsider, gli irregolari, forse tra gli artisti patologici, quelli da studiare per le loro ossessioni. E non da studiare perché avrò rivelato ciò che la vita davvero è.

Questi pensieri, come dicevo, sono spariti da diversi giorni: mi perdo nel disegno, senza più pensare. E la mente sgombra è come un teatro di colori e figure, visioni indefinite che compaiono come fantasmi sul foglio colmo, sollevandosi e danzando davanti ai miei occhi.

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Ho iniziato quest’opera perché volevo capire cosa succede a tracciare un foglio di segni neri fino a riempirlo; studio il disegno, la sua fenomenologia, il come accade, la sua mistica e la sua fisica; filosofeggio da anni che inseguire l’inutile, compiere il niente, sia molto liberatorio e che il disegno sia uno strumento fantastico per raggiungere questo scopo.

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Tristram Shandy di Lawrence Sterne.

In uno dei miei tanti studi mi sono interessato a una delle prime, io credo, pagine nere che ci siano nella storia dell’editoria; non compare, come qualcuno pensa, nel famoso Tristram Shandy di Lawrence Sterne, romanzo anomalo del 1759, sempre in bilico tra scherzo e filosofia. No, compare, almeno in occidente, nello Utriusque Cosmi di Robert Fludd, che si fa presto a chiamare occultista, ma che meglio sarebbe chiamare pensatore. Nel 1617 Fludd volle rappresentare il Niente, la Nothingness, che precedeva la creazione dell’universo e lo fece disegnando dei tratti neri fitti fitti fino a creare un rettangolo scuro, denso, sulla pagina, come un buco senza profondità, alla ricerca del nero assoluto prima di Anish Kapoor. E intorno, a mo’ di cornice, nelle quattro direzioni, scrisse “Et sic in infinitum”, perché quello spazio infinito di cui Fontana con i suoi tagli voleva aprirci le porte, era in realtà un liquame scuro che tutto conteneva, quando ancora tutto era niente.

Volevo capire cosa significava disegnare a mano – con la penna a china e non con il pennello o il pastello, con strumento fine, quindi faticando – un rettangolo nero di grandi dimensioni: nel foglio A3 sarebbe stato di duecentocinquanta millimetri per circa quattrocento. La punta della mia penna fine era di circa un millimetro quindi sapevo di dover tracciare linee per centomila millimetri quadrati, sapendo che ogni linea sarebbe stata di un millimetro: il disegno era anche unità misura del niente e questo mi intrigava.

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Utriusque Cosmi di Robert Fludd.

In capo ad una giornata terminai, lasciando come fece Fludd, una cornice intorno al quadro. Il maestro Malevič aveva forse letto l’Utriusque Cosmi e lì trovato l’idea di fare del quadrato nero un’icona, di cancellare l’immagine religiosa con gesto che chiamò Suprematista?

Ero intento a parlare con Malevič che, altezzoso, mi disprezzava sotto al suo nero cappello floscio da maestro pittore, con quell’espressione che aveva ben immortalato in un suo autoritratto, quando la Nothingness mi chiamò al lavoro.

“Non crederai che sia finita, qui, vero?

Fludd non ebbe il coraggio di continuare, non era interessato se non alle sue intuizioni. Tu, invece, che ti professi disegnatore e che fai cose informi, incomprensibili, scarabocchi e intrecci, di tutti gli artisti il meno importante, uno dei meno apprezzati, aduso a perdere il tuo tempo senza rivolerlo indietro, tu puoi portare a termine il lavoro che hai iniziato.

Per poter comprendere devi disegnare fino a che ne hai la forza, sovrapporre linee alle linee, fare sopra al già fatto, correggere l’incorreggibile, riempire il già pieno.”

Potevo forse non rispondere ad una chiamata tanto allettante?
Quanto avrei capito del disegno e dei suoi misteri?
La vita si sarebbe schiusa come uno scrigno pieno di preziosi segreti.

Fu così che iniziai.

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