Disegnare con Plotino
Mi scuso da subito con il filosofo o il teologo che si troverà a leggere questo testo. Io sono un disegnatore e come tale i miei pensieri svirgolano continuamente per poter andare dietro alle linee tracciate dalla mia mano; il mio ragionare logico è spesso in affanno, come se inseguissi un cane di cui mi è sfuggito il guinzaglio.
Ci sono giorni in cui mi sembra che i disegni piovano giù sui fogli.
Da dove arrivano questi disegni, mi chiedo?
Piovono dall'alto, il che significa che mentre si disegna, a testa china e collo spezzato, bisogna saper tenere anche gli occhi in alto. L'esercizio è improbo.
Piovono giù da dove non so, scivolano da dentro i libri e gocciolano nel monitor del computer, per acchiapparmi, non con mano adunca da poltergeist, ma con spira di delicato filo di lana mohair, soffice, e cangiante nel colore.
Dopo avermi avvolto, e poi sedotto con un profumo irresistibile, scintillano nella mente e accendono il motore neurale della mano che, volentieri, li realizza, tracciando linee, inventando diagrammi e cedendo allo scarabocchio.
Ad esempio, un mattino come un altro è piovuta qui, sul mio tavolo, la meravigliosa parola greca Ipostàsi, anzi hypostasi (ὑπόστασις) con una suadenza mistica ed esotica. E mi ha suggerito di mettermi a disegnare.
I disegni possono piovere da una parola singolare, che si staglia come scogliera, alta e scura, sopra a un mare di parole d'uso comune. Le parole singolari sono spesso gravide di immagini; sono fertili generatrici di vita che s'insemina nella mia mente e la feconda, sviluppando dopo un tempo variabile, di dolore o di piacere, una forma nuova.
Hanno una consistenza densa ed emanano una fluorescenza che le fa emergere dal tessuto spazio-temporale della noia quotidiana, come le bolle sul melaminico delle mie librerie svedesi quando ci gocciola l'acqua che uso per tenere in vita le piantine.
Ipostàsi è una parola meravigliosa, usata dagli antichi greci per descrivere la sostanza di cui è fatta la realtà, idea poi elaborata da Plotino per la sua dottrina, in cui il mondo intellegibile è formato da tre dimensioni che emanano dall'Uno e da una quarta, che è un decadimento delle precedenti, la Materia.
Le parole come questa non definiscono oggetti, non descrivono immagini, non raccontano storie: sono precise rappresentazioni linguistiche di un'idea che, per sua natura, è invisibile.
Come posso quindi figurarmi l'idea di Plotino, ovvero le varie dimensioni di cui è fatta la realtà, dato che facendolo resterei intrappolato nella dimensione più bassa, la più lontana dall'origine, quella della materia?
Il disegno, per quanto lo si definisca astratto quando tracciamo le sue linee, è fatto di materia: inchiostro o grafite che si posa sul foglio, quindi un liquido che s'addensa assorbito dalla cellulosa oppure una polvere che s'aggruma e si aggrappa alla carta. Pare lo schema di un'idea, ma è già materia, artefatto, esattamente come lo è un'amigdala del Pleistocene: maneggiabile, osservabile, pesante di gravità, insomma reale. Lo aveva capito bene Fausto Melotti quando realizzava sculture che sembrano disegni al tratto, sottili alla vista, ma così pesanti.
Accetto l'impossibilità di stare in un'ipostasi più alta, decadendo nel piano della materia, dove del resto il mio corpo si trova, e provo a rappresentarne l'idea con dei disegni.
Inizialmente la parola mi ispira un galleggiare di piani sovrapposti, che non si toccano e paiono immobili nel tempo e nello spazio.
Ponendomi altre domande e studiando meglio il concetto, sembra che si addica per la sua rappresentazione la tecnica didascalica del diagramma; mi chiedo allora se le tre dimensioni sono collegate o separate tra loro, se sono di natura concentrica, come ebbe a dire Plotino, oppure sovrapposte come un millefoglie, se il tempo agisce in modo lineare o se sono isole emerse contemporaneamente nel grande mare dell'Uno.
E se sono cerchi concentrici, dovremmo vederli dall'alto come in alcune rappresentazioni medievali, quindi adagiati su di una superficie piana, oppure dovremmo sollevarli e guardarli come se di fronte a noi ci fossero dei dischi sospesi nello spazio?
E se sono collegati tra loro, non prenderanno quindi la forma di spirale?
Se sono manifestazioni dell'Uno, non potrebbero apparire come un grappolo, anzi come un tubero che ramifica il suo rizoma infinito, intessendo la sostanza del mondo?
Il ragionar disegnando spinge a farsi domande sull'apparenza, spostando il pensiero analitico verso un territorio d'intuizione infantile in cui si danno risposte a questioni apparentemente banali, come del resto sono le linee che si usano per la rappresentazione.
L'essenzialità appare sempre banale agli occhi di chi non sa guardare.
Intanto la parola Ipostàsi, ancora pregna, risuona dei suoi significati. Penso che stasi è lo stare, l'esistere di per sé, l'essere oggetto stabile in un mondo apparente. Hypo sta ad indicare qualcosa che sta sotto, tanto che in latino la parola era tradotta con substantia, perdendo tutto il lirismo del termine greco. È dunque quel qualcosa che sostiene la realtà, su cui essa si poggia. Plotino sembrava aver usato il "sotto" per indicare che l'ipostasi sottostà all'Uno.
Invece, nella sua accezione moderna diviene una parola negativa, tanto che il fenomeno dell'ipostatizzazione rappresenta un farsi concreto di un concetto astratto, perdendo la sua natura divina o ideale.
È un processo simile a quello che accade con il disegno, che anche quando mantiene un aspetto, per così dire, metafisico, è in realtà concreto e pesante, come concrete in inglese, cemento.
Forse questa stasi è dovuta a un peso, a una sua gravità importante. Quindi immagino le dimensioni plotiniane che oggi si sono solidificate in una sfera pesante e inutile, buona solo a schiacciare.
Arrivato a un punto di stallo del mio ragionamento, crollata ogni ispirazione, mi decido di cercare sul web immagini dell'Ipostàsi, perché se la parola che mi si è imposta in questa buia mattina di marzo è così gravida, avrà ispirato altri artisti che avranno fatto di più delle mie matite senza punta.
Il motore di ricerca delude le mie aspettative e fa apparire molte immagini fotografiche, e ributtanti, di corpi morti, macchiati per ipostasi cadaverica, poi qualche icona di cristo pantocratore che afferma la sua parola di verità, qualche grafico che illustra l'idea plotiniana e anche la strana faccia obliqua di Plotino, finché non scorgo in mezzo a questo mosaico disarmonico una sorta di diagramma, disegnato al tratto, nero su fondo bianco. È un disegno e spero che il suo autore abbia tentato di cogliere l'essenza della parola.
Apro il link, il disegno appare per intero, mi sento affine a quelle due forme che paiono il risultato di una funzione algebrica; sono tracciate a mano: la prima è sospesa senza appigli nel foglio, l'altra se ne sta ritta in piedi, appoggiata alla base. La prima sembra originarsi dal suo vertice in alto, come la radice di un tubero, mentre la seconda è la rappresentazione di un qualcosa che si organizza dal centro. Entrambe sembrano strutture leggere che possono volare via alla minima brezza.
Il disegno è un'opera di Lucio Saffaro, trasversale figura d'intellettuale e d'artista, matematico appassionato di geometrie che rappresentava in modo mirabile e onirico in piccoli dipinti e disegni, alla ricerca della determinazione di nuovi poliedri.
Laureato in fisica pura, coniugò il sapere matematico con l'arte in un modo mirabile, tanto da esporre alla Biennale di Venezia del 1986.
Forse per un matematico, avvezzo all'astrazione, è stato più facile rappresentare un concetto così vasto. La sua ipostasi è ben diversa dall'idea plotiniana e ancora di più da quella cristiana. Forse il disegno è stato soltanto ispirato da quella parola, che lo ha generato come fosse una sua manifestazione, senza che l'artista agisse con pensiero logico.
Faccio una nuova ricerca, utilizzando però la dicitura greca "hipostasi" associata ad "artwork", sperando che mi dia la soddisfazione della scoperta di sorprendenti opere d'arte. Invece appare sul monitor un caleidoscopio di immagini, nessuna delle quali particolarmente interessanti: un miscuglio di personaggi manga dagli occhi grandi, di rozze astrazioni, di esoterismi oscuri e di figurazioni poco ispirate; finalmente, lì in mezzo, un'immagine cattura la mia attenzione.
È un'icona russa del 1700 con un cristo trifronte, in cui tre facce sono fuse insieme e creano un essere umano che ha quattro occhi e tre nasi. È intitolata "La Trinità dell'Ipostatica di Tobolsk" e rappresenta l'unione ipostatica della natura umana e divina secondo la dottrina cristiana, anche se qui siamo in territorio ortodosso; l'immagine non ha nessuna tensione verso l'alto, nessuna idea divina da condividere: la triplice faccia è ornata da frangette tagliate alla stessa misura, il quadruplice sguardo ha una strana fissità. Ha un aspetto tutt'altro che ieratico.
Forse l'unione fu malriuscita?
Questo tipo di iconografie, che davano spesso risultati grotteschi, venne vietato da Papa Urbano nel 1628, ma l'eco della censura forse non giunse in Siberia. Tobolsk ne fu la capitale: ha dei grandi palazzi settecenteschi bianchi come il latte e nei suoi dintorni, oggi, se ne stanno allineati tanti mulini a vento grigi.
Mi pare che questa strana creatura deforme non possa rappresentare l'ipostasi cristiana, dove il verbo, ovvero il Logos, si unisce, forse sublimandosi, forse fondendosi, con la natura umana; la perfezione cade nell'imperfezione e l'imperfetto gode di una luce mai posseduta. Il linguaggio religioso usa il paradosso di evocare delle immagini che non possono essere rappresentate e nemmeno immaginate, visioni che vanno oltre il conoscibile, in una dimensione di mezzo che solo i mistici riescono a scorgere. Il disegno, la matita, ma anche i pennelli, sembrano inutili e inadatti a tali imprese, perciò quando ci provano rischiano il grottesco e il ridicolo, a meno che non scelgano la via dell’essenza invece di quella dell’apparenza.
Il risultato della mia ricerca non è stato vano, ma la scarsa quantità di immagini trovate mi conferma l'idea che ci siano parole che bloccano e inibiscono una loro rappresentazione.
Con "mucca" avrei avuto meno difficoltà, anche con "ipofisi" o "ipotesi"; ma ipostasi è una prova troppo ardua. La metafisica non è raggiungibile per via iconica, anche se i disegni fatti a china, come quello di Saffaro, specie quando hanno poche linee, sono manufatti che galleggiano nel silenzio e sembra che in quel non-luogo possa avvenire l'incontro tra Logos e Materia.
Capita, infatti, che il processo creativo si muova stimolato da parole singolari come quella sin qui analizzata: ce ne sono di gravide, di luminose, di lontane e irraggiungibili, di deliziose, di terrificanti, di silenziose, di monumentali, solo a voler elencare sommariamente quelle che meritano la nostra attenzione; la maggior parte delle altre parole che si susseguono in un vocabolario sono solo operaie che fanno il loro lavoro di trasportare un significato da una parte all'altra, come muli instancabili.
Il disegnatore è portato a pensare che può disegnare ogni cosa, conosciuta o sconosciuta, visibile o invisibile, concreta o astratta. È in gara con lo scrittore che con le parole sa di poter definire e descrivere tutto. Quando ho provato a raffigurare l'ipostasi ho dovuto scrivere il suo nome nel disegno, altrimenti sarebbe stato solo una sovrapposizione di linee colorate, a ben pensare nemmeno una grande idea.
Il linguaggio parlato sembra sconfiggere il disegno, la metafisica non è materia per le linee. Molti artisti hanno definito le loro opere come metafisiche, ma in realtà lo sono diventate definendole così attraverso la parola, perché, etimologicamente, metafisico è ciò che è oltre la fisica.
Il disegno sembra essere paradigma della caduta delle idee, dalle ipostasi più alte allo sporco piano della materia, niente più che linee fatte di polvere nera che il vento può riconfigurare in mille modi diversi o spazzare via.
Potrei dirmi sconfitto come disegnatore oppure raffigurarmi come angelo caduto, se avessi una visione superlativa del mio lavoro e così alleviare il senso di impotenza.
Invece mi tranquillizza sapere che le linee che ho disegnato non esistono, se non sul mio foglio, che l'ipostasi è qualcosa di inafferrabile dalla mia mano, ma sperimentabile nella mia coscienza.
E credo che il disegno non sia il risultato del decadimento di un'idea nel piano della materia, ma che sia un incontro felice che avviene in una regione un poco più alta.
Il disegno, infatti, è uno strumento di conoscenza quando ci permette di esplorare la realtà per cogliere qualcosa che al ragionamento logico sfugge, un'intuizione, seppure minima, di quello spazio da cui si possono intravedere gli ultimi bagliori dei raggi luminosi che emanano dall'Uno, senza rimanerne accecati.
La pittura e la fotografia creano delle immagini che facilmente il nostro occhio interpreta come rappresentazioni della realtà visibile; quand'anche siano astratte o incomprensibili, sembreranno sempre arrivare da zone inesplorate, o dimenticate, di un universo conosciuto.
Il disegno fatto di linee, essenziale e scarno, al contrario, non crea immagini che emergono dalla realtà visibile. Utilizza un codice che accettiamo come plausibile; quando disegniamo traduciamo una visione mentale o percettiva in segni grafici che, combinandosi, creano delle immagini significative, figurative o astratte che siano.
Il disegno si inserisce, quindi, in una terra di mezzo tra il linguaggio, scritto e parlato, e il pensiero visivo. Potremmo definirlo un terzo pensiero che arricchisce la nostra conoscenza, una terza via alla rappresentazione che ci conduce in territori di esplorazione e ragionamento ulteriori e insoliti, una sintesi essenziale del reale.
A questo punto credo che non sia stato un caso che mi sia messo a disegnare a partire dalla parola Ipostàsi, perché mi sembra di aver scoperto che il disegno possa essere una fusione mirabile tra l'astratto mondo delle idee e quello della materia.