Disegno Brutto alla ricerca di Twombly

20 Febbraio 2024

Chiedo il favore al lettore di guardare il disegno in apertura, quanto basta per ricordarselo, dato che è il soggetto dell’articolo.

Essendo fatto di segni e scarabocchi molti sarebbero portati a guardarlo frettolosamente; si provi a dedicargli, invece, un po' di tempo, lasciando che lo sguardo lo osservi con curiosità. Grazie.

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Pratiche di Disegno Brutto a colori, alla vana ricerca di Twombly. (Digitale, Procreate, 2023).

Mi sono messo a disegnare, pensando a Cy Twombly. Voglio provare a capire come facesse a realizzare le sue opere; ne cerco, non dico la formula, ma almeno una sorta di schema, un'intenzione che si ripete, il barlume di un metodo, qualcosa così.

Provo ad agire come so, anzi come non so.
"Del disegno conta solo il processo.
Non si deve giungere ad un risultato figurativo.
Come viene, viene: ci si lascia guidare dall'intuito".

È una dura lotta mantenere fede allo scarabocchio e al segno fortuito, senza volersi nemmeno giustificare in modo psicomotorio e gestuale.

Nel disegno che sto eseguendo emerge qualcosa che non è immediato, e non è un significato. Non ci sono analogie possibili, se non con un cespuglio mal cresciuto.

Ci sono tracce di gesti, ma non sembra rappresentare niente di conosciuto; non ha progettazione apparente, soltanto intenzione e azione.

Si prefigura come un mistero.

È, forse, la raffigurazione dell'insaputo, che sembra sempre emergere nel lavoro del disegnatore?

Forse è l'ultimo velo, quello che mai si può discostare, che sta perennemente a coprire il mio “buco"?

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Cy Twombly, Untitled, 1964.

Sono certo che non sia astrazione, bensì rappresentazione di qualcosa che, come fibra volatile, galleggia sospesa nell’aria; non riusciamo a vederla, ma la inaliamo e così diventa parte di noi. È una materia invisibile, eppure ne intuiamo l'esistenza.

Ogni disegno non figurativo è forse un racconto, che raffigura azioni, emozioni, sensazioni, vibrazioni? Oppure è l'inizio di una visione emergente, come un paesaggio intravisto nella nebbia? 

E se fosse invece sterpaglia tagliata e buttata malamente a terra, lasciata seccare senza nessuna attenzione?

Un'esperta d'arte, proprietaria di una galleria che s'affaccia sull'acqua, mi dice: "Sembra che tu voglia fare Twombly. Oppure Mehretu? Per me non è importante, sono problemi tuoi. Però dovrai metterti in coda, perché l'astrattismo è di moda, lo sai, anche quello fatto di segni e scarabocchi. È tanto di moda che nessuno riconosce una macchia d'unto o lo schizzo di conserva da un segno artistico.

Ciò che è di moda spesso vale poco, si ripete noiosamente, la copia della copia della copia, tutti in coda come agli uffici postali: qualcuno rimarrà chiuso fuori perché arrivato in ritardo e qualcuno non riceverà soldi perché la cassa intanto si è esaurita.

Le buone intenzioni che poni alla base di questo tuo astrattismo personale non sono autentiche, e lo sai bene, perché l'astrattismo è facile, e grande, tu immagini, il guadagno che porta. In molti lo pensano.

Scarabocchia, sputa, graffia, trincia, e senza dover lavorare puoi giungere al brutto che piace. Ci vuole poco tempo, poco impegno, poca tecnica: basta volerlo fare e un risultato giustificabile si ottiene sempre.

È una pittura cinica. Riesce a rappresentare non tanto l'invisibile, ma l'indicibile, ovvero quello che l'artista non riesce a dire a se stesso: che questa è una via breve, che la non figurazione è l'idea più stupida e convincente che ci sia mai stata in pittura, quella che chiunque può fare sua.

E io, lo sai, posso vendere qualsiasi macchia, qualsiasi scarabocchio. Se è banale il male, lo è anche il brutto. Non devi studiare, basta mettersi a fare qualcosa.

A me sta bene. Io sono il mercato."

Devo rispondere, tengo i denti serrati per la rabbia. Voglio dirle che il tempo, per quanto breve, in cui ho prodotto quei segni, mi è costato fatica, turbamento e oscillazioni d'umore. So che questo disegno non ha valore, se non come frammento di un discorso che sto facendo.

Per realizzarlo non ho dovuto solo osservare le opere di Twombly, con attenzione e partecipazione emotiva, provando ad immaginare il momento di inizio dell'opera, quando lui si alzava dalla poltrona con la seduta di velluto, facendo leva sui braccioli per elevare il corpo alto, e prendeva il pennello o il pastello, decidendo di tracciare qualcosa. 

Sapeva o non sapeva quello che stava facendo?

Ho dovuto leggere saggi e cataloghi su Twombly, che sono per lo più in inglese, e poi farmi un'idea più ampia della materia in questione, leggendo – cito a memoria – Dorfles con le sue citazioni in tedesco, Worringer, persino Ranuccio Bianchi Bandinelli, poi i saggi sui primitivi, la fenomenologia di Husserl e le visioni stimolanti di Merleau-Ponty; provandoci con i, per me criptici, scritti di Lacan; studiando ciò che si dice sul paleolitico e su quei selvaggi che sono i bambini; ho dovuto guardare migliaia di scarabocchi e farne anch'io qualche centinaio, bucare e strappare come fece Fontana, rifiutare Pollock e Kandinsky per motivi opposti, optando per la genuina vitalità di Hans Arp, e poi sfogliare libri e guardare mille altre opere, subire le denigrazioni dei parenti, degli altri disegnatori che sono tutti più bravi di me, i rifiuti degli art director, le esclamazioni di disappunto dei miei professori che mai furono miei maestri, le risate dei vecchi compagni di scuola, il disgusto coincidente dei dirigenti comunisti e di quelli liberali. 

Insomma la frustrazione di non saper fare nemmeno a fare male. Ché la perfezione è ardua e irraggiungibile, ma l'imperfezione ci fa annegare nella frustrazione quando è il risultato di pochezza, mancanza, assenza. 

Si deve imparare anche ad essere imperfetti. 

Ancora non sono arrivato a niente, tutto è soltanto una prova: è ancora lallazione, mica parola, è gattonare, mica camminare e saltare.

Mentre si fanno, pare di caderci dentro a questi disegni, fatti di scarabocchi, linee, intrecci e nessuna figura.

Sono buchi e a nessuno piacciono i buchi: tutti vogliono tapparli.

Eppure la pioggia ha bisogno della porosità del terreno per nutrire senza allagare.

Anche la superficie di questi disegni deve essere porosa, perché i segni non scivolino e si possano insinuare nel suolo immaginato.

E poi scomparire.

Il pubblico non può capire il processo di creazione, il come si faccia un disegno così. 

Come si può spiegarlo? 

Non servirebbe provarlo a disegnare dal vivo, come in una performance, perché accadrebbe ciò che accade nel mondo primo delle particelle, dove tutto cambia quando compare l'osservatore: il punto si fa onda e vibrazione, sfuggendo alla percezione e a ogni misurazione.

Inoltre ogni segno tracciato è diverso dall’altro, irripetibile.

Ogni segno è parte di una trama che si svolge continuamente dentro di noi, è tempo che si compone di filamenti e li intreccia, è parte di una complessità che tende il capo oltre l'orlo del quotidiano e si mostra per un attimo, beffarda.

È mai possibile che un insieme di scarabocchi possa essere potente e "bello" quanto una delicata madonna del cinquecento?

"Non essere blasfemo", mi dico, ma in fondo Dio è nelle piccole cose, quindi può essere anche nei filamenti di uno scarabocchio.

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I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer (foto Wikipedia)

Il disegnatore non sa che disegna ciò che non sa di sapere, che non sa di vedere, che non sa di possedere.

Anselm Kiefer potrebbe dirmi che questi segni sono semplicemente rovine. Non sono segni germogliati, freschi, giovani, ma sono sterpi abbandonati al lavorio continuo degli agenti atmosferici; questo disegno è impronta di ciò che resta, non di ciò che emerge. Sono resti carbonizzati di un fuoco che il vento spazzerà via.

La gallerista direbbe che saranno spazzati via dal vento di una nuova moda, che altro non è se non lo spostamento d'aria provocato dalla vorticosa ruota del tempo.

Ascolto ancora le parole di Kiefer, mentre pedala in mezzo ai suoi palazzi sbilenchi, e mi chiedo se questi segni non siano in fondo le rovine dell'Io.

Se sono frammenti di ciò che sono stato, allora i grumi filamentosi potrebbero essere ricordi, così informi perché cambiano nell'intricata elettricità neurale.

Mi chiedo ancora: scappa forse del materiale genetico sul foglio da disegno quando tracciamo segni? E non parlo della goccia di sudore o di saliva dovuta alla fatica e all'impegno, ma di qualcosa che in modo omeopatico si trasmetta per vibrazione dalla penna all'inchiostro e mediante questo si fissi per sempre sul foglio.

Il problema dei disegni come questo è che ci pongono delle questioni quando li guardiamo. Ogni opera umana, che per qualche motivo chiamiamo arte, lo fa. 

Non è specchio inerte che rimanda la nostra immagine, piuttosto è specchio affamato di noi, che può ingoiarci e farci passare in un altro mondo, come successe ad Alice che ne attraversò uno. Le questioni che ci poniamo davanti ad un’opera sono, sì, un riflesso di noi stessi, di ciò che pensiamo e sentiamo, ma sono anche dovute al fatto che le opere sono passaggi dimensionali e non è facile averci a che fare. Non tutte hanno questa multidimensionalità: alcune sono porticine che si aprono su ripostigli di scope, su tinelli di fòrmica, altre sono finestre che inquadrano panorami già conosciuti, altri ancora sono porte il cui passaggio è murato, non sappiamo se per inganno o per nascondere un mistero, altre ancora, la maggior parte, sono soltanto la parvenza, l'ombra, il trompe-l'œil di un passaggio e non servono davvero a niente. 

L'estetica sembra una risposta possibile a una domanda mal posta.

Le opere devono essere dei dispositivi di dubbio e generare ondate di pensieri.

Non so se questo disegno che mostro sia solo una scusa per scrivere un articolo oppure se sia il motore di un pensiero frenetico che fa cadere parole una dopo l'altra, e dire, dire, dire, dire qualcosa che non riesco ad afferrare.

Quanto si può parlare di ogni disegno? 

Soprattutto se nessuno lo battezza come opera d'arte.

Viene il dubbio lecito che questo disegnare, che non è figurativo, almeno non in un modo che noi sappiamo riconoscere, possa essere una sorta di scrittura illeggibile, visto che genera così tante parole, una pioggia volendo interminabile. 

Penso, quindi, alla composizione di scarabocchi e linee qui esaminata come a un chiacchiericcio, a un rimuginìo, a un soliloquio interiore, oppure, a voler essere estremi, come a voci sentite nella mente o al loro eco.

Le opere parlano degli artisti a loro stessi; chi le guarda vi si identifica solo perché vi riconosce il suo di rimuginìo e ha pietà dell'artista, perché capisce che egli non può vivere senza ascoltare questo vociare, anche quando è solo rumore di fondo, e deve farlo emergere per salvarsi e stare meglio. 

Mi potrei arrischiare a pensare che il mio disegno sia la traccia del rumore di fondo dell'universo, filamenti del grande evento primigenio, rimasugli del Caos da cui tutto ebbe origine. Che ogni frammento dell'Io, sia un frammento dell'inizio.

Ma si sa che l'artista, nel momento in cui si afferma tale, può divenire un esaltato che spara all'impazzata, come proiettili, idee e tesi che giustifichino le proprie opere. 

In realtà, non ne so molto più di quanto ne sanno gli altri, quelli che guardano. So di aver usato delle informazioni per creare il disegno, ma si sono perse, confuse o trasformate durante l'atto di creazione. Quando lo guardo, anche io, autore, lo percepisco come un enigma che non si può risolvere.

Ho incontrato Cy Twombly. Passeggiavamo sotto il patio di una villa patrizia. È molto alto, più di me che sono alto. 

Guardando l'orizzonte nel pomeriggio caldo in cui eravamo immersi, mi parlava.

“Sai che il mistico bulgaro Aivanhov scrive di noi artisti di questo tempo che non sappiamo cosa facciamo, che l'arte astratta non esprime nulla, solo delle idiozie, delle assurdità, perché, a suo dire, ‘il ruolo degli artisti è ispirare gli esseri umani per farli tornare alla patria celeste?’”

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Cy Twombly davanti alle sue opere (link)

Preso un respiro, mi guardò con affetto, cosa che non mi sarei aspettato, e poi continuò.

"Quando dipingiamo non lo facciamo mai per noi stessi, ma per il bene dell'opera ed è lei l’unica a sapere perché deve essere compiuta”.

Affannato, mi sono detto che nemmeno uno scarabocchio puoi eseguirlo con distrazione. Ci vuole cura e attenzione, anche nel fare come viene viene. 

Il caso ha una sua eleganza che va saputa curare.

Interrompo il flusso della scrittura per cercare sul web l'immagine di uno di quei dipinti usati dai praticanti del tantrismo come strumento di contemplazione.

Sono sorprendentemente simili all'arte astratta occidentale. Mi ricordo che il termine Tantra vuol dire "trama".

Ne cerco uno in particolare, in cui una sorta di ovoide nero è al centro di un campo neutro; dietro l'ovoide compaiono degli sbaffi di colore rosa, come fossero una corona di fumo cangiante. 

Sono riuscito a trovarlo. Lo stavo guardando da poco, quando l'ovoide ha iniziato a parlare.

"Vedi" mi dice con voce calma "il pittore, il disegnatore, l'artista, deve essere completamente disinteressato all'opera. Ogni opera è anonima.

Ogni artista rappresenta sempre se stesso, ma nei suoi ritratti non è riconoscibile. E i ritratti non sono ritratti.

Quando fai per te, stai in realtà lavorando per tutti.

Più ti sforzerai per fare meglio, più tutti lo faranno.

Sai che l'insulso è la forma più alta di pensiero?"

"Ma quindi, Maestro Ovoide, cosa dovrei fare adesso?"

"L'idea genera le parole. Quando cadranno le parole, genererai una nuova idea. 

Perché le parole non finiscano, le idee devono sempre generarsi.

Se la tua idea è nascosta nei disegni, disegna.

Se la tua idea è nascosta nei sogni, allora sogna."

Finire di disegnare, a volte, è come svegliarsi improvvisamente da un sogno.

Guardo fuori dalla finestra e un vento lieve ha disperso la nebbia. Domani, dicono, tornerà.

In copertina, “Tantra Song”, Franck André Jamme, Siglio Press, 2011 (link).

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