Amleto: lo schermo e lo specchio

21 Aprile 2025

Qualche giorno fa, tornando in Italia in treno, guardavo il paesaggio dal finestrino; sovrapposta a quella di montagne e valli, nel riflesso del vetro si proiettava l’immagine della persona seduta nella fila davanti alla mia – entrambi i sedili erano orientati in senso di marcia, per cui io non avrei potuto vederla in viso se non in quel riflesso. Lei, a sua volta, come in un gioco barocco, si specchiava su un’altra superficie, quella del suo telefono: si stava truccando. Ignara del fatto che io la vedessi, il suo telefono non le restituiva il mio sguardo. Lo schermo del telefono mostra ciò che la camera inquadra; uno specchio, invece, riflette con tutta la sua superficie, ampliando gli angoli di prospettiva, offrendo un panorama più ampio delle cose. Uno schermo ti fa vedere solo ciò che vuoi vedere; uno specchio, invece, ti fa vedere anche ciò che non pensavi avresti visto.

Il 21 febbraio è uscito sulla piattaforma Mubi Grand Theft Hamlet: premiato con il riconoscimento della Giuria al South by Southwest Film Festival di Austin, il documentario di Pinny Grills, girato tutto in machine animation, racconta l’esperienza di due attori britannici che – com’è facile intuire dal titolo – cercano di mettere in scena l’iconica tragedia di Shakespeare all’interno di un videogioco altrettanto iconico. L’idea era venuta a Sam Crane e Mark Oosterveen durante il lockdown che ha chiuso i teatri nel 2021: se nel mondo reale tutto era fermo, in quello virtuale le cose continuavano, e alla grande. GTA è un universo costruito per muoversi con una certa libertà decisionale, interagendo con l’ambiente e con gli altri players: è, cioè, un open world, e questo mi sembra già un concetto interessante; soprattutto perché per Shakespeare – l’abbiamo visto il mese scorso – tutto il mondo è un palcoscenico, per cui “open world” finisce qui per essere sinonimo di “open stage”. E infatti al casting per Hamlet partecipa chi vuole, a prescindere dalla propria esperienza attoriale: in fondo cosa si fa nella second life, se non recitare tutto il tempo un personaggio? Un personaggio costruito su misura, dotato delle caratteristiche fisiche e psicologiche che più si confanno a chi gli dà “vita”. Donna, uomo, animale o alieno... il gioco ti offre l’occasione di assumere la forma che preferisci e lo schermo quella di vederti come davvero vorresti essere visto.

La possibilità di avere a disposizione una realtà alternativa, in cui essere chi si vuole e fare ciò che si vuole, si contrappone impietosamente alla frustrazione cui questo (brutto) mondo ci sommette. Immaginatevi un po’ la libertà che può trovare in GTA un attore che vuole mettere su uno spettacolo... Abbiamo bisogno di un grande teatro? C’è un grande teatro: la replica dell’Hollywood Bowl, e senza che nessuno venga a chiederci di pagare un affitto, senza necessità di organizzare un planning delle prove e soprattutto senza problemi di budget per i costi di produzione. Con pochi click possiamo avere come sfondo un cimitero o un promontorio sul mare; possiamo ambientare una scena all’interno di un’auto e la seguente sulla sommità di un dirigibile, senza dover scervellarci su come farlo entrare all’interno di una sala – ah, per chi fosse interessato a questo genere di cose: un paio di anni fa, Florentina Holzinger ha ficcato un elicottero sul palco della Volksbühne nel suo strepitoso Ophelia’s Got Talent, altro spin-off hamletiano, come potrete evincere dal titolo (e ancora in repertorio nel teatro berlinese, per chi voglia). Insomma, nel gran teatro dell’open world tutti i sogni sembrano possibili, compreso quello inconfessabile di ogni spettatore e spettatrice (e di ogni regista): sparare a bruciapelo e senza tanti complimenti agli attori quando recitano male, o semplicemente quando ti annoiano. Già, sparare, più che sparlare – altra attività che in teatro abbonda: perché se la lingua ferisce più della spada, di sicuro lo fa meno di un kalašnikov. In questo mondo più marcio della Danimarca, tutti si ammazzano a colpi d’arma da fuoco e tutti muoiono sanguinolentemente, nella tradizione della miglior tragedia elisabettiana; ma poi, proprio come in teatro, tutti tornano a vivere: è un gioco, si muore solo per finta. Nei videogiochi, i misteri dell’esistenza paiono incredibilmente a portata di mano, o di mouse, con il cursore che diventa l’equivalente della bacchetta magica; mentre sullo schermo vediamo scorrere davanti ai nostri occhi una vita piena di possibilità, (quasi) tutte realizzabili, e una morte che, non essendo la fine di alcunché, non fa paura. Tutto sommato, mi pare che con la tecnologia stiamo cercando di esorcizzare proprio la nostra enorme paura della morte, e quella ancor più enorme della vita. E gli usi verso cui si sta indirizzando l’intelligenza artificiale mirano sempre di più a costruire per noi un mondo del tutto personale e personalizzato, in cui agire indisturbati e impuniti, al riparo dall’ingombro di dover entrare in relazione con gli altri, dal peso delle norme e dall’ostile realtà reale delle cose. Ma sarà poi vita, questa...? Avrà ancora senso il vecchio caro dubbio amletico dell’«essere, o non essere»...? Di sicuro, sentir pronunciare questa battuta da un avatar fa un certo effetto.

Identità e libertà sono i grandi problemi di Amleto, eterno adolescente ingabbiato nelle maglie troppo strette della sua realtà, che cerca una via d’uscita nell’immaginazione e la trova, pensate un po’... nel teatro! – se la cosa vi stupisce, considerate che nessuno gli aveva mai regalato una PS5, e che nel lugubre castello di Elsinor a quei tempi non arrivava la connessione veloce. In una delle sue più celebri riflessioni, Shakespeare fa dire al nostro protagonista (che in fondo è un po’ il suo alter ego, cioè, per l’appunto, il suo avatar) che il fine del teatro «da quando è nato a oggi, è di regger lo specchio alla natura, di palesare alla virtù il suo volto, al vizio la sua immagine, e al tempo e all’età la loro impronta». Teatro come specchio della natura: a che pro Amleto mette in campo questa dichiarazione di poetica? Vi ricordo brevemente l’antefatto: il giovane principe di Danimarca è stato spodestato dallo zio Claudio, che si è preso il trono sposando Gertrude, madre di Amleto e fresca vedova di Amleto Senior; che Claudio, ingrato fratello, ha fatto fuori senza troppi complimenti con il beneplacito di lei. Lo sanno tutti ma, come al solito, nessuno dice niente. Bisogna dunque che in qualche modo l’assassino riveli la sua colpa, ancor meglio se in pubblico. Ad Amleto viene in mente di organizzare una rappresentazione del delitto: chiama a corte una compagnia di comici e fa loro recitare una scena scritta di suo pugno, che si avvicina pericolosamente alla ricostruzione dei fatti. I colpevoli, naturalmente, nel riconoscersi in quei personaggi, si sentono male e abbandonano la platea. Così Amleto corre nelle stanze private di sua madre, intimandole di non muoversi «prima ch’io v’abbia messo avanti agli occhi uno specchio nel quale rimirare la parte più segreta di voi stessa». È questo il potere del teatro: spezza la bella illusione dietro cui ci proteggiamo nella quotidianità e ci mostra non quell’immagine confortante di noi con cui baldanzosi ci facciamo scudo in pubblico, ma quella parte intima e nascosta, che nessuno vorrebbe vedere e far vedere. Quell’immagine non ancora visualizzata che, nello “specchio della natura”, si rivela invece pericolosamente nel lampo improvviso di una lucida coscienza.

Con la scusa che al Piccolo Teatro di Milano sono in corso le celebrazioni in ricordo della politropa figura di Luca Ronconi a dieci anni dalla scomparsa, sono tornato a guardarmi il capolavoro che il regista montò in due occasioni (nel 1987 e nel 2002) a Ferrara: quell’Amor nello specchio di un contemporaneo di Shakespeare, Giovan Battista Andreini (1576 – 1654), con Mariangela Melato come protagonista e con altrettanto protagonista il Quadrivio degli Angeli, uno scorcio di città per l’occasione completamente pavimentata di specchi, in cui si rifletteva, tra le altre cose, la splendida facciata del Palazzo dei Diamanti. La storia è semplice: la bella Florinda è innamorata solo della sua immagine, che mira e rimira allo specchio, senza curarsi dei suoi pretendenti; finché la superficie riflettente non le mostra il volto di Linda, che invece sospira d’amore, non ricambiata. Florinda si innamora di Linda, che tra l’altro ha un fratello gemello del tutto indistinguibile da lei. Qui il teatro come specchio della natura moltiplica l’illusione, proiettando un’immagine caleidoscopica del reale, instillando il dubbio che anche il reale potrebbe essere, a sua volta, ingannevole. Ma nel teatro barocco tutto è sogno, ombra, finzione, gioco; e l’immagine nello specchio, così nitida e allo stesso tempo così effimera, così vera e allo stesso tempo così falsa, è la figura che meglio rappresenta questa condizione così ambigua e allo stesso tempo così indiscutibile che è la caducità dell’esistenza umana. Un secolo fa, Ramón María del Valle-Inclán, geniale drammaturgo modernista, celebratissimo in Spagna (a lui è intitolata una sala del Centro Dramático Nacional di Madrid) e purtroppo semi-sconosciuto da noi, sosteneva che la dimensione tragica spagnola non si poteva riflettere se non in uno specchio concavo. La deformazione grottesca del reale che ne risultava era un esperpento, termine che avrebbe identificato la produzione letteraria successiva dell’autore e che è poi entrato stabilmente nel vocabolario castigliano, dove ancora oggi si usa con una certa frequenza come sinonimo di “grottesco” o “assurdo”, ma con un che di poetico. Esperpentica è, dunque, l’immagine distorta capace di rivelare la vera natura del reale: un reale non certo bello, non certo armonioso, non sempre comprensibile; un reale scomodo, ma con cui non possiamo non fare i conti.

Che lo specchio possa gettarti in faccia proprio ciò che non vorresti vedere e ciò che non vorresti sapere lo sa bene Grimilde, la perfida matrigna di Biancaneve tornata polemicamente alla ribalta proprio in questi giorni con il live action firmato da Mark Webb. È lo specchio magico a tenere testa alla vanitosa regina, assicurandole che è la figliastra, e non lei, la più bella del reame; ed è sempre lui a rivelarle che Biancaneve è viva e vegeta e sempre più bella, perché sempre più buona. Uno specchio un po’ socratico, insomma, che scontenta la sua interlocutrice e fa emergere maieuticamente una delle verità più difficili da accettare: non possiamo essere sempre delle belle persone. In cuor suo, queste cose Grimilde le sa, e forse le sapeva da sempre: quel pezzo di vetro incorniciato non fa altro che portare alla superficie un rimosso, un territorio inesplorato del suo inconscio. È come se lo specchio rimandasse a Grimilde le risposte a domande che lei evitava, o che non aveva il coraggio di formulare – ma poi la formula magica, quell’impasto di parole spesso senza senso, non è sempre il simulacro fonetico di una verità impronunciabile...? Lo specchio magico dà allora forma all’informe, scatena il componente dionisiaco di un desiderio inespresso, nell’immagine apollineamente ben formata che si staglia all’interno della cornice. Come a dire che, in fondo, la verità sta sempre in quello che ancora non si è rivelato.

Ironia della sorte, mi pare che lo specchio magico sia l’unico personaggio di questo nuovo remake che non scontenti nessuno. Ma, forse, solo perché non si è espresso su Gaza e Israele, su Russia e Ucraina, sugli Stati Uniti e l’Europa, su Erdogan e İmamoğlu. Chissà quante verità scomode e interessanti potrebbe dirci, se lo interrogassimo con le domande giuste.

Per saperne di più

Grand Theft Hamlet è disponibile sulla piattaforma Mubi; io l’ho scoperto grazie a un prezioso articolo di Lucia Tedesco su “Wired”. Restando in tema di fonti digitali, e immergendosi nelle celebrazioni ronconiane, vale la pena riscoprire il bell’archivio allestito dal Centro Teatrale Santa Cristina, di cui qui il link allo spettacolo menzionato: https://lucaronconi.it/scheda/teatro/amor-nello-specchio. Di Shakespeare consiglio sempre le traduzioni di Agostino Lombardo per Feltrinelli. Il capolavoro di Valle-Inclán, Luci di Bohème, è invece pubblicato in Italia da Marchesi.

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In copertina, opera © Christiane Spangsberg.

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